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GIOVANNI RABONI, Barlumi di storia, Milano, Mondadori 2002 (Lo Specchio), pp. 80, € 9,40.

 

Cinque sezioni numerate e disuguali (dopo la prima, monodica, la seconda e l’ultima, corpose, ne incorniciano due più esili), si dividono trentacinque testi, fra cui quattro componimenti datati fra il 1988 e il ’93 e due prose. Le poesie, tutte anepigrafe e monostrofiche (da 8 a 30 versi), sono tessute costantemente delle misure classiche della tradizione (endecasillabi, settenari, e anche novenari), solo qua e là ipo- o ipermetriche, ma ampiamente sfruttate, per così dire, nelle loro ‘potenzialità marginali’ di realizzazione, ovverosia tronche o, soprattutto, sdrucciole, e spesso scandite da una prosodia non canonica (per il principale dei versi numerosi gli accenti di quinta). L’attenuazione ritmica è completata dai frequenti enjambements e da omofonie limitate ad assonanze e consonanze (con qualche rima al mezzo e ritmica), sicché l’imbastitura a un tempo solida e leggera apre lo spazio poetico al tono colloquiale dell’affabulazione e al fluire sommesso della rievocazione memoriale, veri timbri – sin dal titolo – della raccolta. Dal punto di vista linguistico essi si nutrono di un lessico semplice e quotidiano, le cui punte più preziose si riducono a qualche sostantivo astratto (orfanità, mutezza, il figurato profluvio), all’analogico sfuocati, e al toscanismo (montaliano) stente, in un tessuto altrimenti piano e persino ostentatamente banale (per esempio nei superlativi assoluti degli aggettivi, e negli avverbi in -mente), materiali di una metaforica immediata («gli anni che tremano / alle spallate d’un vento invisibile») che non rifugge dalla fraseologia più comune (montarsi la testa, come viene viene, senza capo né coda, anime in pena, restandone alla larga). Ne è corrispettivo una sintassi che all’iniziale uso di modi indefiniti e proposizioni ellittiche preferisce presto una dizione più sciolta e articolata, non aliena da intenzioni assertive (evidenti specie negli attacchi: «I film porno mi annoiano ») e propositi gerarchizzanti (periodi complessi e subordinate). Ma questi, costantemente intralciati dai modi del parlato (incisi e parentetiche, magari fétiche: «Su, lascia perdere, guarda») e sottoposti ai sussulti interrogativi ed esclamativi della coscienza («Mai avuto, io, il doppio dei tuoi anni / Ma cosa dico? certo che li ho avuti, / solo che tu non c’eri, eri, vediamo, / a Padova») sono destinati alla frustrazione dell’inconcludenza (frequenti i punti di sospensione in corso e in fine) e costretti al ripiegamento appositivo e a continue ripartenze (anche negli esordi in congiunzione: O, E). Di tale andamento sussultorio partecipa la costellazione delle anafore («Ricordo troppe cose dell’Italia. / Ricordo Pasolini»), delle epanadiplosi  («E il patronimico? Mai saputo, / adesso che ci penso, il patronimico»), delle epifore («scomparendo in voi, diventando voi»), magari – come qui – variate dal mutamento di funzione sintattica connesso al precisarsi dell’approssimazione («dove da vari indizi era probabile / che fosse nato e dove / comunque sicuramente abitava / e da dove si poteva pensare / che fosse partito al mattino»): ripetizioni che mimano finemente la retorica del parlare quotidiano, elementare anche quando è nobilitata a climax («quella luce / che da rosa si fa viola, quell’ombra sempre più evanescente / che la sedia disegna sulla ghiaia / quella mano d’adulto che si posa / in primissimo piano»), magari in clausula («per vederci come loro s’inventano / che siamo, che ti tocco, che respiri»). Coerentemente con questa gradualità nella variazione del significato, e con il procedere a tentoni proprio della rievocazione una volta scontata l’accensione mnemonica, qui extralinguistica (la ‘foto’ sottintesa nella deissi di un attacco come «In questa gli assomiglia»), l’apparato retorico limita le figure che accrescono la concentrazione semantica (gli ossimori: ferocemente mite, feroci quisquilie familiari, atrocemente innocenti, osceno incantesimo del buio), ed evita quelle in cui l’accostamento sia affidato esclusivamente al piano del significante (paronomasie e allitterazioni, di cui trovo solo l’occorrenza «mutezza del mare. Matura»). D’altra parte Barlumi è un libro anche letteralmente colloquiale, indirizzato a diversi destinatari, sebbene – come in tutto Raboni – più spesso scomparsi (il padre nella poesia liminare, la comunità dei morti nell’ultima della quarta sezione) che vivi (la compagna), e comunque sempre fantasmatici, come il se stesso oggetto di domande inevase, o il fratello maggiore sospeso, di fronte alla fine incombente (come spiega la postilla), «in questo labirinto / di secondi», in cui gli anni di differenza svaniscono: «e adesso non sono più niente, / meno della durata di un’azione, / meno del tempo che ci vuole / a un mediano di spinta / per raggiungere l’area di rigore». Così, dalla fotografia sfocata alla gioia vissuta come una reliquia, dalla felicità d’un altro tempo, allo sperpero sereniano «dei giorni che cadono a pezzi » prende forma un mondo ‘postumo’, in cui trovano spazio, anche se non direttamente interpellati, gli amici perduti (Sereni, Fortini, Scialoja, poi Pasolini e Volponi) o lontani (la vedova di questi, Giovina), in un ricordo inizialmente privato e familiare, in cui però penetra a poco a poco la realtà esterna – il cinema, i cellulari, il tram (a cui è dedicata la terza sezione), la città di Milano – e con essa, gradatamente, il severo giudizio sul presente, magari veicolato nel rovescio di un’immagine idilliaca («a spese di chi, mi domando, / anzi di quanti, quale contrappeso / di umiliazioni e di dolori / sarà necessario per bilanciare / la perfezione di due istanti / alla corte dei conti dell’orrore?»). Così, con un movimento simile alla recente tensione autobiografica di tanti intellettuali italiani e no (da Asor Rosa a Cases, da Steiner a Reich-Ranicki), l’ultima e più politica sezione dispiega apertamente, fino all’adozione della prosa, il  ricordo di un’infanzia lontana, trascorsa fra guerra e liberazione, ma che incredibilmente prolunga le sue potenti emozioni su un oggi dominato invece dall’apatia («Ogni sera che viene sulla terra / milioni e milioni di reduci / del ventesimo secolo / ascoltano senza tremare / le notizie del giorno / da Gerusalemme e dai territori»). È in questa impari dialettica che sottilmente matura la consapevolezza della fine di un’epoca, anche quando i suoi germi siano individuati in eventi non recentissimi, e a risultare schiacciati, fra i due poli, siano gli ideali del dopoguerra, come le aspettative suscitate negli intellettuali di Questo e altro dalla triade Kruscev-Kennedy-Giovanni XXIII, e spezzate dai proiettili di Dallas: «E fu anche – così, almeno, mi viene da pensare ora – come se essi colpissero di striscio e tuttavia mortalmente la nostra speranza o utopia di poter frequentare pubblicamente e collettivamente la letteratura come un ‘questo’ da abbinare a un ‘altro’, come ‘un luogo della verità umana’».

 

(Attilio Motta)


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