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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 106-107 (scarica il pdf)

ALBERTO CELLOTTO, Non essere, Montecassiano (MC), Vydia Editore 2019, pp. 88, € 10,00


Ci sono alcuni elementi della raccolta Non essere del trevigiano Alberto Cellotto che possono far pensare a uno ‘stile semplice’. Il lessico è in larghissima parte ad alta frequenza e alto uso. I referenti, il più delle volte, sono quelli della realtà più direttamente accessibile all’esperienza, anche quotidiana, dell’autore: la provincia veneta. La versificazione lunga sembra mimare la prosa, con i suoi bruschi acapo in prossimità del margine di pagina che promuovono l’enjambement, anche durissimo, a regola. Per non parlare poi della essenziale monovocità del discorso poetico, tutto in prima persona, cui al massimo si aggiunge, pur frequentissimo, un tu che comunque gravita sempre intorno alle (dis)avventure dell’io. Tale ‘semplicità’ si trova tuttavia a essere sottoposta a numerosi procedimenti di perturbamento del senso, molti dei quali si basano sulla sostituzione, anche minima, di significanti a partire da un’espressione standardizzata. Possiamo trovare lapsus («dove bastano basse / delle nuvole» < passano; «Posso anche pensare / in dirittura che tutti noi ci perdiamo di vista così» < addirittura; «quale lago in gola» < ago), uso libero di articoli e preposizioni («Al tempo di una levitazione magnetica» < della; «non vi è uno scampo»; «salpare verso un Nord», «io / sprofondo su questo» < in; «Il bambino down nel marciapiede» < sul; «E che hanno da fare […] / questo campanile e una palestra ancestrale […] con ogni / pensiero su te» < a che; «già annegato sul sonno» < nel), inversioni o spostamenti di sintagmi in funzione anti-logica («e so già altrove che ho vissuta la primavera / come questa» < e so già che ho vissuto altrove una primavera come questa; «un paese di frutti / alti più vicino all’acino nel sole» < dagli acini più vicini al; «chiedimi chi sono il mio passato, / non so tanto rispondere» < tanto non so; «scrivono che lo sbaraglio / della nostra generazione sia l’inappartenenza», dal sintagma generazione allo sbaraglio), formule contrarie all’atteso («E non ci credo ancora che sia vera, / di più in presenza dell’anatra che becca erba» < ancor meno; «che cosa accade se / tutto questo l’ho vissuto ancora» < già; «una / nebbia scoscesa che pesa sotto i lampioni» < scende sui).
Non c’è alcuna garanzia della validità della ricostruzione delle espressioni standardizzate originarie: si sa, alla fine ciò che conta è il testo, e al testo nulla pertiene di quanto nel testo non c’è. Risulta comunque evidente che il principale effetto dei procedimenti citati – assimilabili a una sorta di côté stilistico neo-orficizzante (si arriva persino a scrivere, non senza ironia, «che di soli ne esistono molti», stereotipo per eccellenza del gusto ermetico per i plurali) – è quello di compromettere sin da subito la comunicazione. Se il testo è l’unica realtà che si offre al lettore, si potrebbe anche dire che il (presunto) messaggio originario stia dalla parte del non essere. Forse il titolo suggerisce anche questo: un qualcosa che non è in quanto non si dà come presente, e che pure si lascia avvertire in assenza, solo per la sua assenza. Essere e non-essere vivono l’uno dell’altro, scambiandosi continuamente le parvenze di autenticità e inautenticità. Nella prima sezione, per esempio, sembra dominare una condizione per cui solo il fuori, il dato esterno è sentito come realmente esistente; a non avere alcuna garanzia di consistenza è semmai l’io, condannato a percepire e soprattutto percepirsi come una (non-)realtà sospesa. Il fuori è dato sì come esistente, ma spesso appare come compresenza di elementi tra loro confusi oppure fortemente eterogenei.
Gran parte del lavoro stilistico muove proprio in questa direzione. I procedimenti di sostituzione, gli accostamenti imprevisti e obliqui, gli slogamenti sintattici e altri fenomeni di ambiguità del discorso, spesso promossi e rafforzati da un lavoro sul puro significante, concorrono a garantire la vitalità dell’io, la sua unica possibilità di eludere lo scacco conoscitivo e ontologico del non-essere. L’alternativa è tra il non-essere e la partecipazione – spesso associata a un’attesa, a un rischio – a un tutto dinamico («non c’è davvero nulla se non il desiderio di essere tutti / altrove tra poco dopo una diastole mancata ai cuori»), tra il «nulla» e lo stile che è trasformazione (combustione e rifusione). E forse non è un caso che un testo come quello in cui l’io si ritrova a dover decidere se «bruciare» o «tenere per ricordo» il passaporto scaduto, una delle poesie a più alto coefficiente di negatività-negazione («senza pensare», «non potevo», «Non penso», «non credo»), abbia un tasso di figuralità e di ricodificazione stilistica pressoché nullo.
Non mancano i momenti in cui l’io sente perdere questo suo potere di superare l’inessenzialità di sé e la complessità-disomogeneità della realtà attraverso la rimessa in gioco (linguistica) di tutto con tutto («non so più fare strage di immagini e ricalco quello / che mi viene meglio», «non c’è niente / che sia unico, niente nemmeno i colori di fuori»). Ma il gioco finisce sempre per prevalere: la scommessa rimane aperta. E se il presente viene sentito come tempo dell’inautentico («l’infinito scolo del presente»), l’essere viene rinviato a un altrove e a un dopo indefiniti, all’indicibile-irrappresentabile di una veniente trasformazione epifanica («E aggiungere parole non serve / e i luoghi non sanno di questa bassacorte riparata da latte / e lamiere di una sera lenta che diventa campo / diventa prato e arriva sventata / come una Pasqua»), oppure – ma con quale perdita! – viene sentito come possibile solo nel passato («Oggi non è oggi ma abbiamo avuto tempo per la vita / e per la strada, per le gare delle gocce e quelle dietro ai cancelli / dei bambini»). Eppure, anche il passato e il futuro possono essere smarriti («svegliarsi / come sirena che trema, dal sonno viene la recita fredda / dei primi passi quando per poco non appartieni / più a nulla, nemmeno alla vita di poi o quella di prima»). Ci si apre esplicitamente alla dimensione del sogno: lo stesso stile dell’intera raccolta sembra alludere a un qualche linguaggio onirico. Più precisamente, nell’ultima sezione il sogno è preso in considerazione come variante iponimica di visione, giacché si constata una volta di più che «c’è l’altro, esiste / sempre altro se guardi» e che «Vedere qualcosa è già vedere / tutto, ma pensare tutto è stata solo l’esagerazione di una passeggiata / immaginata». Questo tipo di «vedere» non è altro che l’equivalente biologico di ciò che questo stile poetico produce: l’apertura al «tutto» a partire da singole parole-significanti. Un pensiero che solipsisticamente cerchi di pensare tutto produce un puro immaginario, una non-verità, un non-essere. Vedere «qualcosa che non è ritorno non è inizio», che è quindi un puro presente aperto in ogni direzione, ben al di là di qualsiasi «problema / del realismo», significa invece aprirsi al rischio-scommessa dell’essere, alla «realtà che è qua [e in cui] siamo equidistanti da ogni dove».
Non essere. Titolo ingeneroso e opportuno, perché la raccolta è un continuo incontro-scontro con il non-essere, un ruminare continuo sul non-essere e al tempo stesso un ostinato sentire quanto poco essenziale esso sia per la vita («Ci vuole troppo a non essere e tante stelle hanno bisogno / di annerire»). Forse, al contrario di quanto succede nei succitati stilemi di sostituzione, per cui ciò che non c’è può esistere solo in virtù della sua assenza, dovremmo leggere quel «non» come assente, e assente solo in quanto assolutamente presente: ovvero continuamente metabolizzato.  Essere.

di Riccardo Vanin

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