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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 138-139 (scarica il pdf)

ANTONIO TRICOMI, Pasolini, Roma, Salerno 2020, pp. 332, € 22,00


Esce nella collana Sestante della Salerno Editrice il Pasolini di Antonio Tricomi. Collocato in questa nutrita serie di monografie su scrittori italiani ed europei, l’artista friulano si trova in compagnia di molti degli autori della tradizione occidentale con cui aveva intrattenuto un fitto dialogo, fosse esso in absentia (Dante, Leopardi, Pascoli, per fare qualche nome) o in presentia (Ungaretti, Montale, Calvino); un dialogo che viene ben ricostruito nelle pagine di Tricomi, proprio perché Pasolini fece del suo costante riposizionamento nei confronti della tradizione – quello che viene definito il suo manierismo – uno dei cardini della sua poetica. Eppure vi è più di un aspetto che fa di Pasolini un autore eccezionale rispetto a questa stessa tradizione, fatto che la presente monografia non manca di rilevare proprio nel modo stesso in cui offre al lettore una cartina per orientarsi nell’intricata opera pasoliniana.
Risalta anzitutto una differenza nella costruzione del volume rispetto agli altri ‘sestanti’: manca, cioè, l’usuale capitolo biografico. E questo potrebbe anche sembrare paradossale, in quanto Pasolini fu nel Novecento tra gli intellettuali più discussi dalla cronaca e, letteralmente, sotto i riflettori. Ma il paradosso si risolve ad un livello più alto, poiché in Pasolini opera e vita tendono a fondersi in un unico gesto performativo. È per questo che Tricomi rifugge dall’aneddotica e preferisce disciogliere i cenni biografici all’interno della trattazione delle opere, nel tentativo di indagare i testi sia nella loro autonomia che nella prospettiva – sempre più evidente nella poetica pasoliniana a mano a mano che andava evolvendo – di «tasselli del complessivo romanzo autobiografico – e, almeno nelle intenzioni dell’autore, storico – allusivamente ricavabile dalla loro successione» (p. 100).
L’altra ‘anomalia’ del volume deriva dalla capacità di Pasolini di appropriarsi delle tecniche più disparate, tanto da essere, oltre che poligrafo, uno dei primi artisti multimediali. Ne consegue la necessità di ricostruirne la figura a tutto tondo senza circoscrivere il campo alla sola scrittura, ma anzi mettendo in luce per le diverse fasi dell’opera pasoliniana i momenti salienti. In questo, Tricomi ha potuto far uso di uno strumento imprescindibile quale la serie dei dieci Meridiani Mondadori dedicati all’opera di Pasolini, curati da Walter Siti e da Silvia De Laude: è il confronto con questa mastodontica impresa editoriale, disponibile nella sua completezza da un quindicennio, che ha permesso (ed allo stesso tempo preteso) la meticolosità con cui Tricomi segue il percorso dell’artista nei dodici capitoli del suo volume, organizzato secondo un ordine cronologico. 
Nei primi due capitoli, dedicati al periodo che va dalla formazione alla fine degli anni Quaranta, Tricomi ripercorre le influenze dell’ambiente intellettuale e universitario bolognese (e quindi gli incontri con Longhi e con i giovani Roversi e Leonetti), la pubblicazione delle Poesie a Casarsa (1942) e il soggiorno in Friuli con la nascita dell’Academiuta di lengua furlana. Nei capitoli terzo e quarto si affrontano le prime opere del periodo romano, iniziato con il trasferimento nella Capitale nel 1950, quali La meglio gioventù (1954) – ripensamento della precedente produzione dialettale in versi –, il primo romanzo pubblicato Ragazzi di vita (1955) ed i poemetti civili che compongono Le ceneri di Gramsci (1957). L’equilibrio e la passione di Tricomi si palesano laddove si tratta di spiegare la natura dei testi analizzati: non si ritrae, ad esempio, dal sottolineare il carattere composito di Ragazzi di vita, i cui capitoli hanno più della prosa d’arte che non della calcolata meccanica romanzesca, tanto che si arriva ad ipotizzare che il libro «sarebbe forse risultato […] anche più persuasivo, o solo più fedele all’istintivo dettato dell’autore, se costui si fosse rifiutato di provare ad amalgamarne le parti e, invece, avesse provveduto a slabbrarlo ulteriormente, rendendolo un dichiarato contenitore di autonome ma non eterogenee prose d’arte, di ancora preliminari e tuttavia già fruibili cartoni narrativi» (p. 81).
Ai lavori della seconda metà degli anni Cinquanta sono dedicati il quinto ed il sesto capitolo, tra i quali la fondamentale esperienza della rivista «Officina», che alimentò il dibattito sul rinnovamento delle poetiche di quegli anni in ottica anti-ermetica ed anti-neorealista, il volume di critica letteraria Passione ed ideologia (1960) che di quell’esperienza è quasi il consuntivo, l’Usignolo della Chiesa Cattolica (1958), libro di poesie in lingua scritte negli anni Quaranta che scorre parallelo alla Meglio gioventù, fino alla nuova fase della poesia pasoliniana aperta dalla Religione del mio tempo (1961): tutte parti di un’unica grande narrazione – è questa, lo si è già accennato, la lettura complessiva che Tricomi dà dell’opera di Pasolini – che ha al centro la figura dell’intellettuale del dopoguerra e il suo progressivo isolamento.
Cinema e teatro sono i due nuovi poli dell’arte di Pasolini a partire dagli anni Sessanta. Il settimo capitolo è dedicato alla prima fase del suo cinema «tirannicamente autoriale», che si apre con Accattone (1961) e che lo impegnerà fino alla morte nel tentativo di «fare poesia con altri mezzi» (p. 162). Particolare rilievo, oltre che al Vangelo secondo Matteo (1964) e ad Uccellacci e uccellini (1966), viene dato da Tricomi alla Ricotta –ritenuta una delle prove più riuscite di Pasolini – quarto episodio del film RoGoPaG, sorta di controcanto comico di Accattone e spietato ritratto dell’intellettuale impegnato, interpretato da Orson Welles nelle vesti di regista di un film su Cristo (‘incarnato’, nella finizione del film, dal sottoproletario Stracci, che finirà davvero martirizzato).
Il nuovo impegno come regista non coincide però per Pasolini con la fine delle altre sue attività: per questo i due capitoli successivi affrontano ancora la scrittura, in versi e in prosa, e l’attività teatrale che, nei secondi anni Sessanta – seguendo un’inclinazione dell’intera cultura italiana, influenzata dalle performances del Living Theatre –, vede la stesura di Orgia, Bestia da stile, Pilade, Affabulazione, Porcile e Calderón, fino a giungere allo scorcio del decennio e alla prima metà degli anni Settanta, cui sono dedicati gli ultimi tre capitoli. Di quest’ultima fase Tricomi evidenzia il precisarsi di una nuova poetica, in ragione della quale l’opera è vista come un dispositivo che il fruitore è chiamato ad attivare con «fervore filologico», come informa Pasolini nell’Introduzione agli Scritti corsari (1975): avviando a questa capitale raccolta di saggi, molti dei quali apparsi appunto sul borghese «Corriere della Sera», viene chiarito come la ricostruzione del libro sia, in realtà, un compito affidato al lettore, che dovrà ricongiungere i «passi lontani che però si integrano», ma anche trovare i testi degli autori con cui Pasolini entra in polemica, e cercare sugli scaffali di una libreria La nuova gioventù per leggere l’ultimo manipolo di poesie dialettali licenziate dall’autore e confluite nella sezione Tetro entusiasmo.
Non è allora un caso che Tricomi ne esplori anche il «laboratorio poetico» e il «cantiere della prosa» (titoli di due paragrafi rispettivamente alle pp. 40-45 e 45-50) avventurandosi così – grazie all’ausilio dei citati Meridiani, generosissimi sotto questo aspetto – tra i progetti ‘sommersi’ dell’autore. L’«inclinazione a riscriversi che risulta in lui congenita» (p. 62) – e che lo conduce alla già accennata riformulazione della sua produzione friulana ne La meglio gioventù – si trasforma con il tempo in una poetica del costitutivamente incompiuto e del non-finito. Le opere degli ultimi anni si presentano, difatti, anche se giunte alla pubblicazione, quali appunti (è il caso della Divina mimesis) o di aggiornamenti variantistici (è il caso della Nuova gioventù, che contiene una strabordante Seconda forma de «La meglio gioventù»), tanto che i significati delle opere sono da ritrovarsi proprio nella loro incessante mouvance. Ugualmente, non stupirà se tra le opere rimaste nei cassetti dello scrittore ve ne siano alcune particolarmente importanti, come Petrolio – romanzo sulle vicende dell’Italia del dopoguerra rimasto incompiuto per la prematura scomparsa dell’autore – o sorprendenti, come L’hobby del sonetto – raccolta di centododici componimenti scritti dopo la notizia del matrimonio di Ninetto Davoli, che assurge ad emblema dell’intero sottoproletariato traditore della propria purezza – ritenuta da Tricomi «una delle più sincere, risolte e persino convincenti» (p. 292) tra le opere non saggistiche degli anni Settanta.
Tricomi, in conclusione, ha riaffrontato l’autore cui maggiormente si è dedicato – aveva difatti pubblicato già tre volumi frutto di uno studio ventennale (Sull’opera mancata di Pasolini del 2005, Pasolini: gesto e maniera dello stesso anno e In corso d’opera. Scritti su Pasolini del 2010) – rispondendo al bisogno dichiarato nella Premessa di ‘smitizzare’ Pasolini. Perché, di prodursi in una tale smitizzazione, lo ha richiesto lo stesso Pasolini rifuggendo dalla perfezione dell’opera conclusa per offrirla quale «work in progress» (p. 7) in continuo aggiornamento, i cui innumerevoli frammenti rimandano gli uni agli altri per confermarsi, completarsi o smentirsi. Lo stesso artista ha preferito, più che conservare in una teca, esporre all’aria aperta la sua gigantesca «opera “da farsi”» che, in viaggio attraverso i suoi tanti media verso il ricevente, si configura nella sua totalità quale «monumento […] alla figura, ormai quasi estinta, del moderno autore civile» (p. 248): perché si possa toccare, imbrattare o anche lasciare che l’incuria agisca (il che è, comunque, significativo). E il volume di Tricomi si propone proprio quale giusto viatico per ingaggiare un «intenso, disinibito, se necessario finanche livoroso corpo a corpo con tale sterminata messe di pagine e fotogrammi, di umori e persino dipinti: con lui» (p. 7).

di Lorenzo Morviducci

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