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MICHELE COLUCCI, La fine del millennio, Lecce, Manni, 2001, pp. 128.

 

La fine del millennio si articola in due sezioni distinte. Nella prima, «Le parole (1979-1991)», dominano forme e strutture ritmiche vicine alla prima metà del ’900 italiano ma intessute di rimandi ai classici russi di cui Colucci è traduttore ed esegeta: il dettaglio generalizzante della prima Achmatova («Il collo magro della ragazza / curvo sopra la tela») l’espressionismo visionario di Majakovskij («Vetrine obese come vesciche»), la concretezza metafisica di Mandel’stam («L’orologio infilzato / ad un palo metallico / fermo da sempre»), le metafore stranianti di Pasternak, esplicitamente citato in San Francisco. Forse proprio l’affinità col poeta di Mia sorella la vita costituisce la chiave di questa prima sezione: le immagini sono assai concrete se prese separatamente, data la compattezza dei rapporti fra oggetto e predicato, ma la struttura che le unifica è straniata rispetto a una comune logica descrittiva e fonde rievocazione autobiografica, grandi vicende collettive e spunti etici e metafisici. La meditazione di Colucci non è mai consolatoria. Chi ha dedicato la propria vita a studiare l’organismo della cultura ne conosce costi e vulnerabilità: come ben sanno le orde ottomane in marcia – recita Budapest, memore de Gli Sciti di Aleksandr Blok – «sparita la cartapesta europea / non resterà che steppa». Di qui l’angosciosa ricerca dell’origine, di ciò che precede e condiziona la vita individuale e collettiva e che permane latente sotto la rassicurante quotidianità. Di qui la rievocazione di un’infanzia e di memorie familiari segnate dalla guerra e dal lutto (Formia nel 1947, Per una fotografia, Avrei potuto). L’insistere, fra Gozzano e Cechov, sul possibile, sull’ipotetico, sull’alternativo irrealizzato (Il Lunedì, Cosa dirti di questo agosto?, Sei arrivato tardi. Le porte sono chiuse, È come se camminando). L’angosciosa attrazione per le culture arcaiche e barbariche (le vicende bibliche, «gli dei dell’Asia», Tamerlano, i Turchi «odorosi di rose e di cuoio»). I dettagli di crudo realismo e di degrado che lacerano i paesaggi urbani (Paesaggio, La puttana maghrebina), la cui raffinatezza, ora antiquaria ora modernamente tecnologica, si tinge di riflessi gelidi, inquietanti: il «cielo azzurro e esiguo» su Firenze «disseccata »; «in silenzio / a occhi chiusi / Varsavia riposa / con la sua pena riversa / sul bruno tappeto dei campi»; «Pietroburgo / superflua / cerula / senza un Perseo a difenderla / dalla Medusa della storia»; «Zinco delle stelle. Scroscio di un tarlo. / Forse a Praga / fra tre ore / accompagneranno K. al patibolo»; «ridde di numeri rifiutano di incolonnarsi / mentre sul calendario Manhattan / slunga e incupisce». Nella seconda sezione, «La fine del millennio (1994-2000)», il verso evolve verso la prosa ritmica, il bagaglio lessicale e tematico si arricchisce, abbracciando le più diverse sfere della contemporaneità, alla trama di dettagli evocativi si sostituiscono una riflessione argomentata, una monumentalità gnomica che hanno in Lucrezio ed Eraclito espliciti modelli. Si aprofondisce il motivo delle culture arcaiche, rappresentate attrIl averso il vissuto di personaggi emblematici (Il ratto della sabina, Marco Polo in viaggio, L’osservatorio di Ulug Beg, Elegia per Betsabea, «l’architetto di Cheope»). Tali culture sono un esplicito paradigma di immobilismo gerarchico, di coercizione sociale, di disuguaglianza profonda e irrazionale, così come il filisteismo, la ragione tecnologica e senz’anima, l’universale mercificazione scandiscono una modernità pietrificata: «abbiamo corso fino a perdere il respiro / verso un disco d’oro che alto nel cielo / attendeva di essere afferrato. / Stiamo imparando a vivere senza l’ignoto». Ora come allora, ad avere una storia narrabile è sempre e solo l’individuo libero che «comincia a vivere quando gli altri dormono», il re astronomo che interroga le cose non per possederle, ma per decifrarne le leggi: «Ormai so che il numero è come la pietra / non deve attendere / temere / non ha mai bisogno di altri: ‘è’. / E il numero – può essere – mi riconosce / mi asseconda». La soggettività eternamente sfuggente e universalmente penetrante accomuna Ente divino e anima singola nel simbolo dell’acqua. Così l’elemento «che abbraccia stretta la terra ma senza sforzo / sa raggiungere il cielo», fluendo fra origine e fine, fra reale e possibile non rinuncia a dare un senso sempre nuovo alla storia: «è il Nilo della fine ad irrigare / ciò che altrimenti sarebbe un deserto».

 

(Guido Carpi)


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