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ROBERTO DEIDIER, Il primo orizzonte, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2002, pp. 95, s.i.p.

 

Al passo con Una stagione continua (il volume di poesie che recupera le due precedenti raccolte pubblicato contemporaneamente dall’editore PeQuod), Il primo orizzonte si propone come una parabola di approfondimento dei temi presenti nelle opere precedenti. Il termine parabola non vuole essere qui usato in senso improprio: descrive uno stato di fatto, un percorso che si innalza e ridiscende, compiuto un cammino rilevante nel campo della ricerca linguistica e dello scavo dei sentimenti. Come rileva Luigi Surdich nell’introduttivo Gli angeli e la «solitudine di una penna»: «Nella linearità della scrittura si ricompone ... un tracciato di  ricerca discontinuo e oscillante, tra impulsività e controllo, tra passione e disincanto, tra volontà di misurarsi col presente e con la concretezza e fuga dall’imperfezione  e dall’inefficacia della mimesi diretta del reale». Per questo motivo, il ‘tracciato di ricerca’ della poesia di Deidier è tutto ripiegato sulla volontà di una scrittura che  riposi su se stessa e riesca a scandire un percorso di conoscenza e di approfondimento di un Sé che emerge compiutamente dispiegato in esso. La poesia di Deidier  è, infatti, una poesia fatta di pieghe e di pieni: approfondisce il passaggio attraverso la parola per trasformarla in un viaggio  ai limiti delle sue possibilità. Il testo d’apertura ne è spia imperiosa: la «curva d’assedio del  pensiero» del primo verso rimanda all’«orizzonte» dell’ottavo e la stanchezza dei corpi (simboleggiata dal  «piede») e della mente (rappresentata dall’«occhio») non basta a impedire il passaggio e la prosecuzione del percorso  verso il cielo: l’«angelo impigliato nella storia» (simile in questo a Daniel o a Cassiel, i protagonisti di Himmel über Berlin  di Peter Handke e Wim Wenders ma anche al vecchio albatros dei marinai) non è più capace di volare ma porta sul dorso ancora le proprie ali. Per Deidier è questa metafora a simboleggiare l’approccio alla pratica della scrittura  poetica: cedimento e stanchezza, inflessione e scoraggiamento, impossibilità di concludere il proprio viaggio nella parola fino a piegarla compiutamente al proprio  orizzonte di  visione non sono però tanto forti da impedire alla poesia di salvarsi e salvare, contemporaneamente, il suo ‘portatore sano’. Conferma ne è il ricorso a  Orazio (tra i padri della poesia come strumento di salvazione del poeta) al quale è dedicato uno dei testi più belli della raccolta  sotto veste di rifacimento del Carme II, 18, Non ebur neque aureum (pp. 40-41). La certezza della morte non basta a umiliare il ricco e porlo sullo stesso piano del misero; è la poesia la sua forza interiore che  segna la differenza tra il poeta e gli altri uomini e gli permette di opporre la postrema resistenza al mare montante dell’oblio. Deidier ha una concezione forte della poesia come scrittura dei sentimenti e della soggettività: nelle sue parole, montalianamente, l’Io che scrive è  «[...] la media stagionale delle maree, / Un punto tra due bordi d’acqua; / È così breve il mondo a cui somiglio, / Una toppa  ostruita dalla chiave / rimasta spezzata». Compito della poesia è quello di riparare non la chiave ma la toppa della porta, liberandola  da quanto impedisce al flusso della conoscenza di liberarsi. È questa la più interessante tra le possibilità rimaste a chi scrive, alla «[...] solitudine di una penna / Il cui inchiostro divide ogni esistenza: / Ferro e legno, foglia e sasso, / Vetro e muro, sguardo e indifferenza, / E così addestra sulla carta un dolore, / Un  solo foglio per ieri e per domani». La poesia si compara quindi al «primo orizzonte »: quello che si rivela agli occhi di  ognuno al sorgere del sole e comprende tutti i viaggiatori che solcano le strade del mondo. Esso accomuna tutti e concede di vedere ciò che basta a vivere e a soggiornare nell’arco comune dell’esistenza. Scrivere è allora un atto di fiducia nel futuro che porterà all’Io nuovo conforto: «Tornerà  vento di terra / verrà la pioggia / Altra vita conterrà questa chiusa vita. / Uscirai infine dal tuo tempo sospeso / Con il passo certo di chi si dà conforto». Con questo gesto di  apertura alle possibilità della poesia, sembra dire Deidier, l’atto di scrivere aspira a rovesciarsi in esperienza di vita, invito alla pazienza per il tempo presente che rimanda forse la realizzazione del sogno  alle generazioni che verranno.

 

(Giuseppe Panella)


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