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ROSARIA LO RUSSO

 

 

Crolli (Controlli) è una serie poetica in fieri in cui non tanto la voce quanto la riflessione è al centro della ricerca nella scrittura. Dedicata all’attualità della cronaca – la nascita della serie riguarda la guerra in Iraq – questa scrittura si sta espandendo ad altri fenomeni, ma sempre attinenti ai realia, alla vita quotidiana, alla vecchiaia, alle paure della gente. [R.L.R.]

 

 

Così ci rubano – rimetta – l’antica lingua

disseminando babilonie come scrollassero di dosso

torri babelliche che confuse sparigliano

idiomi suppellettili in snervanti soprammobili da spolvero.

Così spossando un arduo deserto fecondo

scendono a bomba a bomba nell’arena assolta,

disanimati gladiatori ebbri d’attrezzi.

Arrugginisce la tenaglia del tenace delta,

che si biforca ruggendo ai nostri barbari.

Così gli invasi emulano all’armi

chi, inimicandosi, scompiglia supplici incartamenti

d’orecchie con spocchie fluorescenti al fosforo.

E non sappiamo chi intimamente ci scommetta.

 

 

                                      *

 

 

                                                       A Luigi Nacci, sodale

 

Dicevo insomma riga dritto il fronte compatto dei dementi

niente di nuovo alletta il fronte occidentale:

le fronti coperte di pelle in polvere corrugano,

diserbando, staccando arbusti, e vane colluttazioni,

a cedimenti di guance smunte, gli ultravioletti

di guerra corruschi annunciano signorine mezzobusto,

con povere alla polvere ceneri nonviolente di dispersi,

pinchi pallini bifidi tra infidi batteri, tu spàrati un

paradiso artificiale e restaci se hai il coraggio

di circondarti di veline scure, irsute e insistenti scassa-

arpe metriche e petecchie, dardi codardi, avanzi pimpanti

di guantanamera, bandiera rossa, faccetta nera.

 

 

                                       *

 

 

Clangore d’ossa sinistre in riassetto, pettoruto

languore allo stomaco, lividi ai polsi slogati

a furia di batoste, parole come scudo e come baionette

pungono dal maxingorgo biliare. Smaltendo rifiuti

vocifera la parte che non trema, come fosse d’un’altra

che magari fosse in guerra! Alle urne! Magari l’io scavasse

le fosse a(h)i-me senz’urne. Lima sorda le ossa della mano,

scheggiate le ulne intabarrate nella siesta, ulne e radio

si rinforzano in palestra cercando d’impossessarsi

inconfutabilmente della femminea potenza di cui d’ogne

parte si dice. Alla radio mi si addice il riconcepimento

di me, questa festa-disinfestazione, ma è pur

sempre un fenomeno di riciclaggio che ha bisogno

dello sporco. Guardo aggrupparsi sul divano il piccolo

oggetto del suo amore puro che spurga continuamente

da ogni orifizio sete di successo, brama di possesso.

 

 

                                       *

 

(al largo di Lampedusa)

Vomitavano acqua di mare i miei bambini tombini

ma poi a bordo non volevano morti così ho buttato

i miei bambini morti nel mare. Il nostro gommone saltava

come una palla sul mare: basta sbarchi maroni.

Anch’io vorrei essere felice come mio cugino.

Allora è arrivata la Pinar di Capitan Asik.

Ho visto dio dio c’è vieni qua dio, Asik il turco

che salva i nigeriani rischiando di perdere il posto,

Signore degli Altri che non ci lasciano entrare.

 

 

 

                                      *

 

 

                                                                     Per N.

 

Ti respiro dalla nuca, lì dove, all’attaccatura

dei capelli, serpeggia il tuo odore e penso

che dall’altra parte, nel tuo di fronte vuoto,

le rughe crettano il pallore verde in cui

affonda il tuo sguardo che scivola

profondamente nel viola delle occhiaie.

Scivola lentamente anche il cuore,

sciogliendosi come gesso fra dita sudate,

mentre stremato chini il capo

per favorire il mio annusare.

 

 

                                      *

 

 

Soffro con te la gioia della solitudine

mentre osservo un fenomeno ormai

più unico che raro: un moscondoro

verde brillantissimo scivolare,

goffo ma sontuosamente, fra i petali folti

grassi e umidi di una bianca rosata rosa,

detta mi pare luce o pelle di luna.

Pelle polposa di luce di luna,

corazza serica rabbrividita di brina,

moscondoro la lince la lancia

nostra brama di solitudine linciata.

 

 

                                     *

 

 

L’amore odiato non è bello è un tipo, un tipo

tosto, inquartato, non direi bello, una folla

di denti di varia angolatura, spigoli dove

sbatto come ciglia o piuma, ed una cicatrice che si stira

come una gattina sul labbro inferiore, se sorride,

e se un sorriso divarica la bocca coprendosi con mano

tremula di pudore. Ma non ha pudore né amore melodioso

quando desiste dall’aggrottarsi e si dimette ad-

dormentandosi o quando, mentre si rade, manda acidi

odori selvatici di maschio enunciando un ritardo,

il solito ritardo di madre, un ritardo che fa madre,

una madre implacabile che tardiva lo spia

dall’angolo agonico del suo specchio grandangolare.

Che faccia anche gola lo so quella faccia di schiuma.

 

 

                                      *

 

 

Chi ebbe dio per amante ebbe

a patire ben più lievi affanni; accorati

affanni in battere, accordati accenti

in levare, ché la potenza orgasmica, rarefatta,

s’intensifica, accappona la pelle, ovatta

le orecchie. I tappi di cera per dimenticare

l’accaduto incauto, l’aspirinetta tra gli incisivi

macchiati, l’angustia della stanza calda,

il fumo provoca rischi di infarto al miocardio,

danno luogo a un’incisiva logica denegatrice,

abluzioni, abnegazioni, oboli, obitori.

 

 

                                  *

 

 

Accolgo in veglia notturna i miei convitati di pietra, pietrificata.

Si siedono a mensa intorno al mio cuore e lo tribalmente pasteggiano

a turno, acconsento, e voraci, i miei amorazzi più cari e sodali. Festeggiano

in rigoroso silenzio l’ergastolo che tutta tuteli l’innocenza in battere

e in levare, attutito rimorso, la pena che ancora mi resta da scontare.

Il supporto cordiale mi sembra che assesti un duro colpo distabile

alla colpa, per contrattura, facendo il ponte, perineale, e lavori

di pompa ai lavori forzisti di un perenne sorriso mascellare.

Dai capezzoli appuntiti volatilizza una soddisfazione che disavvezza

ma lo stimolo al biasimo anale persevera, sfiatando, a fisarmonica.

Allora, vezzosa fra i severi, spariglio ai sordidi gessati due occhioni

grandi da morir dal ridere, e come sempre sommergibile il mio cuore

in un grasso grosso isolamento aggrego. Festiva notte conviviale

che palpeggi incoronando l’aria, ammutolisci lo sbadiglio appesantito

dalla cena che scoraggia e distoglimi lo sguardo altrove dalla codàrdia.

 


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