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CLAUDIA CORTI, Esuli. Dramma, psicodramma, metadramma, Ospedaletto, Pacini, 2007, pp. 101.

 

All’unica opera teatrale di Joyce, Exiles, la cui stesura si colloca fra il 1913 e il 1915, è dedicato un recente lavoro di Claudia Corti, che, in uno stile godibile e una chiara articolazione della materia, ripercorre la genesi, la fortuna e i risvolti autobiografici del testo, per indagarne poi le strutture diegetiche, le complessità tematiche e le valenze metadrammatiche. Il punto di forza del saggio è probabilmente la fluidità dell’analisi, che si muove da una puntuale ricostruzione filologica dell’avantesto all’individuazione dei rapporti fra il dramma e l’opera joyciana nel suo complesso (che Corti conosce per una frequentazione certo non occasionale), e arriva a mettere in prospettiva le reazioni critiche avvicendatesi nel tempo anche attraverso rilievi sulle scelte lessicali, considerate come spie di atteggiamenti estetico-emotivi. Ne è esempio quella percezione della pièce come di un’opera musicale, che fa parlare molti di "orchestrazione" (p.27), e che Corti più avanti dimostra essere non priva di fondamento, non solo perché misura l’ampiezza delle analogie intertestuali con alcuni luoghi wagneriani (pp. 95-98), ma anche perché, più in generale, questa idea risponde a una concezione drammatica come rigorosa esecuzione di una partitura "satura", in cui niente è lasciato all’improvvisazione – il che costituisce il limite oggettivo, come pure la sfida più stimolante, per quanti si accingano a metterla in scena. Per questo Corti include nella dimensione testuale anche quelle Note, di difficile collocazione cronologica, che accanto a riflessioni più o meno estemporanee sulla vita e sull’arte, sviluppano a margine problemi di caratterizzazione dei personaggi, precisandone la natura profonda, e cioè quella di essere tutti facce della scomposizione prismatica di una stessa soggettività autoriale dispersa secondo il principio joyciano dell’impersonalization. Che, come puntualizza la studiosa, è stato spesso frainteso e scambiato per "spersonalizzazione" (p.17), laddove l’anomalia dell’etimo rimanda a una differenza concettuale importante che va addirittura in senso contrario, alludendo piuttosto a un’incarnazione, all’assunzione, invece che alla perdita, di personalità e maschere identitarie. Del resto l’idea di incarnazione, correlata al mito cristiano, ricorre altrove nel dramma, nella figura cristologica di quel Richard Rowan vittima di un tradimento che però lui stesso ha cercato, complice della propria estraniazione, per cui niente è come sembra e la verità è indecidibile. O comunque non si trova sulla scena, il cui valore veritativo risulta nettamente ridimensionato dall’allusione costante a un fuori-scena, a un non-detto o a un indicibile che sarà il più fecondo lascito al teatro di Beckett e Pinter (p. 26).

(Lucia Claudia Fiorella)


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