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SIMONE LENZI, Per il verso giusto. Piccola anatomia della canzone, pref. di Francesco Bianconi, Marsilio 2017, pp. 155, € 15,00.

La produzione di libri sulla canzone, soprattutto sulla storia della canzone ita­liana e dei cantautori, si è intensificata a un livello quasi insostenibile negli ultimi anni, per soddisfare sia un’esigenza di culto dei cosiddetti fan sia, ormai, per il riconosci­mento del peso che la musica un tempo chiamata “leggera” ha sul profilo sociale di un’epoca e sulla storia personale di un individuo. Questa pubblicistica comincia ad avere una destinazione anche didatti­ca, man mano che l’argomento comincia ad entrare nei syllabi universitari come popular music, etnomusicologia o altro: ampia risonanza ad esempio ha avuto nei media locali e nazionali l’insegnamento che abbiamo istituito nell’anno accademi­co 2017-18 al corso magistrale di Lettere Moderne dell’Università di Siena su Storia e forme della canzone, dai Carmina Bura­na (anzi, dagli inni ambrosiani e dai ritmi carolingi) a Bob Dylan e Fabrizio De André, del quale Siena conserva l’archivio depo­sitato dalla famiglia e dalla Fondazione omonima. La stragrande maggioranza di queste pubblicazioni segue però imposta­zioni giornalistiche che privilegiano il dato sociale e l’aneddoto personale e divistico, o nel migliore dei casi si soffermano sull’a­nalisi di qualche testo, anche nei suoi rap­porti letterari reali o presunti, evidenziando come uno dei problemi per un approccio analitico all’argomento sia l’assenza di un metodo critico e di fondamenti riconosciu­ti per la comprensione storica e formale dell’oggetto ‘canzone’. Proprio mentre continuavano a uscire raccolte e analisi di testi Paolo Conte e Francesco De Gregori, in interviste recentissime, hanno ribadito la loro posizione, che è quella di tutti i can­tautori, secondo cui se i testi diventano memorabili è soprattutto grazie alla musi­ca che li supporta, li rende gradevoli e/o li trasforma in emozioni, fino al punto di sostenere, come disse paradossalmente Conte in Poesia e canzone, che quando si lavora a un testo l’obiettivo è principal­mente quello di “non dar troppo fastidio alla musica”.

A questo panorama, che riduce la canzone a fenomeno sociale o letterario, fanno eccezione pochissimi studi di mag­giore serietà: fra questo il volume di Paolo Talanca (Il canone dei cantautori italiani: la letteratura della canzone d’autore e la scuola delle età, Carabba 2017, pp. 416), che propone un suo schema generazio­nale ma soprattutto una sua definizione di “codice” della canzone nel quale il testo è solo una delle cinque o sei componen­ti. Pochi mesi prima era uscito l’aureo libretto di Simone Lenzi, artista poliedrico come cantante e compositore del gruppo rock Virginiana Miller, coi quali ha vinto un David di Donatello per colonne sono­re, scrittore (premiato anche dal Ceppo Narrativa 2016), sceneggiatore di film per Paolo Virzì (Tutti i santi giorni) e Francesco Bruni, traduttore di poesia latina (Marzia­le, insieme al docente di Princeton Simo­ne Marchesi). Per il verso giusto, introdot­to da una spiritosa prefazione di Bianconi dei Baustelle, si apre con una formula­zione che non lascia scampo ai cliché riduzionisti (tipo «la canzone è poesia»): «Una canzone è fatta di parole e musica, certo. Ma non è poesia messa in musica. E non è musica con l’aggiunta di qualche orpello di parole. Non dobbiamo lasciarci ingannare: i testi delle canzoni finiscono nelle antologie scolastiche, ma c’è di che esserne felici e di che scuoterne la testa (…) la canzone è un “tutto” che vale più della somma delle parti. » (…) Da qui il ti­tolo: «Le canzoni, insomma, vanno prese per il verso giusto, senza trasformarle in ciò che non sono o, peggio, ignorando ciò che sono davvero: un amalgama di testo e musica che tende alla simbiosi».

Di questo connubio Lenzi analizza in ordine documentato, ma con brio e leg­gerezza alcuni aspetti o casi esemplari, partendo da una dimostrazione di come testo e musica si armonizzino rafforzan­do la comunicazione complessiva del brano in Michelle dei Beatles. Il secondo capitolo fonda la terminologia madrigali­stica con cui Lenzi definisce un connubio simbiotico fra testo e musica, esemplifi­candolo in maniera magistrale con il La­mento della Ninfa di Monteverdi, dove la dissonanza Fa/Mi su “suo dolor” incarna perfettamente il sentimento del testo e le sospensioni di ¼ fra “gran… sospir… dal cor” sembrano imitare in suoni e pause il gesto fisico del sospiro, e spiega questo meccanismo onomatopeico sulla base di espressioni platoniche e agostiniane relative al ritmo e all’armonia che penetra­no eis tò entós tès psychés, “nell’intimo dell’anima” più di quanto potrebbe fare il testo col suo appello alla razionalità. Dal capitolo seguente si entra ne Gli strumen­ti dell’autore di canzoni: dalla melodia, al ritmo, all’arrangiamento (o produzione), con esempi di grande efficacia che vanno dal Somewhere over the raimbow sem­pre citato nei manuali sulla canzone per il suo salto di un’ottava (sulla nota di whe) “sopra l’arcobaleno”, così come è spes­so citato Battiato per la sua oscillazione sull’intervallo di seconda in Centro di gra­vità permanente) proseguendo con i Plat­ters, con Little boxes di Pete Seeger fino a Cuore matto cantato da Little Tony con la pulsazione furiosa delle battute iniziali. Non senza passare dal capolavoro dei capolavori, Il cielo in una stanza, qui ci­tato per la derivazione della sua linea me­lodica iniziale dal Te deum gregoriano (sì, ma quale? Ci sono molte interpretazioni storiche divergenti), e recentemente fatto oggetto a Siena di una illuminante lezione di Simone Marchesi a proposito del suo ipotesto leopardiano (L’infinito e le pagine dello Zibaldone sul concetto). Il capitolo seguente si ferma invece su un aspetto abitualmente trascurato dai manuali esi­stenti, quella “grana della voce” che rende una canzone di Leonard Cohen o Vasco Rossi o Jovanotti, ma soprattutto Battisti, quasi impossibile da eseguire o trasporre in cover di qualità convincente, e, come altrove su Platone o Agostino, fonda que­ste osservazioni sulla teorizzazione di Ro­land Barthes, che all’epoca, come sap­piamo, fu condivisa e sviluppata da Paul Zumthor nel paradigmatico La lettre et la voix. Se ne conclude che la stessa can­zone cantata da due voci diverse sono due canzoni diverse, come dimostra Una giornata al mare del primo Paolo Conte confrontata con quella dell’ultimo Paolo Conte e con la versione di Vandelli-Équipe 84. Gli ultimi capitoli, più brevi, sono dedi­cati rispettivamente alla introduzione di di­scontinuità connotative nella composizio­ne, nel Lied “Im Dorfe” di Schubert come nelle ballad americane (con excursus sulla struttura verse/chorus/bridge che forse avrebbe meritato più spazio nell’econo­mia del volume) e alla “politica della can­zone”, cioè al suo rapporto col pubblico che ne fa sempre una forma d’arte collet­tiva, destinata alla condivisione di massa, nella convinzione che ogni canzone sia politica, così come nelle pagine iniziali si era provocatoriamente sostenuto che ogni canzone è canzone d’amore.

Un libro, come annota Bianconi, che si aspettava da tempo e dunque colma una lacuna (o comincia a colmarla) e inaugu­ra forse un nuovo approccio, un libro da ascoltare (col dito puntato sugli audio della canzoni citate, pena una fruizione mutilata e distorta) ma anche da gustare nel suo stile ironico e leggero, capace di superare la difficoltà di spiegazioni musicali da pen­tagramma e schema metrico con chiarez­za informata ma per così dire trasparente. Nel panorama della disciplina nascente di Storia e forme della canzone, Per il verso giusto rappresenta un avvio promettente ed esemplare che ci auguriamo sarà se­guito da sviluppi adeguati alle esigenze di un fenomeno la cui influenza sulla nostra memoria, sul nostro linguaggio e sulla no­stra identità si sta dimostrando potente e duratura come nessun altro.

 

(Francesco Stella)


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