« indietro ROSARIA LO RUSSO
Crolli (Controlli) è una serie poetica in fieri in cui non tanto la voce quanto la riflessione è al centro della ricerca nella scrittura. Dedicata all’attualità della cronaca – la nascita della serie riguarda la guerra in Iraq – questa scrittura si sta espandendo ad altri fenomeni, ma sempre attinenti ai realia, alla vita quotidiana, alla vecchiaia, alle paure della gente. [R.L.R.]
Così ci rubano – rimetta – l’antica lingua disseminando babilonie come scrollassero di dosso torri babelliche che confuse sparigliano idiomi suppellettili in snervanti soprammobili da spolvero. Così spossando un arduo deserto fecondo scendono a bomba a bomba nell’arena assolta, disanimati gladiatori ebbri d’attrezzi. Arrugginisce la tenaglia del tenace delta, che si biforca ruggendo ai nostri barbari. Così gli invasi emulano all’armi chi, inimicandosi, scompiglia supplici incartamenti d’orecchie con spocchie fluorescenti al fosforo. E non sappiamo chi intimamente ci scommetta.
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A Luigi Nacci, sodale
Dicevo insomma riga dritto il fronte compatto dei dementi niente di nuovo alletta il fronte occidentale: le fronti coperte di pelle in polvere corrugano, diserbando, staccando arbusti, e vane colluttazioni, a cedimenti di guance smunte, gli ultravioletti di guerra corruschi annunciano signorine mezzobusto, con povere alla polvere ceneri nonviolente di dispersi, pinchi pallini bifidi tra infidi batteri, tu spàrati un paradiso artificiale e restaci se hai il coraggio di circondarti di veline scure, irsute e insistenti scassa- arpe metriche e petecchie, dardi codardi, avanzi pimpanti di guantanamera, bandiera rossa, faccetta nera.
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Clangore d’ossa sinistre in riassetto, pettoruto languore allo stomaco, lividi ai polsi slogati a furia di batoste, parole come scudo e come baionette pungono dal maxingorgo biliare. Smaltendo rifiuti vocifera la parte che non trema, come fosse d’un’altra che magari fosse in guerra! Alle urne! Magari l’io scavasse le fosse a(h)i-me senz’urne. Lima sorda le ossa della mano, scheggiate le ulne intabarrate nella siesta, ulne e radio si rinforzano in palestra cercando d’impossessarsi inconfutabilmente della femminea potenza di cui d’ogne parte si dice. Alla radio mi si addice il riconcepimento di me, questa festa-disinfestazione, ma è pur sempre un fenomeno di riciclaggio che ha bisogno dello sporco. Guardo aggrupparsi sul divano il piccolo oggetto del suo amore puro che spurga continuamente da ogni orifizio sete di successo, brama di possesso.
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(al largo di Lampedusa) Vomitavano acqua di mare i miei bambini tombini ma poi a bordo non volevano morti così ho buttato i miei bambini morti nel mare. Il nostro gommone saltava come una palla sul mare: basta sbarchi maroni. Anch’io vorrei essere felice come mio cugino. Allora è arrivata la Pinar di Capitan Asik. Ho visto dio dio c’è vieni qua dio, Asik il turco che salva i nigeriani rischiando di perdere il posto, Signore degli Altri che non ci lasciano entrare.
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Per N.
Ti respiro dalla nuca, lì dove, all’attaccatura dei capelli, serpeggia il tuo odore e penso che dall’altra parte, nel tuo di fronte vuoto, le rughe crettano il pallore verde in cui affonda il tuo sguardo che scivola profondamente nel viola delle occhiaie. Scivola lentamente anche il cuore, sciogliendosi come gesso fra dita sudate, mentre stremato chini il capo per favorire il mio annusare.
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Soffro con te la gioia della solitudine mentre osservo un fenomeno ormai più unico che raro: un moscondoro verde brillantissimo scivolare, goffo ma sontuosamente, fra i petali folti grassi e umidi di una bianca rosata rosa, detta mi pare luce o pelle di luna. Pelle polposa di luce di luna, corazza serica rabbrividita di brina, moscondoro la lince la lancia nostra brama di solitudine linciata.
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L’amore odiato non è bello è un tipo, un tipo tosto, inquartato, non direi bello, una folla di denti di varia angolatura, spigoli dove sbatto come ciglia o piuma, ed una cicatrice che si stira come una gattina sul labbro inferiore, se sorride, e se un sorriso divarica la bocca coprendosi con mano tremula di pudore. Ma non ha pudore né amore melodioso quando desiste dall’aggrottarsi e si dimette ad- dormentandosi o quando, mentre si rade, manda acidi odori selvatici di maschio enunciando un ritardo, il solito ritardo di madre, un ritardo che fa madre, una madre implacabile che tardiva lo spia dall’angolo agonico del suo specchio grandangolare. Che faccia anche gola lo so quella faccia di schiuma.
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Chi ebbe dio per amante ebbe a patire ben più lievi affanni; accorati affanni in battere, accordati accenti in levare, ché la potenza orgasmica, rarefatta, s’intensifica, accappona la pelle, ovatta le orecchie. I tappi di cera per dimenticare l’accaduto incauto, l’aspirinetta tra gli incisivi macchiati, l’angustia della stanza calda, il fumo provoca rischi di infarto al miocardio, danno luogo a un’incisiva logica denegatrice, abluzioni, abnegazioni, oboli, obitori.
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Accolgo in veglia notturna i miei convitati di pietra, pietrificata. Si siedono a mensa intorno al mio cuore e lo tribalmente pasteggiano a turno, acconsento, e voraci, i miei amorazzi più cari e sodali. Festeggiano in rigoroso silenzio l’ergastolo che tutta tuteli l’innocenza in battere e in levare, attutito rimorso, la pena che ancora mi resta da scontare. Il supporto cordiale mi sembra che assesti un duro colpo distabile alla colpa, per contrattura, facendo il ponte, perineale, e lavori di pompa ai lavori forzisti di un perenne sorriso mascellare. Dai capezzoli appuntiti volatilizza una soddisfazione che disavvezza ma lo stimolo al biasimo anale persevera, sfiatando, a fisarmonica. Allora, vezzosa fra i severi, spariglio ai sordidi gessati due occhioni grandi da morir dal ridere, e come sempre sommergibile il mio cuore in un grasso grosso isolamento aggrego. Festiva notte conviviale che palpeggi incoronando l’aria, ammutolisci lo sbadiglio appesantito dalla cena che scoraggia e distoglimi lo sguardo altrove dalla codàrdia.
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