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ROBERTO ANDREOTTI,
Classici 
elettrici. Da Omero al tardoantico,
Milano, Rizzoli 2006

di Gianpiero Rosati
  
Accade raramente che un libro si presenti al suo potenziale lettore con l’efficacia retorico-comunicativa di questo volume, che all’astuto ossimoro del titolo affianca il nitido corrispettivo figurato della cover, un’immagine-simbolo del classico (le colonne spezzate) come la vede l’occhio di un grande artista pop americano, Roy Lichtenstein. Se classico è qualcosa fuori del tempo, e tendenzialmente legato al passato, elettrico è viceversa simbolo, se non quintessenza, della modernità. La ‘scossa’ che deriva dal loro accostamento, e che può generare energia intellettuale utile a capire il nostro mondo di oggi, è l’obiettivo cui punta l’autore, lui stesso un ossimoro, con un profilo biografico-intellettuale che lo vede passare da una severa formazione in filologia classica alla redazione del supplemento culturale di un quotidiano ‘militante’, da Wilamowitz e Momigliano al Manifesto. Il tratto autobiografico è del resto una componente dichiarata del volume (Filologia della gioventù si intitola l’ampia introduzione), che vuol anche disegnare l’orizzonte intellettuale di una generazione, o almeno di una sua fetta significativa, formatasi nelle tumultuose aule universitarie degli anni Settanta. Andreotti rievoca efficacemente, pur con pochi tratti, il clima e le energie diffuse degli anni della sua formazione pisana, il senso di crescita e l’ansia di novità che era parte di un clima intellettuale generale (Barthes, Segre, Genette, Foucault etc.) di cui anche i classici risentivano e beneficiavano («un campo magnetico di corrispondenze tra filologia, linguistica ed elaborazioni del mondo», p. 33). Proprio a Pisa nasce nel 1978 «MD», una rivista di filologia e cultura classica destinata a imporsi rapidamente nel panorama internazionale, che puntava a trasferire nello studio dell’antico quelle tensioni intellettuali e che ha contribuito in maniera cospicua al rinnovamento degli studi classici, in particolare di letteratura latina, nell’ultimo trentennio. Su questo sfondo (che dal linguaggio di quegli anni fa riaffiorare qualche frammento nelle stesse formule di analisi: «l’ovidiana strategia della tensione», p. 131), Andreotti abbozza anche una storia degli sviluppi delle tendenze critiche dai ’70 ai ’90 e oltre (marxismo, strutturalismo, semiologia, intertestualità, antropologia, neo-storicismo, decostru- zionismo, ideologia delle forme etc.). Degli sviluppi ma anche dei conflitti, talora aspri (Un duello anni Settanta, p. 28), fra le ideologie critiche che si erano faticosamente affermate e quelle che già premevano per sostituirle. Fino all’ultimo sguardo (Dagli stilisti al Gender, p. 30) su un panorama critico che si è rapida- mente trasformato e ha spostato il suo baricentro fuori del continente, nel mondo anglofono (che rischia di restare sordo a chiunque non parli la lingua dell’impero). Il corpo centrale del volume, dopo il capitolo introduttivo, è costituito da una serie di schede-recensioni su testi di autori classici (o più raramente di saggi su autori classici) pubblicati da editori italiani nell’arco di tempo fra il 1995 e il 2002, strutturata in 10 capitoli tematici. Andreotti legge e segnala libri di ogni genere, da collane come BUR, Oscar, Grandi Libri Garzanti, il Convivio di Marsilio e altre fino alla «collana molto popolare Superbur» ma anche ad altre più ambiziose, come i Classici della Valla, o a commenti di tipo scientifico-accademico, rendendoli interessanti e accessibili a chi non abbia un interesse ‘professio- nale’ per i classici. Soprattutto non rinuncia a segnalare senza pedanteria dati filologici e critici che spesso ‘danno profondità’ a queste schede, invogliano ad andare oltre l’occasione del momento: indica generalmente il testo critico di riferimento (e così i nomi di Leo, Norden, Housman, Winterbottom, Diggle, Zwierlein vengono evocati come personaggi di un panorama intellettuale che Andreotti conosce e rende potenzialmente degni d’interesse anche per il lettore generico che non li ha mai sentiti nominare) così come non rinuncia a segnalare saggi im- portanti della recente bibliografia critica internazionale. Un campione specifico di questo settore è il capitolo finale del volume (Figure della critica), che discute singoli lavori di quattro star della cultura classica di oggi (Barchiesi, Feeney, Segal, Settis) che sono a loro volta esempi di lettura elettrica dei classici: rappresentano cioè al meglio questo incontro-scontro, quel rapporto tutt’altro che conciliante, pacificamente accomodante di antico e moderno, che Andreotti indica come il modo più produttivo di confrontarsi con il classico.
L’elettricità, della scrittura e del pensiero, è appunto quella che anche in queste pagine scaturisce dal sistematico mettere a contatto direttamente, senza mediazioni, i due poli dell’antico e del moderno: l’effetto di straniamento che ne risulta ci costringe a pensare, a riconsiderare il nostro rapporto col classico sempre attraverso la coscienza del nostro ‘essere nel mondo’, della nostra modernità. Se c’è un modello di scrittura del miglior giornalismo culturale che qui si riconosce e affiora ripetutamente alla lettura di certi brani (ad es. p. 73 su Terenzio; o p. 85 su Lucano) è quello di Arbasino, con la sua tipica vertigine onomastico-combinatoria («l’ausiliaria Taide di Gustave Doré, che però sembra uscita da una tela di Delacroix e si schermisce con statuaria posa da vamp scosciata agli occhi di un arcigno Dante», p. 73), lo scarto dei registri o l’ebbrezza dell’accumulo e dell’accostamento imprevisto (ma anche qualcuno dei numi del suo pantheon, come Mario Praz). Verve quindi, illuminazioni improvvise e soprattutto spirito, divertimento, ‘piacere del testo’ (un concetto, e un obiettivo, invocato spesso da Andreotti). Un piacere che molto spesso deriva proprio dalla rea- zione elettrica che il critico sa attivare, e in cui la formula brillante (come in molti dei titoletti: Medea, un’eroina rashomonizzata; Samia, pretty woman dei papiri; Il Miles gloriosus alle Frattocchie; Defilé d’autunno a Olimpia; Trekking teologico in Cappadocia, etc.) non resta fine a se stessa ma coglie spesso un effettivo nodo critico, ad esempio quando conia etichette friz- zanti che sono tuttavia anche formule critiche pienamente pertinenti (come «i tur- bamenti del giovane Achille» per l’Achilleide di Stazio). Lungi dall’esserne quindi una vestale acriticamente devota, Andreotti prende di petto i classici e li affronta, pretende di averne una risposta valida per il lettore, qualunque lettore, di oggi. Ma il libro ha un effetto salutare anche sotto un altro punto di vista: Andreotti non è per fortuna (sia sua che nostra) un critico-professore, il che gli permette di essere un critico tout court che al lettore generico e occasionale, al lettore di un quotidiano, mostra quali possono essere le ragioni che ren- dono la lettura di Eliano o di Pausania non solo più utile, come investimento in- tellettuale, di tanta letteratura o saggistica contemporanea destinata a durare lo spazio sì e no di un decennio, ma anche più capaci di situarci nel nostro mondo e di farcelo capire, di creare un effetto elet- trico che d’improvviso ci illumina. Oltre che naturalmente di farci divertire. Se però Andreotti è integralmente immune dal rischio della pedanteria, non si deve credere che sia corrivo o indulgente verso i vezzi del giornalismo, dalle cui sciatte- rie intellettuali mette anzi più volte in guardia («oggi, poi, che lo spettro del sensazionalismo si aggira fra noi con le varie Atene nere e le folgoranti Ultime Notizie di comparatisti e antropologi», p. 44). Un’altra differenza che si percepisce nettamente fra Andreotti e tanti altri recensori distratti dei nostri quotidiani o periodici è nel suo mostrarsi interessato non solo al rapporto diretto del lettore con i testi, con i classici, ma anche con chi glieli presenta e ne media la ricezione, cioè con i curatori. Certo per esser stato studente di filologia lui stesso, Andreotti rispetta le competenze e non fa mai mo- stra di ritenere indifferente o trascurabile (come molti recensori fanno, passandoli sotto silenzio) il lavoro dei curatori, che apprezza o disapprova liberamente, senza posizioni preconcette o rispetto di gerarchie accademiche (i traduttori e critici rinomati che scrivono pagine introduttive frettolose e disinformate o «fanno i baffi alla Gioconda», p. 123). Proprio in virtù del senso di cultura militante e di impegno culturale che anima queste pagine, Andreotti prende posizione, valuta e giudica sine ira et studio ma anche senza quella melassa di generico consenso-ap- provazione di tanti recensori superficiali (o incapaci di valutare), bensì con l’attenzione critica di una persona informata, che evidentemente sa cosa accade nei dipartimenti di classics nel mondo e quali sono i temi caldi, i settori o gli autori sui quali si lavora più intensamente, quali sono le linee critiche prevalenti. Così come presta molta attenzione all’editoria italiana, alle sue scelte di fondo e allo spazio che essa riserva ai classici, segnalandone talora i meriti ma anche la pigrizia o la superficialità intellettuale. E in questo senso questo volumetto è anche un documento prezioso, e anzi pressoché unico, per chi, poniamo, volesse fra qualche decennio avere un’idea della presenza dei classici nella cultura diffusa, presso il pubblico dei lettori generici di un paese in cui nelle edicole delle stazioni ferroviarie si possono acquistare al prezzo di pochi euro le opere di autori come Igino, o Arriano, o Strabone, che nel resto del mondo non sono immaginabili se non nelle biblioteche super specializzate dei dipartimenti di classics. Perché questo libro offre appunto qualcosa che non si ricava dalla riviste di filologia: è anche lo specchio di un microcosmo, del mondo, forse piccolo ma in proporzione certamente meno piccolo che in altri paesi di più solide abitudini alla lettura, di chi in questi decenni si dedica al lavoro sui classici. Un mondo in cui, accanto ai grandi nomi e alle figure di no- torietà internazionale, ci sono anche studiosi più modesti, meno noti o addirittura sconosciuti, che pure danno il loro contributo allo studio dei testi classici e alla loro circolazione presso una classe di let- tori che vi trova ancora ragione di interesse e divertimento. Insomma il volume dà davvero quello che promette: l’energia intellettuale che lo anima conferma che i classici sono, pos- sono davvero essere elettrici, se solo li si legge con la tensione e la passione di chi vive consapevolmente il proprio tempo.

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