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GIAN PIERO MARAGONI, Tasso in controluce. Risonanze e fortune del gran Torquato, Roma, Robin Edizioni, 2010, pp. 94, € 10.

 

Fedele alla peculiare formula erudita di commento che lo contraddistingue – in cui il tecnicismo dell’analisi retorica e stilistica viene bilanciato da un’intertestualità di ampio e talora spiazzante respiro diacronico – Maragoni raccoglie in questo volume tre brevi saggi dedicati alla fortuna di Torquato Tasso. Nel primo, oggetto di valutazione è il poema La disperazione di Giuda, opera di Giulio Liliani del Friuli, pubblicata originariamente a Udine nel 1601, ma data alle stampe nel 1627 da Giacomo Scaglia quale opera postuma del poeta sorrentino e come tale ristampata fino a Ottocento inoltrato. La riuscita operazione commerciale del libraio appare qui spia del fondamentale debito che il gusto sacro seicentesco nutre nei confronti di Tasso e fornisce allo studioso l’occasione di riesaminarne velocemente l’ultima produzione poetica, quella di argomento religioso che si apre nel 1588 con il Monte Oliveto, abbraccia i tre anni di composizione de Le sette giornate del mondo creato, include le Lagrime della Beata Vergine e le Lagrime di Cristo e si chiude nel 1594 con l’abbozzo dell’incompiuta Vita di San Benedetto. In questa produzione lo studioso riconosce non solo la presenza del modello diffuso da Luigi Tansillo con le Lagrime di San Pietro, ma anche un doppio contrasto interno alla propria figura di letterato: un Torquato «sapienziale ed ascetico» (p. 11) che mal si compone con l’impegno mai abbandonato di narratore (la Conquistata) e di teorico (i Discorsi) e che soprattutto sancisce la rinuncia all’elemento di azione che aveva caratterizzato l’epos religioso della Liberata. Rinuncia che consiste nel passaggio definitivo da un patetismo ipernarrativo, dove il dolore si fa nobile attraverso uno sforzo di compressione degli opposti, a un patetismo antidiegetico, che è al contrario, come già in Tansillo, compiacimento nell’esaltazione degli opposti. Procedendo al confronto, impari fin dalla partenza, fra il poema di Liliani e il suo modello cinquecentesco, Maragoni osserva come al chiaroscuro tassesco si sostituisca un gusto pienamente barocco per l’indistinto. Eclissando ogni limite, dissolvendo ogni contorno, questo gusto trova espressione nella dismisura e nella confusione delle immagini apocalittiche, nell’incertezza visiva e uditiva delle scene, nella cifra di eccesso che impronta i momenti di allucinazione e delirio del protagonista. La scelta stilistica si rivela così funzionale a comunicare «l’idea della morte di Giuda come inabissamento in un vortice piuttosto che – secondo la tradizione – come strazio efferato» (p. 17). Togliendo infine al suicida il vantaggio del raziocinio, contribuisce a farne un’impetuosa figura tragica di dolore e morte. Accanto alle immagini, approssimativo appare anche lo stile, allineato al gusto del tempo e debole al punto da permettere allo studioso di esprimere il proprio giudizio con una sapida boutade: «al minimo Liliani la qualifica di genio incompreso conviene quanto a un tagliaborse di quartiere quello di Fantomas dei due mondi» (p. 23). Il secondo saggio si sofferma invece sulla traduzione in lodigiano per opera di Francesco de Lemene dell’episodio tassesco di Olindo e Sofronia, rifacimento maturato in un clima di ozio provinciale e perciò ben lontano dall’utilizzo eversivo che del dialetto lombardo faceva in quegli stessi anni il commediografo Carlo Maria Maggi. Attraverso l’analisi serrata condotta su alcune ottave messe a confronto con il testo di partenza, Maragoni, che ama definirsi qui «molesto pedagogo delle bellezze di un ghiribizzo d’antico regime» (p. 59), ne dimostra la sostanziale fedeltà, che si combina a un uso illustre del dialetto e all’adozione del registro comico inteso in senso retorico. Un processo di «escardinazione» in lingua poetica del vernacolo lodigiano che, oltre ad assumere forma aspecifica (grazie a lemmi non attestati o invece attestati in altri dialetti), riesce così a farsi a un tempo eroico e prezioso, permettendo, nel passaggio dal pathos tassesco della Liberata al comico in senso classicistico, «un vero slivellarsi da uno ad altro sistema» (p. 56). Nel terzo brevissimo intervento, di carattere maggiormente teorico, l’autore invita gli studiosi ad abbandonare quel «delirio ermeneutico» (p. 71) in base al quale Inferno e Cielo costituirebbero nel poema tassesco due forze cui l’autore avrebbe accordato pari valore e dignità. Per verificare quanto al contrario quello di Tasso sia un racconto di parte, è necessario riconsiderare da un punto di vista barocco (perché tale è l’estro di Tasso) la nozione di antitesi e come essa venga impiegata nella Liberata, attraverso la costruzione di complicate architetture, al fine di stabilire ed opporre livelli che mantengono fra loro una definita posizione gerarchica. È il caso del combattimento fra Tancredi e Clorinda, il cui impianto gerarchico, a partire dall’antitesi fra cristiano e pagano, rivela, al momento dello scioglimento, la propria struttura chiastica, laddove il cavaliere cristiano vince, ma con proprio danno (la morte dell’amata), mentre all’avversaria sconfitta è garantita la salvezza (il battesimo). Analisi dotte e perspicaci, queste di Maragoni, che fanno tuttavia desiderare al lettore un linguaggio meno iniziatico, assieme a maggiori indicazioni sulla letteratura primaria e il relativo contesto di produzione.

(Toni Veneri)


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