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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 128-129 (scarica il pdf)

MARCO GATTO E LUCA LENZINI (a cura di), L’Esperienza della musica, («L’Ospite ingrato. Periodico del Centro Studi Franco Fortini», nuova serie, n. 4), Macerata, Quodlibet 2017, pp. 347, € 24,00


Sempre fruttuoso è, a quanto pare, interrogarsi su quali premesse inducano un curatore o dei curatori alla scelta del titolo di un volume collettaneo. Trattasi spesso e volentieri di trovate suggestive, nel tentativo di rendere ragione di un’opera dal carattere composito. In questo caso il nitore del titolo sorprende, in positivo: l’accento è posto non già su quel portato idealistico che condanna la musica a farsi oggetto di un discorso pretestuale intorno ad essa ordito, bensì su quel che la musica, fuor di metafora, solo può essere: «esperienza». Non si dà musica, in senso proprio, fuori da uno «scenario di esecuzione» (Barthes), da uno spazio attanziale in cui si confrontano interprete e ricettore. Di relazione attanziale con la musica, attraverso  privilegiate relazioni intellettuali, si può parlare a proposito di una figura centrale di questo volume, Franco Fortini. L’Università di Siena dispone, oltre che di un importante Fondo De André (si veda, qui, lo studio di Stefano Moscadelli dedicato all’analisi di un testo del cantautore genovese, pp. 205-231), di un Archivio Franco Fortini il cui responsabile è proprio il co-curatore del volume, Luca Lenzini.
Mentre Giacomo Manzoni ricorda qui, per esperienza appunto, che Fortini «non era un grande conoscitore o appassionato di musica» – «lui nelle sale da concerto e d’opera non metteva praticamente mai piede» (p. 299) – Lenzini cita in premessa un passo del poeta, il quale ci illumina sulla matrice di questa idiosincrasia di ascendenza nietzschiana: «Da qualche anno provo una resistenza interna ad entrare in una sala da concerto. So che non si tratta solamente di ripugnanza al cerimoniale di quei pubblici che, nelle nostre città, mimano una civiltà inesistente […]. È proprio intolleranza alla musica, alla sua captatio, o natura sirenica, più forte di quella di ogni arte». È dunque l’esperienza della musica a suscitare, in lui, quel soggiogamento, quell’ottundimento che mal s’attaglia a un’epoca critica, a vocazione demistificante. «Ostia segreta e spesso miserabile che gli uomini inghiottono, come un oppio, al suo altare», la musica chiede talvolta il pegno della reverenza e dell’ossequio all’irrazionale; la capitolazione della ragione di fronte alla sua chiamata; chiamata «più che umana, immodesta, indiscreta, celestiale» (p. 9). Su questa riserva, su questo disincanto verso la liturgia musicale di beethoveniana, lisztiana, berlioziana e in ultima analisi wagneriana memoria in cui il Thomas Mann maturo vedeva il pericolo latente dei totalitarismi, Fortini si esprime nel testo scritto per i Cori della pietà morta dell’amico musicista Valentino Bucchi (si veda infra l’Archivio dedicato in larga parte a questo sodalizio). Lenzini s’interroga, di conseguenza, «su quale presenza possa rivendicare la musica nel campo umanistico» e quale sia «il suo contributo a un possibile pensiero critico, il cui bisogno è così conclamato eppure così sveltamente eluso nel discorso pubblico» (p. 10). Con il Nietzsche del Crepuscolo degli idoli che sembra far da sfondo al pensiero di Fortini, anche Lenzini pare voler rinnegare il portato lirico-psicologico (metafisico, contenutistico, idealistico, trascendente) della musica per porre attenzione, invece, al momento formale ed evenemenziale: la musica può farsi critica solo in forza – lo vede bene Adorno – della dialettica inscenata dalle sue strutture. Non si tratta di rinnegare aprioristicamente il linguaggio come logos, «padre», o «super-io» di cui la musica, arte asemantica, si considera sovente tributaria; non si tratta, in altri termini, di denegare il valore della parola per salvare la musica quanto, lacanianamente, ripartire dai costituenti di ogni esperienza linguistica: suoni, strutture, frammenti, motivi. Parimenti, prosegue Lenzini, «largo spazio viene dato alla centralità dell’interprete e alla sua possibile configurazione intellettuale» (p. 11). Non è forse l’interprete il critico immanente della musica nell’hic et nunc della sua esecuzione? Colui che ‘agisce’ dentro le forme? Se il linguaggio, nota il Sanguineti riportato dall’eccellente articolo di Mila de Santis – articolo il quale esplora adesso il «percorso amoroso» Sanguineti-Berio (pp. 167-177; si veda anche il significativo: Luciano Berio e il pensiero della forma  di Antonio Prete, pp. 159-166) – è «una meravigliosa macchina produttrice, instancabilmente, di senso», la musica è un dispositivo «che amplifica e trascrive il senso su un diverso piano della percezione e dell’intelligenza» (p. 172). Dacché del linguaggio strutturante il mondo la musica conserva, nel dono come nella privazione o rimozione, gli affetti di vitalità (nel ritmo, come nei tratti soprasegmentali della catena parlata ch’essa riproduce), Sanguineti dona al suo musicista d’elezione una parola pulsiva, salmodica, polirematica e polisezionabile: morfemi fonolessicali plurilingui ricomponibili, cellule musicali variamente ricombinabili («a: ah:ha:hamm:anfang:/in:in principio: nel mio/principio:»). Stiamo parlando di A-Ronne, «documentario su una poesia di Edoardo Sanguineti per cinque attori», commissionato a Berio, ricorda De Santis, nel 1973. Sanguineti così scriveva a Berio: «il testo parmi corrisponda alle Sue esigenze […]: è urlabile, balbettabile, dialogabile, sparpagliabile, liturgizzabile, litigabile, caricaturabile, disperabile, nobilitabile, casermabile, confessionabile, rissabile, fumettabile, bofonchiabile, interrogabile, frantumabile: che sono, se non vado errato, le 16 condizioni da Lei poste a suo tempo» (p. 174). Un caso non dissimile è quello studiato da Giuseppe Traina («Ancora sulle poesie per musica di Fortini», pp. 233-241). Si può dire con Traina che, alla stregua di De André, si rinvengono in Fortini «due ispirazioni prevalenti: quella amorosa e quella politica»; erano gli anni in cui il desiderio in senso antiretorico muoveva la politica; in Fortini, ricorda Traina, la vena amorosa ha carattere antilirico, mentre la vena politica non disdegna, specie nella prima fase (in ciò non lontano da un Queneau o da un Calvino), una critica attraverso le forme, prevalentemente a mezzo di strategie metalinguistiche: non ultima, la commutazione di morfemi fonolessicali («Lo spago e le spighe/la rissa e la ressa,/la ruga e le righe,/la mossa e la messa,/la piaga e la piega», p. 235). Un caso interessante in tal senso è la canzone Campane di Roma (canzone qui presentata da Giacomo Manzoni, p. 296), la quale ammicca «alla tradizionalissima composizione di Respighi» di stampo impressionistico per irridere, attraverso quartine saltellanti «di tre quinari piani e uno tronco» la «dimensione profana e gaudente dell’istituzione ecclesiastica». Dall’esempio della musica la letteratura torna a farsi ironica fuori dalla referenza sfruttando, oltre alla dimensione ritmica e fonolessicale, quella enunciativa e posizionale. Basti qui ricordare le autocitazioni mozartiane o schumanniane (su Schumann si vedano le fulgide e laceranti testimonianze di Pierre Guyotat, qui tradotte e presentate da Valentina Parlato, pp. 243-250). Della musica come arte supremamente e giocosamente irriverente attestano, d’altronde, i «pasticci» rossiniani, ad un’epoca in cui Wagner e Verdi celebravano retoricamente l’uomo redento (si veda, qui, il saggio di Antonello Palazzolo: Corpo e anima di due spartiti rossiniani ritrovati, tra cui l’ironico Les Adieux, su testo di Péret).
Per quanto riguarda la Canzone della marcia della pace che, ricorda Traina, costò a Fortini una denuncia per istigazione alla disobbedienza (ibid.), non può non venirci in mente l’eco della Marsigliese in Feux d'artifice di Debussy. Erano gli anni della derisione nei confronti della poesia e della musica celebrative; fiorivano riscritture pretestuali, parafrasi e pastiches letterari e musicali (à la manière de); Fortini non mancò di lavorare alle variazioni dell’Internazionale (Sull’aria dell’«Internazionale») in occasione dei primi cento anni di storia dell’inno. Il ricorso a tali procedimenti è atto polemicamente anti-ideologico: contro certa liturgia poetico-musicale a sfondo messianico, certuni sanno che non potrà esservi mai «l’uomo nuovo», ma che «vi saranno soltanto delle forme diverse di conflitto» (p. 237) di cui l’arte si farà, via via, interprete. 
In accordo con l'intento dichiarato  del volume, la seconda parte, a cura di Marco Gatto, raccoglie una ricca e varia serie di confronti con grandi interpreti (i pianisti Alessandra Pompili e Roberto Russo), e, tradotta da Tomaso Cavallo, una preziosa intervista di Didier Éribon a Claude Lévi-Strauss intorno all’omologia tra mito e musica. Al principio fondante la quadrilogia delle Mythologiques si era ispirato, a sua volta, Luciano Berio, quasi a siglare, se mai ve ne fosse bisogno, quella sinergia tra critica e produzione che costituisce la cifra distintiva dell’arte del Novecento. Lo stesso Lévi-Strauss, come un tempo Mallarmé con Debussy, ritenne – riproponendo l’annosa rivalità mimetica tra le due arti – di aver già messo in musica i suoi testi: egli li considerava come «una relazione contrappuntistica tra l’articolazione del discorso musicale» e il filo della sua riflessione. «Talora procedono di pari passo, talaltra si lasciano per poi ricongiungersi» (p. 276).
Segue un altrettanto prezioso «Archivio» (lo Schubert di Adorno; la sopra citata testimonianza di Giacomo Manzoni su Franco Fortini, grazie alla mediazione filologica del co-curatore Lenzini; uno scritto di Fortini sul Maggio Musicale fiorentino; uno di Stefano Ragni sul ruolo di Fortini nei Cori della pietà morta di Valentino Bucchi, seguito da un carteggio Fortini-Bucchi curato da Elisabetta Nencini e da due poesie che Fortini dedica al medesimo). 
Un passo di Adorno (p. 282), sembra cementare l’intenzione, mirabilmente tenuta, dell’intero volume: «parlare di intuizione artistica – discorso questo, ch’è una torbida mistione di cattiva esegesi psicologica del processo di produzione e di cieca metafisica della preesistenza della forma all’opera – non fa altro che sbarrare la via all’intelligenza dell’arte». «In nessun modo – nota Adorno – le opere d’arte sono creature».

di Michela Landi

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