« indietro LIDIA RIVIELLO, Neon 80, con una Nota di Edoardo Sanguineti, Civitella in Val di Chiana (Arezzo), Zona 2008, pp. 51, € 10,00.
Se Ulisse, per convincere i compagni a varcare le colonne d’Ercole, si servì nella sua «orazion picciola» di uno strumento irresistibilmente persuasivo e aperto – «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» –, Lidia Riviello nel suo poemetto sugli anni ’80 illuminati dalla fredda fluorescenza del neon usa formule di potente disillusione, formule che inchiodano a un’ironia non rancorosa ma certo asprigna: «Fatti fummo per essere al neon assuefatti / occhio per occhio, digitale celeste, anno del Dragone / fatti fummo per essere consumati. / Eravamo i cigni del decennio Ottanta e fatti fummo di fumo / per vivere di pillole e di gas». I verbi al passato remoto chiudono in modo irrevocabile, stagno; la prima persona plurale abbatte qualsiasi tentazione didascalica chiamando in causa l’autrice. C’è (auto)biografia tra i materiali di Neon 80, e c’è politica, ben mescolate e guardate con distanza, prive di ogni mitizzazione eroica positiva o negativa. Anche il disincanto, per Lidia Riviello, è una presa d’atto. La luce è livida – il «giallo» qui è straordinariamente freddo e sinistro in tutta la sua potenziale polisemia –, il panorama è malcerto, sghembo e incompleto. Del resto la memoria non è onnicomprensiva: vaglia, si muove fra traumi profondi e ricordi lievi, casuali. L’incompletezza di quegli anni deludenti – non si levò neppure un canto del cigno, ma solo una «verità strillo d’anatra» – si fa scelta di poetica: l’opera è composta di «materiali sparsi, volutamente accennati e provvisori. Accennati e provvisori come sono stati gli anni Ottanta, nei quali, io bambina e adolescente, mi iniziavo come potevo e soprattutto mi ‘cominciavo’ a scrivere», si legge in una postilla dell’autrice. La provvisorietà è costitutiva, analoga al consumo artificiale della «società perfetta» che nel «tutt’intero», meravigliosamente tondo «Anno Ottanta», vide l’elettronica scuoterci «l’anima», il canto stonare e i metalmeccanici estinguersi «come antilopi». La perdita, allora, in una trasparenza di plexiglas e in una «non-luce» al neon, è quella della partecipazione, a sé (al proprio «Corpo») e alla rivoluzione, quella del «declino del senso», di un «amore / mai consumato e perduto / durante le contrattazioni e le spartizioni dei territori», dei miti nati già catacretici: «angie», dall’omonima canzone dei Rolling Stones, discese dal ’73 agli ’80 come nome per la «donna tutta nuova». Qui i luoghi comuni strisciano, non stridono, e l’effetto è più subdolo: il montaggio – per alludere a una tecnica tanto cara a Sanguineti che qui firma una nota al testo – è sapiente e mobile, e il tono, ad arte e in apparenza, leggero. Si fa il verso a canzoncine dello Zecchino d’Oro – «i leoni dal mio spirito fuggirono / in fila per tre con il resto di me» –; si spiazzano formule evangeliche – «amore neon, / la stessa infanzia passò / attraverso la cruna dell’ago» –; e si ironizza – «Fatte fummo [...] anche di un tram chiamato desiderio / e dell’uomo nero e dell’interno a fiori» – sui cascami di una cultura collettiva tanto ammiccante quanto trita. Ci sono le feste equinoziali che inaugurano i nuovi centri commerciali, il «fango del reality» e il «raggio verde», tutto per fare il lutto a una frustrazione generazionale, a un anno volato via «punk e irrisolto / come infanzia di marmo o di alghe». E se qualcosa venisse meno alla nostra memoria, in calce al volume c’è un breve regesto annalistico da intendersi parte integrante del testo, per farci ben chiaro che il buco nell’ozono, il sostegno di Craxi al ‘decreto Berlusconi’, le stragi, il maxiprocesso di Palermo, la morte di Calvi e il delitto Sindona non hanno fatto degli anni ’80 neanche l’inferno di fuoco del fraudolento Ulisse, ma solo un pallido e contingente «edeneon, una terra fatta per noi, / una romantica cena col vampiro».
(Cecilia Bello Minciacchi)
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