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SANDRO PENNA, Poesie, prose e diari, a cura e con un saggio introduttivo di ROBERTO DEIDIER, Cronologia di Elio Pecora, Milano, Mondadori, 2017, pp. CLII + 1420, € 80,00.

Fra Joseph Bédier e Gaston Paris, pro­babilmente oggi opterei per Bédier: ovvero per la storia, contro la fiducia ottimistica di rintracciare l’originale. Può sembrare biz­zarro partire da questa costatazione per parlare di Penna e dell’edizione integrale di un contemporaneo. In realtà che l’edizione di un contemporaneo sia agevole è una dottrina scarsamente verificata. Le con­dizioni finiscono per essere non molto di­verse da quelle di un testo medievale, rese persino più intricate da ciò che a prima vi­sta potrebbe sembrare un vantaggio: l’ab­bondanza di documentazione permette di seguire nei dettagli l’affollarsi dei progetti, tra cui però non è sempre facile orientarsi. Pubblicare non è il passaggio scontato in tipografia di un progetto autoriale: nel con­testo dell’editoria moderna (e poi industria­le) l’autorialità ha veramente mutato faccia. È anzi legittimo domandarsi fino a che punto autorialità e volontà d’autore possa­no essere gli unici criteri di riferimento, o non rischino di risolversi in petizioni di prin­cipio che sfiorano l’arbitrarietà, conside­rando la materialità dei processi attraverso cui si costituisce il libro. E, va aggiunto, la contrattazione autore-editore che questo comporta. Un interventismo sempre più massiccio della redazione, e in termini di omologazione a modelli predefiniti dalle case editrici, coincide con una deriva del paradigma tradizionale di autore e volon­tà d’autore. Autorialità (volontà d’autore) e storia dell’opera non sono perciò punti di osservazione sempre sovrapponibili e il loro intreccio va affrontato non ideologica­mente. Il caso di Penna è davvero esem­plare.

Il corpo testuale tradito della sua poe­sia si identifica come deposito della storia editoriale. Una vicenda che è stata varia­mente discussa, spesso derubricando il ruolo effettivo giocato da Penna, ma che, osservata senza preconcetti, rivela una linea di coerenza e stabilità nell’intero suo sviluppo. Dal 1957 Garzanti è stato l’editore di riferimento: le Poesie del 1957 raccolgono tutta l’opera precedente con l’aggiunta di una corposa sezione di inediti, Poesie 1938–1955, che diven­ta il baricentro del libro. Tutte le poesie 1970 non fa che aggiungere al libro del 1957 l’unica raccolta successiva, Croce e delizia 1958, e un ulteriore nucleo di poesie inedite (o apparse solo in rivista), Altre [1936–1957], fissando le coordinate cronologiche della scrittura: oltre il 1957 Penna ritorna sui testi, ma con buona probabilità non scrive più (o quasi più). La nuova edizione, Poesie 1989, più vol­te ristampata, aggiunge le due raccolte posteriori al 1970: una sistemazione che si doveva forse evitare, non essendo certamente d’autore, tenendo Stranezze 1957–1976 e Il viaggiatore insonne ben distinte dall’asse Poesie - Tutte le poesie. La precisazione, però, non cambia mol­to: uno strato dopo l’altro, l’opera coin­cide davvero con la sua storia editoriale, secondo un modo di procedere molto conservativo che lo stesso Penna legit­tima certificandone l’autenticità con una Nota, nel 1957 e poi di nuovo nel 1970. I fatti sono estremamente limpidi: qualche sconcerto può nascere da un titolo come Stranezze 1957–1976, le cui date non sembrano fare sistema, ma per il resto il quadro non è dei più controversi e irridu­cibili. Certo, se per un attimo accantonia­mo il falso problema dell’autorialità.

L’edizione curata da Roberto Deidier per Mondadori parte invece da un diverso ragionamento: fermare un testo che rap­presenti la volontà (o meglio l’ultima vo­lontà) dell’autore, perché la storia edito­riale è un susseguirsi di tradimenti e i libri il risultato di manipolazioni arbitrarie da par­te di amici, consulenti, editori. L’imposta­zione non ammette deroghe – tutti i libri di Penna sono manipolati – e si traduce in un impianto altrettanto netto del «Me­ridiano». L’unico libro sulla cui autorialità non sussisterebbero incertezze sarebbe l’auto-antologia Poesie 1973, anch’essa pubblicata da Garzanti, e pertanto l’edi­zione dell’opera poetica di Penna in Poe­sie, prose e diari si organizza in due sezio­ni: Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 (= Poesie 1973, con l’aggiunta di La vita… è ricordarsi un risveglio) e Poesie 1922–1976, ovvero la lunghissima cam­pata che raccoglie tutto il rimanente. È il caso però di precisare che Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 non è un titolo autoriale – lo decide il curatore – e che la sezione (o il libro: si resta in forse) non combacia con Poesie 1973: La vita… è ricordarsi un risveglio non è presente in quel volume, ma secondo un appun­to di Penna (che l’editore assume come attestazione d’autore incontrovertibile) sarebbe stata esclusa ‘proditoriamente’ dall’editore. Ci si domanda se, a rigore, non sarebbe stato meglio ripubblicare un libro che è esistito (ancora Bédier), Poesie 1973, col suo titolo e dare notizia della poesia ‘espunta’ in apparato: anche il let­tore meno provveduto intuisce dai docu­menti che Penna ha il vezzo di lamentarsi, sempre e comunque, e non è proprio un campione di attendibilità. Non è un po’ ingenuo prendere per buone le sue pa­turnie, immaginando che Livio Garzanti gli sottragga di nascosto uno dei testi più famosi? con quale vantaggio? Fatta la scelta opinabilissima di intervenire, e sulla base di una dichiarazione inverifica­bile, Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 diventa un libro collaborativo – e per di più in assenza forzata dell’autore – non meno di tutti gli altri. Il che conferma, implicitamente, la storia da cui si vorrebbe riscattare un Penna autentico e compos sui: che non si dà mai libro di Penna sen­za un qualche intervento esterno e una forte mediazione editoriale. Il che non vuol dire in modo automatico prevaricazione.

L’autorevolezza di un libro non si in­crementa tautologicamente marcando nei dintorni del testo che il libro è autore­vole: Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 non equivale a Poesie (il titolo del 1973). E non lo traduce in termini più chiari. È un titolo che rispecchia l’intenzio­ne del curatore e semmai rappresenta un elemento di fragilità nell’intero edificio: non basta creare un’etichetta forte (in realtà una formula retorica) perché automaticamente l’operazione si carichi di forza. La retorica non surroga una materialità facilmente ve­rificabile. Poesie 1973 è un’auto-antologia condotta su Tutte le poesie 1970 (basta controllare l’indice): non si tratta affatto di un progetto originale, ma dipende diret­tamente dall’ultima edizione disponibile, ovvero è il frutto tardivo della storia edito­riale di Penna. In un circolo vizioso, proprio quella storia che si vorrebbe cacciare dalla porta rientra dalla finestra. Poesie scelte e raccolte dall’autore nel 1973 implica un al­tro rischio: puntando tutto sul 1973 fa del libro il prodotto di quello che potremmo definire il gusto momentaneo di Penna. Una cosa a cui Penna tiene molto, ma che non rappresenta un criterio: quale sarebbe stato il gusto di Penna nel 1974? È eviden­te che è il riflesso di un’autorialità decen­trata e in continua fluttuazione, come per gli altri libri. E inoltre, se tutta la storia di Penna è una storia di tradimenti, il tradi­mento si insinua anche nella tarda antolo­gia d’autore: manca La vita… è ricordarsi un risveglio. Poesie 1973 è, come ogni raccolta, imperfetta, dal punto di vista in movimento del suo autore: il nodo è infatti un’autorialità che non si ferma mai in una costruzione convincente e stabile di sé; inseguire un’autorialità del genere significa imboccare una deriva senza fine, entran­do nel terreno insidioso dell’attendibilità o della «sincerità» di Penna e di una biografia così variabile, che a ogni svolta riorienta una possibile lettura dell’opera, senza mai cristallizzarne una, come abbandoniamo l’asse Poesie - Tutte le poesie. Non si tratta dunque di inseguire Penna – non si approda a nulla –, ma di mettere a tema la questione come uno dei grandi nodi della poesia novecentesca, non solo di Penna. Con tutta franchezza, secondo quali criteri di autorialità si dovrebbe ripubblicare oggi Sbarbaro? Oppure Gatto? Ma intorno a Sbarbaro o a Gatto non si è creato il mito dell’originalità che assedia Penna.

Il ritratto più efficace dell’automatismo che scatta quando Penna si trova alle prese col libro è narrato da Garboli – con Pasolini uno dei grandi mistificatori – nella Postfazione a Stranezze 1976, di cui vale la pena di riportare un estratto un po’ am­pio (pp. 36–37):

«Così è difficile datarle le poesie di Penna. Fuori dai periodi cronologici in cui vengono iscritte in occasioni delle grandi mostre, ciascuna di esse o databile stilisti­camente, o si perde in una vita che non ha date. E le periodizzazioni di Penna sono poi attendibili? Vai a sapere se […] Muovonsi opachi coi lucenti secchi […] sia stata scrit­ta realmente dopo il ’70. Non appartiene a ‘prima’ tutta quella luce, quel battere di panni? Ma Penna è irremovibile, non sente ragioni, e invano gli faccio notare che Muo­vonsi è uno dei pochissimi testi non mano­scritti, ma dattiloscritti, per giunta sopra un foglietto ingiallito. Da questo Muovonsi è nata una lite. E un’altra, devo confessarlo, è nata dal fatto che Penna non ama questo libro, al punto che pretendeva – quando era già in bozze – che io lo aiutassi a non pub­blicarlo. E come potevo? E poi, era sincero, Penna? Penna è un uomo strano. È come le donne e i bambini. Tutto il suo essere, tutta la sua faccia sprigiona sincerità. Ma non sai mai, quando parla, se dice il vero o il falso. Così ho spiato a lungo, nel suo volto, i suoi pensieri, la sua volontà, come Brunilde la spiava sul volto di Wotan. Era sincero? […] Penna ha sempre fatto così, con ogni raccolta, disprezzandola, avvilen­dola in confronto allo splendore irrevocabile delle poesie di ‘prima’».

Il passaggio è illuminante e non si ca­pisce proprio per quale ragione Deidier non lo riporti in apparato al «Meridiano», almeno in stralcio: perché è evidente che rimette in discussione il suo intero ‘impian­to accusatorio’. Riassumiamo le tappe. Penna decide la disposizione delle poe­sie di Stranezze 1976 secondo gli estremi 1957-1976, Garboli osserva che le date non gli tornano (molte poesie sono sicura­mente anteriori al 1957), Penna si impunta sulle date perché Stranezze vuole rappre­sentare una nuova fase della sua poesia – il «poeta del “mistero”» – e i due litigano. Le date non rispecchiano una cronologia reale, si capisce; marcano simbolicamen­te nel tempo una divergenza che invece è nello stile: sono questioni tutt’altro che marginali, che non dovrebbero essere tra­scurate, se vogliamo davvero comprende­re le dinamiche interne al sistema Penna. A volume ormai in bozze Penna vorrebbe che Garboli facesse interrompere la stam­pa: Garboli – ovviamente: ci sarà stato un contratto – non gli dà ascolto, come hanno fatto tutti gli editori precedenti. E sempre con qualche ottima ragione.

Garboli dice che Stranezze è costruito come lo ha voluto Penna: secondo criteri che lui non ha condiviso. In una pagina che è un capolavoro di sottintesi (e per questo criticamente molto discutibile) Deidier la­scia intendere (non lo dice) che il libro reca la mano di altri: essendo due – Penna e Garboli –, di chi se non Garboli? Deidier contro Garboli. Garboli sottolinea che le «periodizzazioni» del libro sono di Penna (e non attendibili). Deidier dice che le «date sia sulla sovracoperta che nel frontespi­zio» sono la «riprova di una volontà (non autoriale) di contiguità cronologica con Tutte le poesie» (Poesie, prose e diari, p. 942). Di nuovo Deidier contro Garboli, con un corollario che però va almeno enuncia­to: Garboli avrebbe inventato una storia parecchio complicata per nascondere il modo in cui ha truffato Penna (e di que­sto Penna si sarebbe accorto in bozze)? Anche questa è una mera illazione, certo: Deidier non dice nulla di simile. Se l’ope­razione critica del «Meridiano» punta a di­mostrare che tutti i documenti contengono le prove delle clamorose manipolazioni su­bite da Penna, la lettura spassionata dei documenti, anche quelli che il «Meridiano» riporta, sembra però dimostrare esatta­mente l’opposto. E anche la fatica che il curatore deve compiere per far quadrare conti che comunque non tornano.

Lo scenario di Stranezze si ripete ad ogni raccolta, e in alcuni casi è davvero palese che Penna «dice il falso» o non è «sincero». Meno moralisticamente: ha cam­biato idea, per un’incapacità sistemica di riconoscersi nel libro che lui stesso ha im­postato. È la vera questione, che andrebbe posta al centro della riflessione e non conti­nuamente aggirata, come fa il «Meridiano», in cerca di un’autorialità che non esiste nei termini in cui la pone Deidier. Per Penna e per molti altri: è bene insistere,

Quello che Penna scrive nel 1960 di Poesie 1957 è un mezzo ripudio: «Il li­bro era uscito quasi a forza, per volontà dell’amico Pier Paolo, al quale poi rim­proverai addirittura dei tradimenti» (E. F. Accrocca [a cura di], Ritratti su misura di scrittori italiani: notizie biografiche, con­fessioni, bibliografie di poeti, narratori e critici, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 325). Se però prendiamo la Nota del­lo stesso Penna a Poesie 1957, il tono è molto diverso: «E come perdonarmi di non avere affatto ritoccato le poesie di Appunti e di Una strana gioia di vivere, anche se qui si tratta di due volumetti (“marginali”) che sono stati da qualcuno apprezzati così com’erano, in blocco? E allora c’è forse in me la speranza (non più “segreta”, dunque) di non perdere quei pochi, troppo affettuosi, riconoscimenti?» (Poesie, prose e diari, p. 928). La scelta di ripubblicare Appunti e Una strana gio­ia di vivere invariati è dunque sua: così come, va aggiunto, la struttura del libro centrata sul grosso nucleo delle poesie inedite, Poesie 1938–1955, l’ha pensata lui. Parlano di libri diversi, ma nella circo­stanza della responsabilità autoriale ciò che racconta Garboli coincide con quello che scrive Penna. Anche per Poesie 1957 la Nota offre una chiave d’interpretazione d’autore della struttura del libro così com­plessa che è impensabile ignorarla: ma di nuovo, non essendo pregiudizialmente di Penna, Poesie 1957 non può che esse­re testimonianza di conflitto e disordine. Considerando tutti gli elementi disponibili, è davvero la soluzione meno economica.

A partire da Poesie 1939, e a seconda dei documenti disponibili, lo psicodram­ma di Penna vittima della congiura si rin­nova di raccolta in raccolta. Per Croce e delizia, ad esempio, che sarebbe un vero scempio: Naldini, che cura la «Collana di poesia» per Longanesi (e dopo Croce e delizia chiude bottega) impazzisce dietro ai mutamenti di umore di Penna. E tut­tavia, malgrado il suggerimento esplicito di Pasolini, non sottrae la raccolta all’au­tore: «Segna quelle che desideri che sia­no pubblicate – delle 14 poesie aggiunte – con tutte le correzioni chiarissime» (2 maggio 1958). Niente di esorbitante, in­somma, rispetto a un qualunque rapporto di collaborazione con uno scrittore bizzo­so e indeciso. Il libro è il risultato di una contrattazione fra autore e curatore della collana: tutto qui, non è manipolato.

Anche quando le cose sembrano fila­re liscio, l’atteggiamento di Penna ha un rapporto con la propria opera a dir poco singolare. A proposito di Una strana gio­ia di vivere 1956 scrive: «A questo punto debbo dire che l’ideale dell’editore è sta­to, per me, Vanni Scheiwiller». Ma come è nata la raccolta del 1956? Dalla rinuncia consapevole a introdurre correzioni nelle poesie e a ordinare il libro; compiti che Penna delega al tipografo: «Io rinunciai ad ordinarle (le poesie) a modo mio con l’idea di dare meno lavoro al tipografo, una volta che le ha numerate» (15 marzo 1956). Più chiaro di così: salvo poi rimpro­verarsi, nella solita Nota a Poesie 1957, di non aver rivisto i testi di Appunti e Una strana gioia di vivere prima di ripubblicarli. Però è l’autore che ha deciso di non farlo, e per ragioni che sono sue: in assenza di altri documenti, è una soglia che il critico non varca.

Fondare su accertamenti del genere la non autorialità dell’opera edita di Penna è metodologicamente fuorviante: i do­cumenti dicono sempre altro, e possono essere letti con minor sforzo come indizi di autorialità. Un’autorialità debole e con­traddittoria, prona ai consigli altrui forse, ma che nei momenti decisivi – Poesie 1957 e Tutte le poesie 1970 – coincide sempre con una piena assunzione di responsabilità nei confronti dell’opera. Qualcosa vorrà dire. È inoltre un caso così anomalo – che merita di essere isolato – nel panorama editoriale del Novecento, oppure se facessimo una campionatura un po’ più estesa, Penna sarebbe una delle possibili modalità di contrattazione del libro? E dunque di autorialità. La feno­menologia post–traumatica (dove il trau­ma per Penna è il libro a stampa) riguarda la sua peculiare autorialità – che poi tanto peculiare non è –, ma non intacca minima­mente l’attestazione di paternità dell’ope­ra. Verificare il contrario, significherebbe portare delle prove che nei documenti disponibili non ci sono: nessuna sconfes­sione aperta dell’opera. Che per Penna il libro come si è realizzato non rispecchi il libro che avrebbe voluto realizzare ha altre implicazioni, molto più complesse, che la non autorialità dell’opera. Anche in que­sto caso, un’attenuazione dell’apparen­te eccezionalità potrebbe venire da una prospettiva meno angusta, monografica, della filologia novecentesca.

La nozione di autore e di libro accre­ditata dal «Meridiano» non offre una mi­gliore legittimazione dell’opera e finisce per annullarne la complessa stratigrafia pubblica – che resta l’unico dato certo e documentabile –, in nome di un’autorialità astratta, che riflette il teorema del curato­re, ma risulta del tutto estranea ai modi in cui si è formato il deposito storico dell’o­pera e alla sua ricezione. Oltre a trascura­re come la ricezione di un libro possa aver influenzato la costruzione dei successivi: nel caso di Stranezze e del «poeta del “mistero» questo è chiarissimo. Confinare la storia in apparato, ma con lo stigma di sottoprodotto della sistematica adultera­zione dell’originalità di Penna, non com­pensa lo stravolgimento del corpo testua­le. Un’autorialità così mobile (debole?) non sta nelle forme monumentali dell’edi­tio ne varietur – fosse anche Poesie 1973 –, ma proprio nel fluttuare della sua storia. Neppure nella metafisica dell’originale.

Optare per Poesie 1973 significa pri­vilegiare un prodotto laterale nella costru­zione dell’opera, che peraltro condensa senza un vero criterio decifrabile Poesie 1970. Pur avendo il corpus a quella data completo, che ha la sua ragion d’essere storica, se ne predilige una selezione che non cambia affatto la sostanza dell’opera – quella appunto fissata in Poesie 1970 –, ma schiaccia tutto il percorso di Pen­na su un’immagine che non è il ‘vero’ Penna, bensì una delle possibili versioni di sé e della propria opera. Senile e de­rogatoria: Stranezze è sicuramente il libro fondamentale degli anni Settanta. Averlo eliminato non è decisione di grande intel­ligenza critica. L’atto magico di cancellare la storia di Penna non produce nessun valore aggiunto: spazza invece via la sto­ria del sistema di relazioni che Penna in­trattiene con il resto del Novecento. Ne fa un’isola priva di ogni relazione col mondo che la circonda: il «Meridiano» ripropone un impianto idealistico per un verso e per l’altro è costretto a recuperare la storia come una sorta di magma in quell’enor­me contenitore che è l’invenzione di Po­esie 1922–1976. Non essendo spesso possibile indicare la data di composizione dei singoli testi, Deidier è costretto a pub­blicarli secondo la data della loro prima comparsa in rivista o in raccolta: in que­sto modo la storia delle singole raccolte, come storia di una sistematica falsifica­zione ai danni dell’autenticità inespressa di Penna, resta comunque la struttura portante del «Meridiano»: con una scelta che però la rende meno evidente, oscu­randola. Col risultato di un coacervo in cui è faticoso orizzontarsi, dal momento che obbedisce a due criteri in Penna incon­ciliabili: data di composizione o data di pubblicazione in raccolta.

Un’operazione del genere rende la sto­ria di Penna quasi del tutto impraticabile. Tradotta poi in un tascabile è semplice­mente impensabile. E tuttavia può avere un’utilità, se comincia a far riflettere sui paradigmi (o sulla mancanza di paradig­mi) a cui l’editoria obbedisce per restituire l’opera degli scrittori contemporanei. So­prattutto dei poeti. La mancanza di una visione d’insieme, a cui spesso corrispon­de la fretta di mettere insieme il libro, per una qualche ricorrenza, e la percezione di ogni autore nella prospettiva inadeguata della monografia, finiscono per produrre distorsioni, appiattimenti e una formidabile perdita di memoria. In modi diversi – per fare due esempi – Poesie, prose e diari di Penna o Tutte le poesie di Benedetti (Mila­no, Garzanti, 2017), che fa cominciare la vicenda poetica di quest’ultimo con Uma­na gloria, pongono sul tappeto una que­stione di metodo e una visione d’insieme che andrebbero finalmente affrontate. Non lasciandole risolvere dal calcolo del mer­cato editoriale o da imperscrutabili criteri soggettivi: pena la riduzione all’illeggibilità del Novecento e dei suoi processi.

(Stefano Giovannuzzi)


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