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GIOVANNA MARMO, Oltre i titoli di coda, Torino, Nino Aragno, 2015, pp. 85, € 8,00

La notevole leggibilità del libro di Giovanna
 Marmo, dal punto di vista tecnico, è il prodotto di uno studio a più dimensioni, e una soluzione nel suo genere apprezzabile (come vedremo): in asse con l’avvicinamento della lingua letteraria al parlato ma esattamente opposta rispetto all’appiattimento di un fenomeno come la semplificazione, e l’omologazione verso il basso, della scrittura (vedi ora su questo aspetto il questionario Che lingua fa? rivolto ad alcuni storici della lingua italiana in «Nuovi Argomenti», 73, 2016). Dovendo collocare la poesia di Giovanna Marmo occorre farlo sottolineando che essa nasce come scrittura autre alla fonte, nell’alveo di un’originale ricerca performativa, decollata con i primi anni Zero (la prima significativa tappa editoriale è la raccoltina del 2006 con la D’if, Fata morta). Questa ricerca si era orientata sugli incroci tra un uso in apparenza semplificato del linguaggio (ad esempio l’alleggerimento sintattico), la presenza del corpo (di cui la voce non è che un’immediata estensione), e l’intonazione ‘ascoltata’ della performance. Ai fini pratici del nostro discorso quest’ultimo punto dobbiamoconsiderarlo risolutivo. Era un’intonazione fiabesca soprattutto – buffa (come si racconta ai più piccoli una fiaba, salvo che lì, con le prime poesie, si trattava di un mondo rovesciato) ma calda, erotizzata: una scossa all’intelaiatura fonologica dell’intonazione. Fino a essere al limite sostituzione del senso col senso del suono. Così, avendo nell’orecchio quel modello fonico abbiamo letto nello stesso modo anche Occhio da cui tutto ride (No Reply, 2009)e La testa capovolta (D’if, 2012). Proviamo a dare ora della ricerca di Giovanna Marmo una lettura aggiornata, con uno sguardo sulle strutture del nuovo libro. Un dato che colpisce subito è la semplice tripartizione della raccolta, che fa pensare a una costruzione, rispetto alle raccolte precedenti, più aderente a modelli tradizionali, viene in mente soprattutto la costruzione organica del trittico, che presenta due ante laterali in funzione di un pannello centrale (Al di la delle palpebre, Scomparendo dallo schermoCase riflesse). Ma l’impressione, guardando meglio, è che non ci sia alcuna vera articolazione, semplicemente blocchi poggiati l’uno sull’altro: una costruzione ‘sbagliata’. Dietro un simile effetto di sbarramento scorgiamo il lavoro dell’autrice con l’ostacolo inaggirabile di riunire insiemi di testi differenti. Osserviamo in questo senso la presenza del vocabolo ‘casa’ che circola in alcune zone del libro, considerando innanzitutto i rapporti sull’asse sintagmatico: le relazioni tra testi contigui. A chiudere la raccolta è la sezione intitolata Case riflesse, che comprende un gruppo compatto di poesie, intitolate anche queste alla prospettiva strisciante della scena domestica quotidiana: Casa senza vita, Casa in prestitoCasa ombraLa casa riflessa ecc. Bersaglio di tutte queste connessioni è in realtà un testo ‘nascosto’, intitolato appunto Casa che non si vede, nella sezione centrale della raccolta, che presenta nell’insieme alcune novità, come vedremo anche sul piano dei contenuti. Ma è in sostanza un uso del connettorevocabolo puramente formale, appunto per effetto della ripresa lessicale continua. Si può anche pensare, senza forzare troppo il quadro, che tutto ciò che resta del lavoro portato avanti contro le tradizioni del trittico, sia la riduzione a vuoto di un modello; non lo scarto dalla norma, ma una forma abitata dal vuoto. I testi della prima sezione della raccolta, ora perfezionati, erano già stati pubblicati in un libro collettivo di traduzioni del De rerum natura (La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, 2011), anche lì con il titolo eccellente di Al di la delle palpebre. Ora, è notevole che i riferimenti al poema lucreziano siano scomparsi, e che il lettore non venga in alcun modo informato che si tratta deipassaggi smontati di una traduzione (libro IV del De rerum natura, vv. 26-53, 110- 142, 302-310, 379-419, 432-468). Si vede, in altre parole, solo la punta dell’iceberg. È inoltre presente un testo inedito esattamente nel centro della sezione (nascosto anche questo: più che una riscrittura è un rovesciamento, probabilmente si tratta ancora del confronto con la teoria dei simulacra esposta nel libro IV del poema). Oggetto del ‘dialogo’ con Lucrezio è un modo di essere vissuto del corpo, una contemplazione fenomenologica, che non ha nulla a che fare con l’idea del corpo che ci formiamo per riflessione attraverso la distinzione del soggetto e dell’oggetto. Il titolo del frammentoscompaginato è Buio. «Lecco-tocco, sono un corpo / quadrato nel buio. // Una formica morta, un dito ferito. Anche il vento. // Luce: il mio corpo è l’immagine / del corpo quadrato nel buio?». Un confronto con l’originale rimetterà in asse la 131 Poesia italiana a cura di Pietro Deandrea, Gregory Dowling, Antonella Francini, Francesco Stella,Fabio Zinelli LIV 01/2016 nostra prospettiva. Consideriamo la traduzione fedele del De rerum natura firmata da Luca Canali (Rizzoli, 1990); e prendiamo i vv. 230-236 del libro IV – è il passaggio su cui probabilmente ha lavorato l’autrice. «[...] poiché una certa forma toccata al buio / risulta identica a quella che si vede alla luce / [...], è necessario che da tale causa / siano ugualmente stimolati la vista e il tatto. / [...] dunque se tocchiamo un quadrato, ed esso nell’oscurità / impressiona i nostri sensi, che cosa potrà mostrarsi quadrato / al nostro sguardo, se non la sua stessa immagine? ». Lo scopo di questo passaggio consiste nella spiegazione dell’identità immediata tra forma tastata al buio e forma contemplata alla luce, dove vista e tatto sono stimolati dalla medesima causa (il corpo quadrato). Nella riscrittura di Giovanna Marmo la lettera dell’originale risulta rovesciata – non è l’unico caso di Al di la delle palpebre, ma qui lo straniamento è marcato –, completamente violati i vv. 234-236, che costituiscono il cuore dell’argomentazione. Bene. È possibile che l’autrice abbia lavorato alla sua traduzione in modo obliquo: smontando e rimontando a proprio gusto alcune immagini acustiche. Inoltre, declinando il discorso poetico in prima persona («Lecco- tocco, sono un corpo / quadrato nel buio») il testo di Buio rilancia un discorso drammatico sul corpo, adottando di fatto un punto di vista ulteriore, con il focus sulla percezione dei rapporti tra il visibile el’invisibile – l’uno dietro l’altro – che abitano il proprio corpo. Un dubbio sottile prende il posto della domanda retorica lucreziana: «il mio corpo è l’immagine / del corpo quadrato nel buio?». Riprendiamo ora il discorso sul libro di Giovanna Marmo osservando i rapporti sull’asse sintagmatico. Consideriamo la riduzione dell’io – o, detto in termini freudiani, il meccanismo di proiezione di un contenuto ideativo soggettivo – inscenata col testo che segue a BuioLa mano 1: «Quando la mano schiaccia / l’occhio da sotto // tutte le cose mi guardano. / Due volte».Confrontiamo ancora con la traduzione di Canali: «Se per caso una mano poggiata al di sotto di un occhio lo preme, / per una certa strana sensazione accade che tutto ciò che vediamo / sembra quasi duplicarsi davanti allo sguardo [...]» (vv. 446-449). Abbiamo in questo caso una prospettiva capovolta, con un punto di vista altro incrociato a quello della ‘prima persona’: è l’istaurasi di un avvolgente meccanismo di proiezione. Un aspetto, questo, perfinotematizzato: con l’allegoria totale del cinema a cui è dedicata in buona parte la sezione centrale di Oltre i titoli di coda. Ecco adesso ammassati di seguito alcuni passaggi salienti di Scomparendo dallo schermo. «Dormo in un film dal montaggio / sempre uguale, con paesaggi di taglio / e scorci in cui non compaiono persone ». «La confusione aumenta sulla pellicola. // E non sono più sicura che questa voce / sia la mia [...]». «Il film della sua vita la segue / [...] / Ha un nome di copertura, / ha scelto di vedersi / come se fosse un’altra. Quando si specchia / nell’obiettivo il volto riflesso è una città / assente nel ricordo». È come se i versi si fossero ora allungati per registrare sulla pagina l’intonazione ascoltata di una voce fuori campo. Per concludere, e su un piano più generale, la migliore poesia italiana di oggi sembra proiettarsi, con i suoi modelli stratificati, su un comune terreno linguistico, in una fase di assestamento, che si direbbe al buio, verso forme orientate sempre di più sull’oralità. Questa è la direzioneincrociata da Giovanna Marmo. Per inquadrare il libro, come abbiamo visto, resta fondamentale il lavoro con cui la nostra autrice ha cominciato.

(Daniele Claudi)


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