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Voci della lirica bizantina

di Gianfranco Agosti


Includere la poesia bizantina in una tavola rotonda dedicata alla traduzione della lirica medievale non era cosa affatto scontata, e non tanto perché oggi nessuno sottoscriverebbe più i recisi giudizi dei classicisti, come quelli di Giorgio Pasquali sulla mancanza di originalità della letteratura bizantina (parole che hanno avuto tanto peso in Italia)1 o di Romilly Jenkins («una letteratura in cui non c’è nulla che si possa leggere per il puro piacere letterario»)2, visto che gli studi sulla letteratura, e in particolare sulla poesia, a Bisanzio sono in una fase di grande crescita. Ma la conoscenza presso un più ampio pubblico di questo enorme patrimonio letterario è ancora scarsa, e ‘bizantino’ rimane sinonimo di artificioso, se non di infidamente complicato.

Certo, l’alterità delle categorie estetiche dei bizantini non facilita un approccio diretto au plaisir du texte. E proprio nell’idea di lirica la distanza si avverte maggiormente: quella che per noi è quasi scontata3, la visione della lirica come espressione del soggettivo, del mondo interno dell’animo che riflette e si arresta presso di sé (das Sichaussprechen), esprimendosi in una poesia intimistica, è fondamentalmente estranea al mondo bizantino. Per l’estetica classica4, che a Bisanzio i teorici continuano a esperire, è piuttosto il modo della narrazione a essere determinante5 al pari degli oggetti di imitazione e del modo di imitare (ciò che dà luogo alla distinzione fra opere narrative, drammatiche e miste, secondo quanto dice Aristotele). A ciò si aggiunge l’importanza data alla mimesi della realtà, che rende difficile capire chi sia l’io che parla, la persona loquens che non necessariamente coincide con l’autore.

Al pari della poesia classica (si pensi ai lirici greci arcaici) occorre sempre guardarsi dalla facile identificazione fra poesia e autore, anche quando il poeta sembra parlare con accenti personali – specie in assenza di dati biografici sicuri. Ad esempio, i carmi del XII secolo che vanno sotto il nome di Ptochoprodromica (cioè poesie del Prodromo pitocco) sono dei divertissements letterari che mettono alla berlina la società costantinopolitana e gli ambienti monastici (rappresentati come corrotti): il quarto mette in scena un poeta povero e affamato, che lamenta la propria misera condizione sociale, secondo una tradizione che in Grecia risale ad Ipponatte, e difficilmente si può pensare a una identità fra poeta e situazione descritta6. Anche nel caso di autobiografismi che appaiono sinceri il filtro delle convenzioni letterarie e ideologiche consiglia prudenza: nella seconda metà del IX secolo, uno sconosciuto poeta di carmi anacreontici, Elia sincello (segretario), descrive con accenti accorati la sua vicenda di monaco messo alla prova dalla perdita di un confratello e caduto nella tentazione carnale. Anacr. 2.45-56 Ciccolella7:

Νέον ἄθλιον κομίζω
Γενέτην παcῶν κακίcτωc,
ὃc ἀεικέων με λάτριν
πάλιν ὡc πάροc ποιεῖται.

Ξύλον ἄγριον φαάνθην
ὁ τάλαc ἄκαρπον, οἴμοι,
διὸ τὴν τομὴν φοβοῦμαι
cχεδόθεν λίαν παροῦcαν.

Ὁ τάλαc ἐγώ, τί τεύξω
κακοεργίην cχολάζων,
ὅτι με χρόνοc βαδίζων
ἅτε κλὼψ λαθὼν παρῆλθεν;​

Guido un infelice giovane, padre di passioni, per
mia grande sventura, che di nuovo come prima mi
fa schiavo d’ignominie. Ahimè infelice, mi mostrai
sterile albero selvatico, e per questo temo il taglio
che troppo vicino incombe. Me infelice che farò,
indugiando nel peccato, poiché per me il tempo
trascorse avanzando di nascosto come un ladro?

Elia prosegue deplorando la propria funesta passione per il novizio, che gli causerà la condanna eterna
di fronte al tribunale divino. Ma la fosca e disarmante
confessione termina con una preghiera al Cristo, perché eserciti la sua misericordia verso il peccatore e un
invito agli ‘uomini pii’ a condividere con Elia il lamento
(vv. 89-92):

Ἐλέῳ μόνῳ cῳζε τότε, Χριcτέ μου,
τὸν πεcόντα διά cου μέγιcτον οἶκτον.

Μερόπων εὐcεβέεc, cυμπαθὲc ἄλγοc
ἐπ᾿ ἐμοὶ Cωφρονίου δείξατε θρήνοιc.​

Per sola pietà salva allora, o mio Cristo, chi è caduto, per Tua grandissima misericordia. Uomini pii, il vostro partecipe dolore esternate per me con i lamenti di Sofronio.

Elia esorta i confratelli a partecipare al suo dolore recitando una anacreontica di lamento (θρήνοc) nello stile di quello che a Bisanzio era considerato il modello insuperato di questo genere di canto, Sofronio di Gerusalemme (vissuto fra la fine del VI e i primi decenni del VII secolo). L’autore esplicita dunque il tipo di poesia che ha composto, un carme ‘trenetico’, di lamento, uno dei sottogeneri più diffusi della poesia religiosa a Bisanzio, caratterizzato da un repertorio costante di immagini e di situazioni convenzionali (attese cioè dal pubblico). È difficile dunque distinguere quanto nel carme di Elia è riproposizione di strutture collaudate e quanto è veramente personale; la dimensione di exemplum morale che viene esplicitata nei due distici finali mostra come la poesia fosse concepita dal suo autore con una funzione didascalica, che poco a che fare col nostro concetto di lirica.

Ma questo non implica che il lettore moderno non possa apprezzare nei testi bizantini un certo tasso più o meno elevato di lirismo, secondo i canoni moderni. Si tratta solo di sapere dove cercare. A Bisanzio i generi letterari continuano ad avere una precisa fisionomia, che si rifletteva non solo sulla selezione dei modelli classici da imitare, ma anche sulla modalità di esecuzione (particolarmente importante nel caso dell’innografia, anch’essa in versi ma legata alla musica e alla performance liturgica)8. Se con ‘lirica’ intendiamo la poesia in prima persona, secondo le modalità enunciative ed imitative classiche, sarà facile trovare della lirica nella poesia religiosa di tipo innico (come gli inni di Sinesio all’inizio del V secolo, o quelli di Simeone il Nuovo Teologo nel X), nell’elegia in metri classici, nei carmi anacreontici, e persino nell’epigramma9.

Premesse tardoantiche

La poesia bizantina affonda le sue radici nella tarda antichità (III-VI sec.), periodo che vede l’elaborazione di una estetica nuova rispetto a quella classica, e di cui molti aspetti passeranno a Bisanzio (non a caso Averincev definisce il periodo come antico-bizantino). Prendiamo l’elegia: se in Occidente la tradizione romana aveva innestato in questo genere la soggettività, in Oriente è solo nel IV sec. che Gregorio di Nazianzo compie un passo decisivo, trasformando l’elegia in un carme di riflessione esistenziale, in cui la natura agisce da correlativo oggettivo dell’angoscia del poeta (carme I.II.14). È un lungo poemetto di 132 versi, per il cui inizio si è evocato Petrarca (sono i versi qui riprodotti); nella parte centrale Gregorio descrive il suo spleen, fino a quando il pensiero di Dio e della salvezza non gli ridona serenità facendogli riconoscere l’umana ὀλιγοφρενίη. Un testo difficile per un traduttore, messo a dura prova da una lingua che riplasma i modelli classici, concentrando su ogni parola un sovrasenso di significato al contempo filosofico e religioso (è l’aspetto cristiano più vitale di quello ‘stile prezioso’ che è tipico della poesia tardoantica). Gregorio è ancora per il grande pubblico italiano un poeta tutto da scoprire: a fronte di ottime edizioni scientifiche, con commenti molto accurati, ed anche di una completa traduzione in prosa10, si sente la mancanza di una antologia che lo valorizzi nelle sue potenzialità poetiche.

Gregorio di Nazianzo, Poesie 2.1.14, PG 37.755- 765, vv. 1-2611

Χθιζὸc ἐμοῖc ἀχέεccι τετρυμένοc, οἶοc ἀπ᾿ ἄλλων  
Ἥμην ἐν cκιερῷ ἄλcεϊ, θυμὸν ἔδων.  
Καὶ γάρ πωc φιλέω τόδε φάρμακον ἐν παθέεccιν,  
Αὐτὸc ἐμῷ θυμῷ προcλαλέειν ἀκέων.  
Αὖραι δ᾿ ἐψιθύριζον ἅμ᾿ ὀρνιθέεccιν ἀοιδοῖc, 5
Καλὸν ἀπ᾿ ἀκρεμόνων κῶμα χαριζόμεναι,  
Καὶ μάλα περ θυμῷ κεκαφηότι. Οἱ δ᾿ ἀπὸ δένδρων  
Cτηθομελεῖc, λιγυροὶ, ἠελίοιο φίλοι,  
Τέττιγεc λαλαγεῦντεc ὅλον κατεφώνεον ἄλcοc.  
Πὰρ δ᾿ ὕδωρ ψυχρὸν ἐγγὺc ἔκλυζε πόδαc, 10
Ἦκα ῥέον δροcεροῖο δι᾿ ἄλcεοc. Αὐτὰρ ἔγωγε  
Τὼc ἐχόμην κρατερῶc ἄλγεοc, ὡc ἐχόμην.  
Τῶν μὲν ἄρ᾿ οὐκ ἀλέγιζον, ἐπεὶ νόοc, εὖτε πυκαcθῇ  
Ἄλγεcιν, οὐκ ἐθέλει τέρψιοc ἀντιάειν.  
Αὐτὸc δὲ, cτροφάλιγξιν ἑλιccομένοιο νόοιο, 15
Τοίην ἀντιπάλων δῆριν ἔχων ἐπέων·  
Τίc γενόμην, τίc δ᾿ εἰμὶ, τί δ᾿ ἔccομαι; Οὐ cάφα οἶδα.  

Οὐδὲ μὲν ὅcτιc ἐμοῦ πλειότεροc cοφίην.
 
Ἀλλ᾿ αὐτὸc νεφέλῃ κεκαλυμμένοc ἔνθα καὶ ἔνθα,  
Πλάζομαι οὐδὲν ἔχων, οὐδ᾿ ὄναρ, ὧν ποθέω. 20
Πάντεc γὰρ χθαμαλοὶ καὶ ἀλήμονεc, οἷcι παχείηc  
Cαρκὸc ἐπικρέμαται κυανέη νεφέλη.  
Κεῖνοc δ᾿ ἐcτὶν ἐμεῖο cοφώτεροc, ὃc πλέον ἄλλων  
Ἤπαφεν ἧc κραδίηc ψεῦδοc ἑτοιμολόγον.  
Εἰμί. Φράζε τί τοῦτο; Τὸ μὲν παρέθρεξεν ἐμεῖο· 25
Ἄλλο δὲ νῦν τελέθω, ἄλλ᾿ ἔcομ᾿, εἴ γ᾿ ἔcομαι.  

Ieri, oppresso dalle mie pene, solo in disparte dagli altri  
me ne stavo in un bosco ombroso, rodendomi il cuore;  
poiché amo questo rimedio negli affanni:  
tacito, parlare solo col mio cuore.  
Le aure sussurravano insieme con i canori uccelli, 5
donando dai rami un dolce torpore  
anche al cuore molto afflitto; e dagli alberi,  
le cicale dal petto canoro, armoniose, amiche del sole  
facevano risuonare di canti tutto il bosco.  
Accanto, fresca acqua sfiorava i piedi, 10
lene fluendo pel rorido bosco. Ma io  
così rimanevo, in preda a violento dolore, com’ero.  
Non mi curavo di quelle cose, poiché l’animo,  
quando sia ingombro  
di affanni, non ama accogliere godimento;  
ma solitario, la mente sconvolta da un turbine, 15
tale contesa avevo di opposte parole:  
chi fui, chi sono, che cosa sarò? Non so bene;  
e nemmeno chi sia superiore a me in sapienza.  
Ma avvolto di nebbia qua e là,  
vado errando, senza avere nulla, nemmeno in sogno, di ciò che bramo.  
Tutti noi invero siamo abietti ed erranti, sui quali 20
è sospesa fosca nube di pesante carne;  
ma di me è più sapiente chi più degli altri  
inganna la menzogna loquace del suo cuore.  
Io sono. Spiega, che cosa vuol dire questo?  
Qualcosa di me passò via: 25
Io sono. Spiega, che cosa vuol dire questo?  
altra cosa sono ora, altra sarò, se pure sarò.  

Il carme di Gregorio non è isolato: nell’età di Giustiniano l’epigrammista Agazia (Anthologia Palatina 5.292 = epigr. 5 Viansino) durante un suo viaggio lontano da Costantinopoli ha inviato all’amico Paolo Silenziario un biglietto poetico per esprimere in toni assai simili la nostalgia per gli affetti amicali e amorosi, proiettandola sullo sfondo di un paesaggio idealizzato (che ammicca alle ambientazioni teocritee)12.

Ma il lettore può imbattersi in passi che volentieri ascriverà a un soffuso lirismo, provenienti da generi meno attesi come la poesia epica. Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, un poeta egiziano del V secolo che ha avuto l’ambizione di comporre un poema epico su Dioniso in 48 libri, rivaleggiando con Omero e sperimentando suggestioni provenienti da tutti i generi letterari della grecità, non manca la descrizione di un notturno in cui è descritta la pena d’amore di un guerriero Indiano per una bella Baccante: un passo che ha attratto più di un traduttore (Dionisiache 33.263-281). Com’è sua abitudine, Nonno prende le mosse da un prestigioso modello (in questo caso un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio, 3.744- 750) per poi proseguire su una strada autonoma. Un traduttore di grande finezza come Filippo Maria Pontani, in uno dei suoi ‘esperimenti’ di traduzione da Nonno non ha resistito a enfatizzare la vocazione lirica di questi versi13:

πολυφλοίcβῳ δὲ μερίμνῃ  
τήκετο Χαλκομέδηc μεμνημένοc· ἐν γὰρ ὀμίχλῃ  
θερμότεροι γεγάαcιν ἀεὶ cπινθῆρεc ἐρώτων. 265
ἤδη γὰρ cκιόεντι θορὼν αὐτόχθονι παλμῷ  
ἄψοφοc ἀννεφέλοιο μελαίνετο κῶνοc ὀμίχληc,  
καὶ τρομερῇ ξύμπαντα μιῇ ξύνωcε cιωπῇ·  
οὐδέ τιc ἴχνοc ἔπειγε δι᾿ ἄcτεοc Ἰνδὸc ὁδίτηc,  
οὐδὲ γυνὴ χερνῆτιc ἐθήμονοc ἥπτετο τέχνηc, 270
οὐδέ οἱ ἐν παλάμῃcι φιληλακάτῳ παρὰ λύχνῳ  
κύκλον ἐc αὐτοέλικτον ἰὼν ἄτρακτοc ἀλήτηc  
ἄcτατοc ὀρχηcτῆρι τιταίνετο νήματοc ὁλκῷ,  
ἀλλὰ καρηβαρέουcα φιλαγρύπνῳ παρὰ λύχνῳ  
εὗδε γυνὴ ταλαεργόc· ὄφιc δέ τιc ἥcυχοc ἕρπων 275
κεῖτο πεcών, κεφαλῇ δὲ λύων παλινάγρετον οὐρήν  
γαcτέροc ὑπναλέηc ἀνεcείραcεν ὁλκὸν ἀκάνθηc·  
γαcτέροc ὑπναλέηc ἀνεcείραcεν ὁλκὸν ἀκάνθηc·  
καί τιc ἀερcιπόδηc ἐλέφαc παρὰ γείτονι λόχμῃ  
ὄρθιον ὕπνον ἴαυεν, ὑπὸ δρυὶ νῶτον ἐρείcαc. 280
καὶ τότε μοῦνοc ἄυπνοc ἀπόccυτοc ἄψοφοc ἕρπων  
ποccὶ παλιννόcτοιcιν ἕλιξ ἐcτρεύγετο Μορρε  

L’angoscia era un ronzio caparbio. Si struggeva
Al ricordo di lei: nel buio più brucianti si fanno faville
d’amore.
Già nereggiava tacito il cono d’una tenebra
Senza nubi, balzando col suo palpito d’ombra:
e livellò le cose in un silenzio lungo, allibito.
Né viandante dell’India accelerava
per la città l’orma del passo;
né donna operosa toccava il suo travaglio usato.
Presso la lampa amica della rocca, sbandava
Dal noto girotondo fra le mani il fuso,
né dondolava il suo perpetuo moto
al tratto ballerino dello stame.
Presso la lampa amica della veglia, dormiva
L’industriosa donna, con la testa
Pesa. Un serpente strisciò cheto, e giacque.
Afferrata col capo la ritrattile coda,
prono sul ventre sonnacchioso
contraeva la scia lunga del dorso.
E un altero elefante, presso un muro,
ritto, poggiato a un albero, dormiva.
Solo, insonne, smaniato, strisciando col passo
felpato, si struggeva Morrèo; e sempre
all’abbrivo tornava la sua ronda

La scelta di rendere λύχνοc con «lampa», di lirizzare la descrizione del movimento della spola, che nell’originale è condotta con precisione quasi scientifica, e quella di modernizzare i sentimenti di Morreo in una «angoscia», sortiscono nell’insieme un effetto che è assai interessante, anche se non corrisponde esattamente al tono epico dei versi greci14. Un bell’esempio di traduzione infedele, se si vuole, ma che rende un ottimo servigio alla poesia di Nonno.

Voci liriche della media età bizantina

Esiste un periodo in cui nella poesia bizantina la voce del poeta si affaccia più decisamente e io poetico e autore si identificano: nel IX e X sec., in concomitanza con la rinascita culturale nell’età dei Macedoni e poi successivamente col cambiamento del rapporto col potere nell’XI sotto i Comneni, i poeti bizantini affermano la propria personalità in modo più deciso. Poeti come Giovanni Geometra, il suo maestro Giovanni Mauropode, e poi Cristoforo di Mitilene, Psello mettono il proprio soggetto in primo piano nella produzione poetica. Nella lirica religiosa la poesia mistica non canta solo la creazione, ma descrive il tentativo dell’anima di attingere con gli occhi della mente, attraverso la luce, la sorgente della luce. Questa dimensione trascendente, che si traduce in un linguaggio immaginifico e sublime, ha avuto il suo cantore più ispirato in Simeone il Nuovo Teologo, vissuto fra la metà del X e i primi decenni dell’XI sec., il più importante poeta mistico di Bisanzio, non inferiore ai grandi esponenti della poesia mistica occidentale. Autore di una ricca raccolta di poesia (che superano i diecimila versi), indicata complessivamente col titolo di Inni degli amori divini, Simeone mette al centro della sua innodica la metafisica della luce, l’unione mistica che permette il totale abbandono all’agapi, e adottando un linguaggio apparso talora di incomprensibile novità ai suoi contemporanei. Una poesia che non è né liturgica né dogmatica: piuttosto si tratta di una personalissima esperienza della grazia, di un arduo tentativo di tradurre in ritmo poetico l’esperienza ineffabile. Un grande poeta, di cui non disponiamo ancora in italiano di una moderna traduzione (compito peraltro non facile per un traduttore). Leggiamo l’inizio dell’Inno 38.1-2215

ἔρωc Ἀθηνῶν τῶν πάαλι θρυλουμένων
ἔγραψε ταῦτα ταῖc cκιαῖc προcαθύρων
καὶ τοῦ πόθου τὸ θάλπον ἀναψύχων·
ἐπεὶ γὰρ οὐκ ἦν οὐδαμοῦ φεῦ προcβλέπειν
αὐτὴν ἐκείνην τὴν ἀοίδιμον πόλιν,
τὴν δυcαρίθου καὶ μακραίωνοc χρόνου
λήθηc βυθοῖc κρύψαντοc ἠφαντωμένην,
ἐρωτολήπτων ἀτεχνῶc πάcχω πάθοc
οἳ τὰc ἀληθεῖc τῶν ποθουμένων θέαc
ἀμηχανοῦντεc τῶν παρόντων προcβλέπειν
τὰc εἰκόναc ὁρῶντεc αὐτῶν, ὡc λόγῳ,
παραμυθοῦνται τῶν ἐρώτων τὴν φλόγα.
ὡc δυcτυχὴc ἔγωγε, καινὸc Ἰξίων,
ἐρῶν Ἀθηνῶν, ὡc ἐκείνων τῆc Ἥραc,
εἶτα λαθὼν εἴδωλον ἠγκαλιcμένοc·
φεῦ οἶα πάcχω καὶ λέγω τε καὶ γράφω·
οἰκῶν Ἀθήναc οὐκ Ἀθήναc που βλέπω,
κόνιν δὲ λυπρὰν καὶ κενὴν μακαρίαν.
Ποῦ σοι τὰ σεμνά, τλημονεcτάτη πόλιc;
ὡc φροῦδα πάντα καὶ κατάλληλα μύθοιc
δίκαι, δικαcταί, βήματα, ψῆφοι, νόμοι,
δημηγορίαι, πειθανάγκηc ῥητόρων,
βουλαί, πανηγύρειc τε καὶ στρατηγίαι
τῶν πεζομάχων ἅμα καὶ τῶν ναυμάχων,
ἡ παντοδαπὴ Μοῦcα, τῶν λόγων κράτοc.
ὄλωλε σύμπαν τῶν Ἀθηνῶν τό κλέοc·
γνώριcμα δ᾿ αὐτῶν οὐδ᾿ ἀμυδρόν τιc ἵδοι·
συγγνωcτὸc οὐκοῦν, εἴπερ οὐκ ἔχων βλέπειν
τῶν Ἀθηναίων τὴν ἀοίδιμον πόλιν,
ἴνδαλμα ταύτηc γραφικὸν ἐcτηcάμην.​

Quale strada potrò seguire, quale sentiero evitare?
Quale scala salirò, da quale porta entrerò?
Come aprirò la porta e di quale stanza?
Come sarà la casa in cui troverò
Colui che tiene nel palmo della mano l’universo?
Quale monte salirò, in quale plaga,
in quale caverna camminerò a tentoni,
quale palude traverserò per esser degno
​ di vedere e di afferrare Colui che è dovunque
che è inafferrabile, che è invisibile?
In quale inferno scenderò, in quale cielo
salirò, ai confini di quale mare
potrò trovare Colui che è ovunque inaccessibile,
colui che è senza confini, che non si può toccare,
immateriale nella materia, creatore nel creato,
incorruttibile nella corruzione. Dimmi, come lo troverò?
Come posso uscire dal mondo, io che sono nel
mondo,
come posso unirmi all’immateriale,
io che sono avvinto alla materia.
Come posso entrare nell’incorrotto,
io che sono tutto corruzione.
Io che sono nella morte come posso accostarmi
alla vita,
come posso avvicinarmi all’immortale,
io che sono un morto.
Io, interamente paglia, come oserò accostarmi al
fuoco? 16

Accennavo sopra che fra i generi che accolgono momenti lirici l’epigramma ha avuto un ruolo di primo piano.
Sempre nel X sec., Giovanni Geometra, nei suoi carmi in
metri classici (che sono solo una piccola parte della sua
produzione) riprende i temi e il tono di Gregorio di Nazianzo, specie negli epigrammi elegiaci. Come Gregorio
ha infatti composto una serie di poemi a se stesso (εἰc
ἑαυτόν), in cui il soggetto lirico si afferma con decisione,
sia pure dietro il riuso di topoi letterari e biblici (che per i Bizantini non erano un impedimento alla creazione poetica,
ma semmai l’imprescindibile langue di riferimento)17. Ecco
tuttavia un esempio del primo caso (carm. 75 van Opstall):

πόντον ἐριcμάραγον καὶ δείματα μυρία γαίηc
ἄτρομοc εὐκραδίωc ἔδραμον εὖτε θέλον.
ἀλλ᾿ ἕνα τόνδ᾿ αἰῶνοc περιδείδια μή τι πάθοιμι,
πλοῦν ἀίδηλον ὅτε cτέλλομαι ἐκ βιότου,
οἶδ᾿ ὅτι καὶ μακρὸc καὶ ἀθέcφατοc ἐc πόλον ἕρπει,
δύcποροc, ἀπροιδήc, οὐ περατὸc χθονίοιc.
καὶ τόδε αὖ βρίθει με χοὸc πάχοc - εὖτε περ ἰὸc
ὅc τε βάροc cιδάρῳ - ὃ πλάcαν ἀργαλέαι
τηκεδαναί τε μέριμναι καὶ βιότου μελεδῶναι,
ῥύποc θ᾿ ἡδυβόρου βρώματοc ἀρχεγόνων.<

Il cupo suono del mare e le infinite ombre della terra
a testa alta le ho percorse intrepido, quando volli.
Ma è quel viaggio per mare che temo di affrontare,
quando lascerò la vita, un viaggio arduo, oscuro,
inaccessibile. Allora il fardello della carne mi peserà – come la ruggine
che grava sul ferro –, gravame che le tristi e lunghe
cure, le angosce della mia esistenza,
e la macchia del cibo che parve dolce agli antenati,
hanno creato.

Un secolo più tardi, Giovanni Mauropode, intellettuale e poeta, maestro di Psello, e collaboratore di Costantino IX Monomaco (1042-1055) fino a che non fu
costretto a divenire metropolita di Eucaita (1048), ha
dedicato alla propria casa un carme di riuscito patetismo (p. 47 Bollig-de Lagarde, vv. 15-28, 45-53)18:

Οἰκτίζεται γὰρ καὶ λίαν cε, φιλτάτη,  
ὡc κτῆμα τερπνόν, ὡc πατρῴαν ἑcτίαν  
ὡc ἐκ γένουc δῶρόν τε καὶ κλῆρον μόνην.  
Καί μοι cτρέφει τὰ cπλάγχνα καὶ τὴν καρδίαν  
ὁ πρόc cε θερμὸc ἐκ cυνηθείαc ἔρωc·  
cὺ γὰρ τιθηνὸc καὶ τροφόc μοι, φιλτάτη, 20
cὺ παιδαγωγὸc καὶ διδάcκαλοc μόνη·  
ἐν cοὶ πόνουc ἤνενγκα μακροὺc καὶ κόπουc,  
ἐν cοὶ διῆξα νύκταc ἀγρύπνουc ὅλαc,  
ἐν cοὶ διημέρευcα κάμνων ἐν λόγοιc,  
τοὺc μὲν διορθῶν, τοὺc δὲ cυντάττων πάλιν, 25
κρίνων μαθηταῖc καὶ διδαcκάλοιc ἔριc,  
ἕτοιμοc ὢν ἅπαcιν εἰc ἀποκρίcεῖ  
καὶ προcτετηκὼc ταῖc γραφαῖc καὶ ταῖc βίβλοῖ […]  
ὅμωc δὲ χαῖρε, χαῖρε, μῆτερ δευτέρα, 45
ἡ καὶ τιθηνήcαcα καὶ θρέψαcά με  
καὶ πρὸc τέλειον μέτρον ἐξ ἔτι βρέφοῦ  
ἀπαρτίcαcα καὶ καταρτίcαcά με.  
νῦν δ᾿ ἄλλουc ἕξειc οὕc παιδεύcειc καὶ θρέψειc·  
ἄλλοιc παρέξειc πρὸc λόγουc εὐκαιρίαν 50
εἵπερ λόγουc cτέργουcιν, ἡμῖν δ᾿ οὐκέτι.  
cῴζου δέ, cῴζου καὶ cύ, πιcτὴ γωνία,  
ἐν ᾗ λαθὼν ἔζηcα τὸν πρὸ τοῦ βίον.  
[Il tuo padrone] ti piange anche troppo, mia cara,  
tu suo dolce possesso, tu focolare paterno,  
tu unico dono e retaggio dei suoi.  
E mi morde alle viscere e al cuore  
l’amore per te, caldo e consueto:  
tu infatti, carissima, sei stata per me balia e nutrice, 20
tu sola precettore e maestro;  
in te ho sopportato lunghe pene e travagli,  
in te ho passato notti intere di veglia,  
in te ho passato i giorni sudando sulle mie opere –  
correggevo, a volte componevo di nuovo – 25
giudicando contese fra discepoli e maestri,  
pronto a rispondere a tutti,  
dissugandomi sulle scritture e sui libri. […]  
Tuttavia salve, salve, mia seconda madre, 45
tu che mi hai allevato e nutrito,  
e che da bimbo fino all’ultimo grado  
mi hai cresciuto e formato.  
Ora avrai altri, che educherai e nutrirai,  
ad altri offrirai il tempo adatto alle lettere, 50
se pure amano le lettere: non più a me.  
Addio dunque, addio anche a te, fido angolo,  
in cui ho vissuto nascosto la vita precedente!  

Un testo dai toni accorati e intimistici, cui si adattano anche le strutture retoriche più attese, e che ricorda il carme di addio di Alcuino al proprio monastero, o quello che Gregorio di Nazianzo ha dedicato alla chiesa dell’Anastasis a Costantinopoli.

Il rimpianto è uno dei sentimenti che più spesso si incontrano nella poesia bizantina: rimpianto per un abbandono, per una perdita dolorosa, per un mondo che non esiste più. L’ambivalenza del rapporto con i classici greci, rappresentanti di una cultura profana ma terribilmente attraenti, alimenta alcune delle poesie più belle e toccanti di questa letteratura. Val la pena, dunque, di concludere questo breve sondaggio con i dodecasillabi (evoluzione del trimetro giambico) che un uomo di chiesa e fine letterato del XII secolo, Michele Coniate, ha dedicato alla decadenza di Atene. Nominato patriarca della città, Michele descrive in una famosa lettera (l’epist. 8) con verve e raffinata cultura la delusione al suo arrivo nella città, «madre della sapienza»: povertà, imbarbarimento degli abitanti, rovina ovunque. Anche se il quadro che Michele delinea è sicuramente forzato nei toni drammatici19, ciò non impedisce ai suoi versi di esprimere accenti sinceri e l’amore per l’antica paideia di cui Atene era la madre e la patria sognata. E così, come gli amanti separati dal loro oggetto d’amore, anche Michele non può far altro che tracciare un ritratto della città che ama e riempire con esso il suo vuoto20.

ἔρωc Ἀθηνῶν τῶν πάαλι θρυλουμένων
ἔγραψε ταῦτα ταῖc cκιαῖc προcαθύρων
καὶ τοῦ πόθου τὸ θάλπον ἀναψύχων·
ἐπεὶ γὰρ οὐκ ἦν οὐδαμοῦ φεῦ προcβλέπειν
αὐτὴν ἐκείνην τὴν ἀοίδιμον πόλιν,
τὴν δυcαρίθου καὶ μακραίωνοc χρόνου
λήθηc βυθοῖc κρύψαντοc ἠφαντωμένην,
ἐρωτολήπτων ἀτεχνῶc πάcχω πάθοc
οἳ τὰc ἀληθεῖc τῶν ποθουμένων θέαc
ἀμηχανοῦντεc τῶν παρόντων προcβλέπειν
τὰc εἰκόναc ὁρῶντεc αὐτῶν, ὡc λόγῳ,
παραμυθοῦνται τῶν ἐρώτων τὴν φλόγα.
ὡc δυcτυχὴc ἔγωγε, καινὸc Ἰξίων,
ἐρῶν Ἀθηνῶν, ὡc ἐκείνων τῆc Ἥραc,
εἶτα λαθὼν εἴδωλον ἠγκαλιcμένοc·
φεῦ οἶα πάcχω καὶ λέγω τε καὶ γράφω·
οἰκῶν Ἀθήναc οὐκ Ἀθήναc που βλέπω,
κόνιν δὲ λυπρὰν καὶ κενὴν μακαρίαν.
Ποῦ σοι τὰ σεμνά, τλημονεcτάτη πόλιc;
ὡc φροῦδα πάντα καὶ κατάλληλα μύθοιc
δίκαι, δικαcταί, βήματα, ψῆφοι, νόμοι,
δημηγορίαι, πειθανάγκηc ῥητόρων,
βουλαί, πανηγύρειc τε καὶ στρατηγίαι
τῶν πεζομάχων ἅμα καὶ τῶν ναυμάχων,
ἡ παντοδαπὴ Μοῦcα, τῶν λόγων κράτοc.
ὄλωλε σύμπαν τῶν Ἀθηνῶν τό κλέοc·
γνώριcμα δ᾿ αὐτῶν οὐδ᾿ ἀμυδρόν τιc ἵδοι·

L’amore per Atene, celebre una volta,
ha scritto questi versi scherzando con le ombre,
raggelando l’ardore del desiderio.
Perché in nessun luogo mi fu possibile vedere
quella città, quella città famosa
che è scomparsa negli abissi dell’oblio
del tempo senza fine, eternamente lungo.
E io soffro le pene degli amanti, senza scampo:
non potendo avere la vera immagine del loro amore
accanto a sé, guardandone il ritratto – si dice –
consolano il fuoco della passione.
E io infelice, come un nuovo Issione,
io amo Atene, come lui amava Era,
abbracciando di nascosto una sua statua.
Soffro e parlo e scrivo!
Abito ad Atene e non vedo Atene,
ma una sudicia polvere e una vuota felicità.
Dove sono i tuoi santi luoghi, misera città?
Tutto è lasciato ai miti,
i processi, i giudici, le tribune, i voti, le leggi,
le assemblee, la persuasiva forza degli oratori,
consigli, riunioni e spedizioni
di fanti e marinai,
la Musa versicolore, la forza delle lettere.
È perita tutta la gloria di Atene,
nemmeno un fosco barlume a riconoscerla.
Ch’io sia dunque perdonato, se non potendo
guardare la città famosa degli Ateniesi
una statua di parole ho innalzato.

Appendice. Le principali traduzioni in Italia

Per finire, un accenno al panorama editoriale italiano. Un ruolo storico nella diffusione della conoscenza della poesia tardoantica e bizantina lo ha avuto l’antologia di Raffaele Cantarella nata per esigenze universitarie e uscita nel 1947 (e ristampata con aggiornamenti a cura di Fabrizio Conca, Milano, BUR 1992), due volumi assai ricchi che vanno dagli Oracoli Sibillini a poemi della metà del XV sec. (l’ultimo testo è un idillio pastorale allegorico-politico, che ricorda certi carmi pastorali carolingi o quelli della tradizione petrarchesca); l’ampiezza della scelta e il sicuro gusto di Canterella traduttore ne fanno ancor oggi uno strumento indispensabile per accostarsi a questa poesia (e la sua ricchezza è rimarchevole, se confrontata ad es. con l’antologia curata da B. Baldwin, An Anthology of Byzantine Poetry, Amsterdam 1985, che si presenta come una scelta fortemente autonoma, con un maggior apparato erudito, ma è senza traduzione). Recentissima l’apparizione della selezione di Francesco Tissoni, Mille anni di poesia greca. Antologia dai secoli V-XV, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2012 (senza testo greco, ma con scelte originali).

Nel campo della tarda antichità gli ultimi anni hanno visto una notevole fioritura di traduzioni, sulla scia del rinnovato interesse per questo periodo del mondo antico. Le Dionisiache di Nonno sono leggibili in una traduzione completa21, e anche il poema cristiano di questo autore, la Parafrasi del Vangelo di Giovanni, ha avuto varie traduzioni di singoli canti. Una silloge di anacreontiche tardoantiche e mediobizantine è stata tradotta e commentata da Federica Ciccolella. Una delle poche poetesse tardoantiche, l’imperatrice Eudocia, autrice di un poema sul martire Cipriano, una sorta di Faust ante litteram, ha avuto l’onore di ben due traduzioni (quella in rutilante linguaggio di Enrica Salvaneschi nel 1982, e quella in prosa di Claudio Bevegni nel 2006). I bizantinisti di Napoli hanno dato un impulso vigoroso agli studi di poesia bizantina e le loro edizioni sono sempre accompagnate da traduzioni italiane. Gli Inni di Sinesio si possono leggere nell’edizione complessiva di Antonio Garzya (Torino, Utet 1990); un vero avvenimento è stata l’edizione con traduzione di tutta la produzione liturgica di Romano il Melode, senza dubbio il più noto e il miglior poeta di Bisanzio, curata da Riccardo Maisano; e del primo poeta epico di Bisanzio, Giorgio di Pisidia (VII secolo), la cui poesia profana e religiosa è stata pubblicata e tradotta di recente da Luigi Tartaglia e Fabrizio Gonnelli. Attente cure editoriali e traduzioni sono state riservate ai poeti bizantini attivi in terra d’Otranto (editi da Marcello Gigante) Nicola Callicle (Roberto Romano), ma anche alla produzione satirica (Roberto Romano). E una produzione importante come quella dei romanzi cavallereschi e dei romanzi erotici in versi è ora comodamente leggibile (edizioni di Conca e di Carolina Cupane). E anche le due versioni dell’epica del Dighenis Akritas sono state tradotte in edizioni accessibili.

Bibliografia

Il rinnovato interesse per la la civiltà e la cultura bizantina ha prodotto saggi di ampio respiro, che hanno l’ambizione di raggiungere un pubblico ben più ampio di quello degli specialisti: il lettore troverà una intelligente e articolata introduzione in due libri della bizantinistica anglosassone che si integrano a vicenda: A. Cameron, I Bizantini, Bologna 2008 e J. Herrin, Bisanzio. Storia straordinaria di un impero millenario, Milano 2008; si vedano anche i saggi raccolti nei volumi collettivi Lo spazio letterario del Medioevo. 3 Le culture circostanti, diretta da M. Capaldo, F. Cardini, G. Cavallo, B. Scarcia Amoretti, vol. I. La cultura bizantina, a cura di G. Cavallo, Salerno, Roma 2004 e Cécile Morrisson, Il mondo bizantino, ed. it. a cura di S. Ronchey e T. Braccini, 2 voll., Torino 2007 (Paris 2004-2005). Una buona scelta antologica di testi è offerta da Umberto Albini - Enrico V. Maltese, Bisanzio nella sua letteratura, antologia di testi in traduzione italiana, Milano 20042, da accompagnare con la lettura di un classico della bizantinistica russa come S. Averincev, L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina, ed. it. Bologna 1988. Si veda anche S. Impellizzeri, La letteratura bizantina. Da Costantino a Fozio, Milano 19932; e il volume collettivo Bisanzio tra storia e letteratura, Brescia 2003 («Humanitas» 58, 2003/1). Fra gli strumenti di consultazione segnalo almeno The Oxford Dictionary of Byzantium, ed. by A.P. Kazhdan, I-III, New York 1990.​

Sull’ellenismo nel mondo bizantino: A. Kaldellis, Hellenism in Byzantium. The Transformation of Greek Identity and the Reception of Classical Tradition, Cambridge 2007.

Sulla poesia a Bisanzio è ora indispensabile M. Lauxtermann, Byzantine Poetry from Pisides to Geometres. I, Wien 2003 (il secondo volume è in preparazione), che sostituisce K. Trypanis, La poesia bizantina. Dalla fondazione di Costantinopoli alla fine della Turcocrazia, ed. it. a cura di L.M. Raffaelli, Milano 1990. Per la poesia innografia F. D’Aiuto, L’innografia nel sopra citato La cultura bizantina, a cura di G. Cavallo, pp. 257-300.

Le principali traduzioni di poesia tardoantica e bizantina apparse in Italia negli ultimi anni sopra menzionate (Appendice):

Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, vol. I-IV, a cura di D. Gigli (I), F. Gonnelli (II), G. Agosti (III), D. Accorinti (IV), Milano 2003- 2004.

Eudocia Augusta, Storia di San Cipriano, a cura di C. Bevegni, Milano 2006 (anche la traduzione di E. Salvaneschi, in Synkrisis 1, 1982).

Cinque poeti bizantini, a cura di F. Ciccolella, Alessandria 2000.

Poeti bizantini di terra d’Otranto nel secolo XIII, a cura di M. Gigante, Napoli 1979.

Nicola Callicle, Carmi, a cura di R. Romano, Napoli 1980.

Digenis Akritas, Poema anonimo bizantino, a cura di P. Odorico, Firenze 1995.

Dighenis Akritas, versione dell’Escorial, a cura di F. Rizzo Nervo, Soveria Mannelli 1996.

Romanzi cavallereschi bizantini, a cura di C. Cupane, Torino 1995.

Il romanzo bizantino del XII secolo, a cura di F. Conca, Torino 1994.

Giorgio di Pisidia, Carmi, a cura di L. Tartaglia, Torino 1998.

La satira bizantina dei secoli XI-XV, a cura di R. Romano, Torino 1999.

Romano Il Melodo, Cantici, a cura di R. Maisano, 2 voll., Torino 2002.


Note

1 Arte è per noi liricità, cioè personalità. Questa letteratura, in complesso, difetta di elementi personali. Essa, come tutta la cultura, è prevalentemente rivolta verso il passato: ciò che è puramente moderno, è per lo più nella letteratura bizantina qualcosa di penetrato contro le intenzioni dell’autore, un felice errore» (Bizantina, civiltà in Enciclopedia Italiana, ora in G. P., Rapsodia sul classica. Contributi all’Enciclopedia Italiana di Giorgio Pasquali, Roma 1986, p. 119).
2 Si veda C. Mango, Byzantine Literature as a Distorting Mirror,
Inaugural Lecture, Oxford 1975 (= Id., Byzantium and its Image, London 1982, ch. II).
3 Abituati come siamo alla tripartizione dei generi canonizzata dall’estetica hegeliana e alla lirica romantica e moderna.
4 Platone, Rsp 392d sgg., Aristotele, Poet. 1447a sgg.
5 Il racconto, cioè, può svolgersi per narrazione semplice [il poeta parla in prima persona], per mimesi [focalizzazione interna o esterna; tragedia e commedia], per forma mista [prima persona e focalizzazioni; l’epica].
6Edizione con traduzione italiana: R. Romano, La satira bizantina dei secoli XI-XV, Torino 1999, pp. 389-405.
7 Ottima edizione con testo critico, traduzione e commento a cura di F. Ciccolella, Cinque poeti bizantini. Anacreontee dal Barberiniano greco 310, Alessandria 2000, pp. 19-31.
8 Senza dimenticare il rapporto fra autore e destinatario (ivi inclusi i rapporti di patronato).
9 Si veda H.G. Beck, Il millennio bizantino, ed. it. a cura di E. Livrea, Roma - Salerno 1981, pp. 156-60.
10 Due voll. nella collana Testi Patristici di Città Nuova, a cura di C. Moreschini e C. Crimi, C. Laudizi, I. Costa, 1994-1999.
11 Traduzione italiana in R. Cantarella, Poeti bizantini, a cura di F. Conca, Milano 1992, pp. 151-2.
12 Sono testi in cui la componente retorica tradizionale (l’ekphrasis del locus amoenus o dell’arrivo della primavera) fornisce la grammatica di base che i poeti rielaborano con più o meno autonomia. Sulla fortuna di questi soggetti a Bisanzio si veda C. De Stefani, «L’epigramma longum tardogreco e bizantino e il topos dell’arrivo della primavera», in Epigramma longum. Da Marziale alla tarda antichità. From Martial to Late Antiquity, a cura di A.M. Morelli, Cassino 2008, II, pp. 570-600.
13 Si veda F.M. P., Esperimenti di traduzione da Nonno, Koinonia 3, 1979, pp. 145-8.
14 Perciò la mia scelta, in una traduzione completa del poema,
è stata piuttosto quella di adagiarsi sull’originale: «tumultuoso
è il dolore / che lo strugge al pensiero di Calcomeda (è vero
che nella notte / le scintille d’amore si fanno più ardenti). /
Balzando dalla terra con i movimenti dell’ombra / in silenzio il
cono della notte senza nubi scurisce / e tutto accomuna in un
solo trepido silenzio: / né un Indiano muove i suoi passi nella
città, / né una filatrice mette mano all’arte cui è avvezza – / fra
le mani presso la lucerna amica della conocchia / il fuso errabondo non si muove per girare su stesso / e per stendersi,
senza stare mai fermo, sotto la spinta ballerina della spola, /
ma con la testa pesante, presso la lucerna amica della veglia,
/ dorme la donna operosa. Un serpente strisciando ozioso
/ cade a giacere, rilasciando la coda che ritorna alla testa
/ attorcigliando la spina dorsale sul ventre sonnecchioso; /
un elefante dalle lunghe gambe vicino nella selva / dorme un
sonno eretto, appoggiando il dorso a una quercia. / Questa
notte il solo a non dormire, a vagare in silenzio, / a struggersi
girando avanti e indietro è Morreo» (Nonno di Panopoli, Le
Dionisiache. III. Canti 25-39, a c. di G.A., Milano 2004). Sui
problemi che il traduttore di Nonno deve affrontare ho discusso più ampiamente in “La prodigalité de l’épithète”. Ripensando la traduzione dei poemi di Nonno di Panopoli, in Note
di traduttore. Sofocle, Euripide, Aristofane, Tucicide, Plauto,
Catullo, Virgilio, Nonno, a cura di F. Condello - B. Pieri, Bologna 2011, pp. 29-49.
15 Traduzione in G. Agosti, L’occhio noetico. Immagini e simboli nella poesia mistica tardoantica e bizantina, «Semicerchio» 24-25, 2001, pp. 29-42, p. 40
16 Si veda anche la bella traduzione di Inno17.319-351, il potere dell’amore, in Cantarella, Poeti Bizantini, cit., pp. 743-5.
17 Nei poemi di Giovanni non è sempre facile comprendere se si tratti di un «io» autobiografico, di uno liturgico (quando il poeta rappresenta la voce della comunità dei fedeli) o di una persona loquens: si veda la discussione di E.M. van Opstall, Jean Géomètre. Poèmes en hexamètres et en distiques élé- giaques, Leiden-Boston 2008, pp. 34-9.
18 Traduzioni edite: Cantarella, Poeti bizantini, cit., p. 715 e R. Anastasi, Giovanni Mauropode, metropolita di Eucaita. Canzoniere, Catania 1984. La presente traduzione è mia.
19 Cfr. M. Di Branco, Atene da Basilio II a Michele Coniata, in Bisanzio nell’età dei Macedoni, a cura di F. Conca - G. Fiaccadori, Milano 2007, pp. 77-93.
20 Il testo con qualche annotazione è in Baldwin, Anthology 162-163. La traduzione è mia.
21 E quasi completa è quella curata da M. Maletta (con commento di F. Tissoni) per Adelphi, di cui sono finora apparsi tre volumi.


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