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EUGENIO DE SIGNORIBUS, Memoria del chiuso mondo. Con una nota di Andrea Cavalletti, Macerata, Quodlibet 2002, pp. 45, € 7,00.

 

È già tramontata la pur esile Utopia albale che si affacciava in Principio del giorno (Garzanti, 2000). E sembra spenta, per la poesia di De Signoribus, ogni possibilità «istmica», contraendosi l’antitesi della penultima raccolta, Istmi e chiuse (Marsilio, 1996), nella Memoria del chiuso mondo, in Altre chiuse (seconda sezione del libro). La nota d’autore palesa la cronologia compositiva di un poemetto – «scritto per buona parte nella notte del 18 novembre 2001, rivisto e completato dal 24 al 30» – che si presenta quasi come la cronaca di un Natale apocrifo, gnostico: nel «creato degli orrori ». Rimane, dell’attesa millenaristica, non la speranza in una palingenesi, ma la coscienza, dal distico d’apertura, di un’apocalissi continua: «Ogni anno o mille dopo / un mondo si richiude». È la coazione a ripetere di guerre sempre più aggressive, da un decennio all’altro, da un anno all’altro, di padre in figlio. La serie Belliche, in Istmi e chiuse, è del gennaio ’91. L’occasione storica lega immediatamente il poemetto, sollecitato dalla guerra afghana del 2001, al Fortini delle Sette canzonette del Golfo: «Le Canzonette del Golfo sono del 1991. In quell’anno, oggi quasi fatta dimenticare, una operazione di ‘polizia’ tra il Golfo Persico e Baghdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo nuova èra nelle relazioni internazionali » (Composita solvantur). Tre dei componimenti fortiniani (Ah letizia...; Se la tazza...; Se mai laida...) sono in strofette di ottonari assai prossime agli ottonari, in ventidue sestine, di De Signoribus. Ma alla «mesta ironia» (Lontano lontano...), alla dolente ‘distanza’ - «un altr’anno, e il suo peggio, svanì» (Come presto...) – di quella poesia e di quella nota, dettata in limine mortis, si oppone la caparbia volontà, per De Signoribus, di denunciare, di lasciare comunque memoria: «Questa memoria – o forse meglio memorietta – è dedicata a quei popoli inermi e spaventati che si ritrovano a subire le devastanti   guerre delle cosiddette superpotenze... Secondo il costume dei tempi» (Nota a Memoria del chiuso mondo). Una «memorietta » che non esita dunque a presentarsi come poesia civile, politica: Musichetta politica si intitola il saggio allegato di Andrea Cavalletti, e auspica, per una poesia il cui «tenore di verità è [...] politico [...] una critica non più letteraria». La plaquette ha una singolare volontà di essere libro, di significare nel dettato dei versi e per come è costruita. La netta bipartizione inverte la cronologia (indicata dall’autore in calce ai testi): il poemetto eponimo, novembre 2001, è seguito da quattro componimenti (Altre chiuse), le cui occasioni e stesura risalgono invece dal 1997 (il primo) al 2000-2001 (gli altri tre). Nel giornale in versi che il poeta va allestendo, l’immediato presente dei «popoli inermi» urge più dell’antefatto. Alla sfasatura cronologica si accompagna, sottolineandola, la diversa forma delle due parti. Le quattro poesie in chiusura hanno il respiro del verso lungo, dei «nonversi » già sperimentati in Giornale (titolo, e quasi designazione di ‘genere’, dell’ultima sezione di Principio del giorno). L’«impalpebrita mutezza», la sordina dell’ «inermità» di De Signoribus, cede sempre più a un dettato fraterno ma increspato dalla rabbia: «è, questo, un luogo / abitato da popolini così cristiani, così liberali, / da temere quei tristi pellegrini come i ladri delle loro / botteghe, come gli assassini dei loro figli...» (traversare); «e ciascuno, mentre / i rituali sommariamente scorrono, graffia dentro di sé / un irriducibile, un risorgente No!» (punire). Si infittisce, come in Giornale, l’«assordante / silenzio» degli effetti di sospensione (mirabile l’uso dei puntini). Nelle sestine della prima parte, qualcosa, forse il precipitare degli eventi, contrae il dettato cronachistico e meditante della seconda nelle forme semplici di «un’aria da girotondi », come l’ha definita Giudici, in una filastrocca dissonante, straniata: «tutti dentro gli assassini / gli assassini tutti fuori»; «colpi in testa colpi in schiena / va la vita alla bilancia...». Echeggia appena il ricordo di quando si confusero slogan e poesia, e sul cantabile di De Signoribus, sulle Arie e contrarie di Principio del giorno si incide il ritmo nevrotico, sinistro di «cingolanti musichette»: «la vendetta ora è normale / dice chiaro il comandante / mentre il bianco generale / parla stanco e intermittente...». All’impegno memoriale e politico fa riscontro, secondo l’archetipo dantesco, una poesia potentemente mimetica, un ‘dantismo’ non più purgatoriale (com’è stato suggerito per Istmi e chiuse e Principio del giorno) ma dichiaratamente infernale: «le maggiori van per l’acqua / come ombre di dannate...». Prendono forma nella parola le immagini del nostro tempo, in espressioni che di dantesco hanno anzitutto la sintesi iconica: «i bambini sgranatelli / stanno intorno ai cingolati» (con la ripresa di un modulo neorealistico, rinnovato dall’invenzione lessicale); «quale mano il volto cuce?!» (Memoria del chiuso mondo); «Il gorgo [...] / si anima dei cento occhi bambini che, calando nel nero, / scrutano i molti civili aguzzini, lassù» (l’affondamento di un battello di profughi, in traversare); «I condotti all’ara, i passi cronometrati, / vengono incrociati sopra un lettino bianco / e lì esposti, al bianco letale e ai vitrei occhi» (cronaca di un’esecuzione capitale, in punire). Antidoto al contagio mediatico, la parodia del linguaggio giornalistico, della sua matrice totalitaria e propagandistica nella retorica mai davvero venuta meno, solo oggi più sgrammaticata, da cinegiornale Luce: «Ora, queste smemorate comunità alzano le fronti / arrugate, fanno fronte comune, invocano una difesa... [contro gli sbarchi dei profughi] / Esemplare, le ascolta l’incrociatore della fulgente / potenza che, arditamente, affianca il guscio di noce / e gli acciaia la via...» (traversare; nostro il corsivo). Più radicale antidoto, al Potere che usa le immagini, al suo vitreo occhio che consuma la pietà divorando «emozioni», il dire tacendo, velando le immagini più tetramente abusate. Giovanni Giudici (Dedicato ai pompieri di New York, «Corriere della Sera», 16 settembre 2001), Wisawa Szymborska (Fotografia dell’11 settembre, «La Repubblica», 11 novembre 2003) hanno dedicato versi ai morti delle Torri di New York. Al mostruoso spettacolo che ci è stato offerto, De Signoribus oppone il silenzio, echeggiando semmai la prefigurazione di Eliot: «Who are those hooded hordes swarming [...] Falling towers / Jerusalem Athens Alexandria / Vienna London / Unreal». L’ultima poesia, sulla vigilia genovese, «luglio 2001» (precede occupare, sulla città «resa deserta», l’«anticabella» trasformata in trincea), è percorsa da presagi: «la nervosa estate del 2001 [...] / [...] opposti correnti / popoli premono sulla fissità dello schema: / s’accendono, impugnano, spiètrano..., vogliono / aprire il vero, il cielo... / Tutto pare vicino, toccarsi, scontrarsi, esplodere / (remota la fraternità della luce)». Si chiude così il libro, la Memoria del chiuso mondo, aperta da una cantilena di guerra, novembre 2001: nello iato la rimozione di un antefatto che il Potere ha reso arduo pronunciare. Una critica del Potere è il messaggio politico di questa poesia. Ai santi segni di una religione usata sempre più come instrumentum regni – il crocifisso «nella borsa / della spesa o dei petroli...» –, sostituisce l’avvento della «persona»: «Oh, persona, se apparissi / là e altrove, altrove e là!...». Si è fatta «remota » la «luce inerme» che ancora, nelle Belliche, chiamava a raccolta i suoi «fratelli »: «tu esisti [‘luce inerme’] e cerchi i tuoi fratelli». Ma l’appello di Memorandum verso la vista: «oh, se i non affidati / i rari / i non ancora devastati / i non vinti non vincitori / trovassero la pietra miliare / il punto di raduno», è vivo, ancorché declinato in «memorietta»: «seminare il vero te, / nuovo mondo, senza re». Testimoniare, ricordare significa, per De Signoribus come per Celan («Tief / in der Zeitenschrunde, / beim / Wabeneis / wartet, ein Atemkristall, / dein unumstößliches / Zeugnis»; ‘In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio / attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza’ [tr. it. Bevilacqua]), preservare, contro ogni negazione, il più intimo contrassegno dell’umano: «colpi in testa colpi in schiena / va la vita alla bilancia... / nulla vieta che una piuma / valga più della tua lingua / e il respiro rimembrante / si cancella senza pena» (Memoria del chiuso mondo). L’«appartato poeta di Cupramarittima» (Giudici) aveva ventun anni nel sessantotto, ha una coscienza tragica e tuttavia non arresa del Potere: tali tratti non coesistono spesso. Anche per questo, credo, il «respiro rimembrante » della sua poesia, che non rinuncia a dar forma al tempo, al nostro chiuso tempo, trova lettori e interpreti fra le generazioni più giovani; questo (e si intenda il rilievo al di fuori di ogni conformistica apologia di qualsivoglia ‘meglio gioventù’) ce la rende fraterna.

 

Giacomo Jori


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