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MASSIMO GEZZI, Il numero dei vivi, Roma, Donzelli, 2015, pp. 104, € 17,00.

 

Da Il mare a destra (2004, edizioni Atelier) a L’attimo dopo (2009, Sossella) per arrivare a Il numero dei vivi (2015): i titoli delle tre raccolte di versi pubblicate da Massimo Gezzi nell’arco di un decennio possono dare, a prezzo di qualche semplificazione, un’idea dell’itinerario di scrittura e di pensiero compiuto dall’autore, con lo spostamento che vi si constata da una cornice prettamente spaziale e visuale in cui si inserisce il movimento (il mare, l’Adriatico, è sulla destra perché guardato dai finestrini del treno che a cadenze fisse, per anni, portava Gezzi via dalle Marche verso la Bologna degli studi universitari) a una cifra molto più astratta di carattere temporale, che unisce la natura puntiforme del tempo al suo incredibile, ineluttabile trascorrere fluido (per cui il pensiero di ciascun attimo che si vive non può che stare nell’attimo dopo), e infine a un’iscrizione multistrato che amalgama nel suo aroma vagamente sapienziale quantità, conteggio, ritmo, osservazione partecipe di quei personaggi generici, anonimi, effimeri, presto cancellati, che sono i vivi: nelle cui schiere l’iscrittore (per citare il Di Ruscio così amato da Gezzi) si inscrive appunto. E questo senza dare alla sua figura alcun rilievo che non sia quello di associare il proprio io a un percorso biografico che raduna e sequenzia situazioni e avvenimenti comunissimi: degli amici, una compagna, una figlia, un lavoro, un trasferimento, un addio, un colloquio, un ricordo, una paura, un’ossessione…, in una campitura testuale che ha rinunciato quasi del tutto ai nomi propri, popolata com’è da un men-che-soggetto pronominale che etichetta singolarmente e sempre nello stesso modo tutti coloro che passano e svaniscono: uno. Salta agli occhi la profonda affinità, su questo punto, con un poeta per il resto diversissimo come Gabriele Frasca (Uno è poesia tra le più importanti di Rive, e le più recenti “proesie” di Rimi sono abitate da una molteplicità non sommabile di uno), a cui Gezzi ha riservato una consistente attenzione critica (come attestato nel libro di saggi e interventi, Tra le pagine e il mondo, uscito per Italic Pequod in pratica negli stessi giorni in cui si pubblicava Il numero dei vivi). E se l’uno che occupa la posizione strutturalmente basilare dell’opera, disegnandone il traliccio e presentandosi come fulcro senziente-pensante, è ovviamente assimilabile in parte a un io poetico autoriale, questo vestigio di preminenza connaturato al genere lirico a cui Gezzi aderisce, del tutto consapevole delle sue aporie ma anche convinto che sia l’unico in cui poter sviluppare la propria voce, viene costantemente investito, contraddetto dai discorsi degli altri uno, ai quali spessissimo tocca il turno di parola.

Spazio, tempo e numero (come quantità, ordine e ritmo) non si avvicendano però né si combinano linearmente nella traiettoria poetica di Gezzi, perché già nel libro d’esordio la felicità lirica del vedere e del ri-dire, protetto da una piccola cerchia di amici e sodali, lo spettacolo del mondo e il senso dei luoghi si incrina e lascia filtrare il silenzio che attende ogni voce, il buio da cui origina e a cui ritornerà ogni apparizione; e la successione perfettamente logica e insensata del tempo, nell’Attimo dopo (l’«ora irrevocabile», per riprendere un esergo di quel libro, tratto da Virginia Woolf), si rivela modificata, deviata e resa tortuosa, forse solo fantasticamente, dall’operato della coscienza e della memoria, i cui spettri ostinatamente persistono: e così un libro tanto ossessionato dal tempo si ritrova a tracciare uno spazio mentale la cui tenuta è affidata al contrasto tra gli avverbi di tempo fondamentali, prima e dopo, e la loro dislocazione nell’ordine dell’opera, che inverte i rapporti logici e suggerisce una sorta di tesa atemporalità (la raccolta comincia con un «poi» e termina con un «prima»). Dal primo al secondo libro, inoltre, si vede espandersi e precisarsi uno dei temi tanto oggettivi quanto psichici più radicati in Gezzi (che può così associare una figura per lui pressoché “naturale” alla lunga storia che le è toccata nel corso del pensiero occidentale), quello della stanza, intesa come molecola strutturata di spazio co-abitato, discendente il corso del tempo che molte volte la svuoterà e la popolerà di nuovi inquilini, oppure la sgretolerà.

Credo che questa premessa, per quanto generica, sia utile a mettere in prospettiva Il numero dei vivi, libro che da una parte conferma e approfondisce i risultati dell’Attimo dopo – e i suoi procedimenti: all’incalzante «e poi? e poi?» del testo d’avvio fa riscontro, all’altro capo, una serie di «prima» e un «per sempre»; e abbondano esempi di traiettorie paracircolari –  e dall’altra, se non mi sono sbagliato, riporta la necessità di guardare a un’immediatezza, un’intensità che rimanda la mente a quella del Mare a destra, con l’enorme differenza che ora lo sguardo è insieme, e ‘naturalmente’, fisico e metafisico, e contempla simultaneamente il fenomeno presente, il suo prossimo svanire, il suo essere già stato infinite volte, la necessità che lo porterà a tornare, l’infinita estraneità di tutto questo a qualunque progetto umano di senso. Al cuore del Numero dei vivi mi pare stia questa raggelante, annichilente visione – e dico proprio visione per la simultaneità razionalmente inassimilabile e non analizzabile, in cui tutte le scale di tempo, e tutte le azioni di una vita umana, le infami e le giuste, si manifestano. E di fronte alla quale il linguaggio non può che mostrare il proprio limite; gli indici di questa battuta d’arresto sono riscontrabili, ed è una delle novità stilistiche del libro, nelle coppie di enunciati simmetrici e contrari che costellano il dettato (ad esempio: «c’erano tutte le risposte, non ce ne sarebbero state mai»; «tutto tieni tu»/«tutto continua a cedere»; «indimeticabili»/«dimenticati»).

La mia ipotesi è che il radicalizzarsi di questa percezione assieme temporale e intemporale (una specie di fondamento esistenziale a un concetto che, con Quentin Meillassoux, potremmo chiamare necessità della contingenza), e il farsi sempre più irrefutabile del sentimento di impotenza per così dire ontologica, abbiano portato Gezzi a incardinare strutturalmente la nuova raccolta su una specie di algebra elementare, e poi a usare metaforicamente quest’algebra per fornire, a sé stesso prima di tutto, una linea di condotta, o detto altrimenti un’etica. Ma vediamo nello specifico, cominciando dallo scheletro del libro. I titoli delle quattro sezioni, se montati di seguito, forniscono la elementare matematica metaforica dell’opera: Zero, Uno, Più gli altri, Il numero dei vivi. Le poesie, a contarne solo i titoli, sono 38, come gli anni dell’autore al momento di chiudere la silloge; ma si impone un conteggio parallelo che dissesta il primo, perché molti dei componimenti sono articolati in più parti e tali parti sono spesso esplicitamente nominate e numerate proprio nei titoli; in tal modo il risultato del primo calcolo viene contestato giusto dai numeri che l’hanno prodotto. Il caso più evidente è quello della sezione Uno: ciascuna delle dieci poesie che la compongono reca nel titolo il suo numero ordinale all’interno della serie, il quale però dice anche la cardinalità del testo che sormonta, ossia le parti in cui quel testo è diviso: Un congedo, primo della lista, è testo monoblocco, Due abbracci, secondo, è bipartito, e così via (si noti anche come la fine e l’addio siano posti in apertura, secondo la strategia di inversioni temporali già sinteticamente descritta). In tal modo la sezione ‘copre’ i primi dieci numeri interi positivi (dieci poesie), e nello stesso tempo si può considerare materiata di cinquantacinque individui (la somma delle parti di ciascuna poesia, e/o dei primi dieci numeri interi positivi); non credo di indulgere in frivolezze cabbalistiche notando che cinquantacinque si può anche interpretare, in  maniera studiatamente naïf, come giustapposizione di due cinque, la cui somma è dieci, composto di uno e di zero; e osservando ancora come questo uno-zero si possa legare facilmente allo zero-uno della sezione precedente (intitolata appunto Zero, e comprendente un’unica poesia). È proprio Zero a spiegarci il motivo dell’importanza basilare dello zero e dell’uno all’interno del libro, e a dare la regola accorata che trasferisce un’etica in figure matematiche. Cito la sesta e ultima strofe (mantenendo il corsivo usato per tutto il testo): «Difendi questa luce, se sei un nulla / come tutti. Difendi questo nulla / che non smette di essere. Smetti tu di tirare / righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta./ Impara un’altra volta a far di conto: / non sottrarre allo zero, aggiungi uno». Zero e uno come nulla e qualcosa, dunque, e chi parla è, come tutti, l’uno e l’altro: nulla (di rilevante) sulla scala della lunga durata, o addirittura nel processo dell’ominazione, nulla nella coscienza della maggior parte dei suoi cospecifici, ma uno, individuato, irripetibile e preso in una vicenda irripetibile benché fragilissima, per sé e le persone le cui menti e i cui corpi ha la ventura di incrociare, lasciandovi un’impronta grande o pressoché impercettibile.

Sta dunque all’uno che prende la parola la scelta tra il considerare gli altri come zero da cui sottrarre (magari in una delle tante versioni del cinismo odierno, dal più brutale al più raffinato), o come insiemi di uno a cui aggiungere la propria parola, la propria testimonianza, nella consapevolezza terribile che stanno, che stiamo passando, che non lasceremo traccia se non  nella mente di qualcuno che ci sopravviverà. Occorre accettare, sembra dire Gezzi, il numerus, la cadenza sempre uguale ma sempre misteriosa secondo la quale  gli esseri viventi entrano nel cerchio dell’apparire e poi ne escono; e accompagnare questa cadenza, percepita con dolorosa stupefazione, con un’altra musica che la renda più udibile. Credo sia questo uno dei motivi principali per cui Gezzi è tanto interessato agli esperimenti di incrocio tra musica e poesia (ricordiamo le incisioni con il jazzista Roberto Zecchini), e soprattutto per cui la canzone è una presenza così importante nei suoi versi. La canzone o per meglio dire l’atto di cantare o ricantarsi o recitare un brano, un carmen, atto che la tradizione filosofica, da Agostino a Husserl a Stiegler, ha studiato come processo che rende intelligibile l’apprensione dello scorrere tempo da parte della coscienza e del suo presente. Il finale di Un congedo lo dice molto bene, e offre probabilmente anche una formula condensata del senso (uno dei sensi, ma uno dei principali) della poesia per Gezzi; nel colloquio con un amico che non si rivedrà più, l’io a cui l’interlocutore ha rivolto un monito, e che ora se ne sta silenzioso, incapace di rispondere, lo ascolta, mentre in un momento l’ultima luce del giorno scompare: «lui / picchiettando due dita al ritmo contro i vetri, / diede un colpo di tosse e intonò Yesterday, / poi smise». Ogni canzone finisce, ogni cantore a un certo punto tace definitivamente. Si tratta allora di riprendere a picchiettare, di ricominciare a cantare.

                                                                                                        (Federico Francucci)
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