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FRANCO FORTINI, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2014, pp. LXIV, 858, € 22.

 

Un poeta inconsolabile, che sa guardare alla realtà ed esserne guardato, con quella spietatezza propria dell’immaginazione analitica e dell’attenzione sintetica. Un poeta che quando è giunto a consegnarci il suo testamento ha scelto come epigrafe il dolore del mondo e dell’uomo, restando fedele alla linea di un verso icasticamente proteso fra due sponde di realtà, perennemente in conflitto. Tutto resta, non come una scoria o qualcosa di intrusivo – tutto è come il particolare nell’universale, la mutazione perenne della specie e della società. Eventi che affiorano sulla pagina con la quotidianità o l’esercizio della pronuncia e diventano gli oracoli sottili di Composita solvantur, libro che chiude il doppio fuoco interiore della poesia fortiniana, la cadenza inequivocabile e clandestina di un testimone del proprio tempo e del suo spirito. «Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono: / “Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi. /Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,/rami e radici fra le carte avranno scampo”. // Ho detto di sì a quella loro domanda /e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda. /Con le foreste riposerò e le erbe sfinite, /vinte innumerabili armate che mi difendono»: non c’è disforia e non c’è redenzione, la consapevolezza è l’unico sguardo che chi scrive rivolge alle cose aspettandone un riflesso, cercando di conciliare le più cupe possibilità con il transito e tutto l’esserci dell’individuo. «Se volessi un’altra volta queste minime parole /sulla carta allineare (sulla carta che non duole) /il dolore che le ossa già comportano // si farebbe troppo acuto, troppo simile all’acuto /degli uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto /sull’altissima magnolia si contendono. // Ecco, scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso /che non dica in nota acuta: “Più non posso”. /Grande fosforo imperiale, fanne cenere», si legge ancora in Composita solvantur. Svolgendo uno degli spunti più fecondi contenuti fra le recensioni che hanno accompagnato l’uscita di Tutte le poesie di Franco Fortini, ovvero il suggerimento di Niccolò Scaffai per cui si rimanda alla definizione di ‘imperdonabili’ data da Cristina Campo, è certamente vero che possiamo comprendere la dimensione di contiguità tra giustizia e destino rivelata in controluce dall’opera di Fortini, a partire da Foglio di via fino ad arrivare all’ultima e già citata raccolta. «L’arte d’oggi – scriveva Cristina Campo – è in grandissima parte immaginazione, cioè contaminazione caotica di elementi e di piani. Tutto questo, naturalmente, si oppone alla giustizia (che infatti non interessa all’arte d’oggi). Se dunque l’attenzione è attesa, accettazione fervente, impavida del reale, l’immaginazione è impazienza, fuga nell’arbitrario […]. Per questo l’arte antica è sintetica, l’arte moderna analitica; un’arte in gran parte di pura scomposizione, come si conviene ad un tempo nutrito di terrore. Poiché la vera attenzione non conduce, come potrebbe sembrare, all’analisi, ma alla sintesi che la risolve, al simbolo e alla figura – in una parola, al destino»: pur con la dovuta cautela potremmo dire che l’intransigenza di Fortini nasce da un’esigenza piuttosto simile, se anche Luca Lenzini nella sua introduzione a Tutte le poesie sottolinea l’esigenza di leggere separatamente, o perlomeno affiancate, ma non sovrapposte, l’attività di critico e quella di poeta incarnate da Franco Fortini. Il rischio rimasto irrisolto, infatti, che riguarda soprattutto la coerenza del rigore marxista e l’impostazione di un classicismo non di maniera, dialettico, scritturale nella sua risolutezza, rappresenta l’essenza europeista di un carattere forgiato al fuoco congiunto di pensiero e scrittura. Altri termini poi sono stati usati per inquadrare un lavoro poetico tormentato e complesso, dall’«epica contemporanea» rilevata da Giuseppe Lupo, oppure il nesso fra «anacronismo» e «vitalità» riscontrato da Galaverni, per i quali semmai si rende necessaria la sintesi della rappresentazione: lo stesso concetto di sintesi sembra inficiare i moduli di una dialettica continua del tutto inconciliabile, dal momento che, come ben dimostra Lenzini, il principio cardine dell’allegoria scaturisce da una passione ineliminabile verso l’arte, se come quella «non si lascia definire in termini di trasposizione o equivalenza». Parlando di Gianfranco Ciabatti, Fortini sosteneva che «secondo un antico e moderno consiglio [la poesia nasce] da una sovrabbondante e indignata energia di prosa», e la prosa, insieme all’inviolabile presenza del ritmo, costituisce l’anima del grande tableau rappresentato ad esempio nelle quattro parti di Una facile allegoria, dove il movimento distensivo e la nettezza delle immagini distingue la sostanza del proposito fortiniano dal principio d’individuazione caratterizzante il modello eliotiano: le immagini corrosive dei Quartetti di Eliot, infatti, mantengono na natura ambigua rispetto alla loro funzione di simbolo, mentre la materia che sostanzia il dire di Fortini è di per sé già corrosa, e quindi chiara, la finzione coincide con la rappresentazione, per cui spesso, come all’interno ancora una volta di Poesia e errore, l’allegoria viene tradotta sintomaticamente in «parabola». Il gesto, l’introduzione della funzione-autore all’interno delle figure, dimostra altresì la qualità morale ed etica insieme di un atteggiamento che non riesce ad eludere la sua vocazione alla dottrina, pure stemperata dalla vividezza delle forme e dalla forma della composizione, persino quando la voce arriva al momento risolutivo, al motto sentenzioso: «Legna e carbone, calore futuro, disgregata vivezza! / Inariditi morendo per stagioni e stagioni / diverremo realtà compatte leggere, arderemo / sino al nido dell’ambra, alla fibra del tarlo. / Ogni anno del libro una parola, / ogni sigillo di delusa storia una sillaba luminosa, / in fiamma alito aria / tutta tramuterà questa sostanza; / e quella che ora ti reco quasi opaca eco sarà / lo strido d’uno spirito, / un grido acuto e sommesso nel cuore degli altri». L’allocuzione si trasforma in coscienza del futuro, rilevamento di una certezza, mentre semmai è la simbologia dell’apocalittico (il libro, i sigilli) a diventare ipostasi di un presente indecifrabile e per questo insolubile e insopprimibile, la protrusione dell’elemento surreale nel contesto di una realtà visibilissima, l’aria della fine. Quella di Fortini è la testimonianza di un’arte che lavora alle tempie mentre accalora non solo la testa, ma la condizione non acquiescente e viscerale dell’essere, persino quando un’immagine di per sé così combusta come la rosa diventa qualità assoluta di cose e soggetti, quintessenza di una campata imperitura, purché si mantenga in essa ineliminabile il guizzo e la prassi della storia (e quindi del destino): non il simbolo dell’eterno imperituro o dell’assenza come era ancora in Luzi o, all’estero, in Jimenez, ma l’invocazione della realtà stessa («Rose, rose di polvere, quanta durezza / nei ceppi a notte, rose arcuate / di spine quali i tendini robusti / e i muscoli disseccati della ragazza / che nell’auto seta manovra e cuoio / ma molle se un abbagliante la sbatte ma maculata / lungo la gola come le rose contuse / nel lavorìo di mezzanotte e ortiche». Le rose sono un modulo della rappresentazione, sia dal punto di vista cromatico che rappresentativo (la rosa/ombra/macchia/contusione). Lo spazio del poeta è simile al nastro su cui si registri un percepire sempre passibile di alterazione, perché è lo strumento stesso della registrazione ad esserne parte viva del movimento razionale del dubbio, non in quanto lingua ma come linguaggio. Uno spazio deperibile temporalmente, simile in tutto al presente in cui si manifesta e che descrive: «Qui abito / dove una notte l’incenerirsi del secolo / persuade, e mi stermina lenta e tremo» (così ancora nell’ultimo movimento dalla Poesia delle rose da Una volta per sempre). Il fine di tutto è, ancora una volta, la coscienza («Chi siamo stati / sapremo e senza dolore»), nonostante il cammino appaia immediatamente segnato dalla continua ‘distrazione’ della modernità («Già verso di noi/ quel che vi parve favola viene e sarà, / figli di questo secolo, ironie»), nonostante lo sguardo cada prima della sua avventura, come accade in Paesaggio con serpente, sebbene lì si agiti un moto diverso, quello dell’orgoglio e del supplizio che sorprende sempre l’individuo («Lo sguardo è là ma non vede una storia / di sé o di altri»). Il poeta Fortini diventa allora l’«ostinato», l’emblema e l’epitome di una costante ‘vigilia’, quando i sussulti diventano soprassalti della storia, tramutata anche in fatto minuto, in evento di nessuna rilevanza, ma portatore d’inquietudine, in continua mutazione per la qualità del vedere («Qualcuno è fermo, lontano, riparte, dove / la strada svolta nel bosco tra piante e siepi. / Poi rieccolo, tra le vigne, più lontano. Non vede / o, se vede, non conosce più»). C’è qualcosa di sacro, quindi, o di non-accessorio rispetto alla prassi della vista, che riesce a trasformarla nel racconto ulteriore della realtà: c’è qualcosa di ripetitivo e forse di estenuante che invita ancora una volta a mettere a fuoco, a ritornare sul medesimo punto senza staccare l’attenzione dal centro di ciò che si palesa indistinguibile («Ma prima di rispondere di no, / ecco, guardiamo ancora, vi prego, i prati / dove in pianto eravamo passati»). Persuasione e fedeltà, sono questi gli estremi che si toccano nell’oratoria di Fortini, e se c’è un esempio, un’eredità che finalmente la sua opera può trasmettere alle nuove generazioni, al di là del bene e del male, al di là dei sistemi e delle ideologie intese come prodotto della storia, è proprio questo: la preghiera compìta del tempo, l’accettazione mai pacificata di quello che di noi passa nei giorni e in essi si muta, fino alla conciliazione del vero, che non può essere mai, forse, se non in prossimità di quello che si cerca. «Noi dunque conosciamo che la rosa è una rosa,/ la parola una cosa, il dolore un discorso,/ che la voce più sola accorda molte grida,/ che ogni cuore ricorda quante anime ha percorso. // Ma stretti all’ignoranza, al pianto e alla vendetta / impotente crediamo che il male in bene torni… /Il vero è altrove: e aspetta d’essere amato, viene/ e va, come il mattino che per noi prega il giorno»: sta qui tutta l’ortodossia e l’eterodossia di un messaggio inviato fin dal 1954 Ai poeti giovani, privo di qualunque mistificazione consolatoria.

                                                                                                           (Marco Corsi)
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