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YVES BONNEFOY:
I PASSI DELL’INVISIBILE
di Antonio Prete

Pensare al cammino di Bonnefoy: stazioni che hanno nomi, nomi che sono titoli di libri. Ogni titolo un paesaggio interiore, o un angolo di biblioteca, o un paese dell’anima – un "arrière-pays" – aggiunto all’esplorazione assidua, concentrata, dell’esistenza umana. Esistenza osservata sempre in quel cerchio che dal visibile porta verso l’invisibile, dalla concretezza individuale verso la sua ombra, che è anche ricordo, immagine, sogno. In un gioco di prossimità e lontananza. Presenza. Bonnefoy ha dato alla presenza un’energia così intensa e allo stesso tempo silenziosa, profonda e discreta.
Fisica e metafisica congiunte nella lingua della poesia. Da Anti-Platon del ’47 a Les planches courbes del 2001, (ma forse a proposito di inizi, bisognerebbe ricordare quel Trattato del pianista tradotto recentemente da Maria Sebregondi), da Hier régnant désert del ’58 a Ce qui fut sans lumière dell’85, da Du mouvement et de l’immobilité de Douve, del ’53 a L’Origine du langage del 1980, da Pierre écrite del ’65 a Dans le leurre du seuil del ’75. Stazioni che si rispondono. Dialogano tra di loro. Terra dove si affollano presenze, e ombre, e sogni. E poi, ogni stazione poetica ha, di volta in volta, intorno ad essa, un orizzonte, o forse un giardino di pensieri che la circonda, e anche illumina. È la scrittura in prosa: saggio, poème-en-prose, frammento, racconto (racconto in sogno). Così da L’improbable a Rimbaud, da Un rêve fait à Mantoue a L’arrière-pays, da Rue traversière a Remarques sur la couleur, da La vie errante ai tanti Entretiens sulla poesia. E poi le traduzioni: da Shakespeare, Keats, Leopardi, Yeats. E gli scritti sull’arte: un colloquio costante, interiore, con il colore, una passione che si fa scrittura, dialogo, impressione che a raggiera si riverbera in altre scritture. C’è una funzione Piero della Francesca, in Bonnefoy. Davvero analogista, Bonnefoy: in senso forte. Opposto all’eclettico.
Una lunga, insieme discreta ed essenziale, meditazione sul linguaggio, sulla poesia. Un intrattenimento assiduo, e inventivo, rigeneratore, con i luoghi: l’Italia, la Grecia. E con i poeti, al di là dell’ordine temporale, e linguistico: Esiodo o Kavafis, gli Inni omerici o Seferis, Virgilio o Baudelaire, Shakespeare o Mallarmé, Racine o Keats. E poi i filosofi, da Kierkegaard ai prossimi, contemporanei: Bataille, Jean Wahl.
Vaporisation et concentration du moi. Si potrebbe ritrovare questo movimento baudelairiano (del Baudelaire di Mon coeur mis à nu), nel racconto critico e poetico di Bonnefoy. Il soggetto è nel suo allontanarsi sui passi delle figure, o nel colore, nel suo ritrovarsi nel ricordo, nella luce obliqua di un ricordo.
Trascorrere tra i suoi libri. L’invisibile, leggiamo, dal punto di vista della parola, non è la sparizione (la "disparition vibratoire" di cui diceva Mallarmé?), ma è "la délivrance du visible". Siamo nel paragrafo V dello scritto La poésie française et le principe d’identité. Che continua: "Lo spazio e il tempo caduti perché insorga la fiamma in cui l’albero e il vento possono diventare destino".
L’albero e il vento che diventano destino. Questo è il movimento proprio della poesia e della scrittura in prosa di Bonnefoy: un’insorgenza dell’essere, uno spazio e un tempo interiorizzati, quasi aboliti, e l’insorgenza, per immagini, per figure, delle cose, ritrovate in una prossimità che è la stessa che bagna il destino creaturale.
La poesia: voci di ombre, passi di ombre nel giardino dell’interiorità. L’oscillazione di un ramo, una pietra scritta (pierre écrite è figura assidua, sorgente di evocazione), il passaggio di una nuvola, il trascolorare di una luce che annuncia il tramonto: presenza del particolare che porta con sé un’altra misteriosa indecifrabile presenza. Presenza che è appartenenza a un comune destino di viventi, presenza che non smuore con la sua sparizione, ha orme e lascia tracce, risorge e si trasforma in parola, in ritmo.
L’albero, il fiume, la barca, il giardino, la strada (rue traversière) appaiono, vivono, respirano, ma come bagnati da una luce insieme obliqua e irreale, che rende ogni cosa prossima e indecifrabile. Le figure – silhouettes, ombre, profili, che si staccano dal nulla, sbalzano su quel baudelairiano "néant vaste et noir" – le figure seguono il ritmo di questo venire alla presenza. È poi questo venire alla presenza la poiesis. Fin dal Simposio platonico: fare che le cose siano, far venire alla presenza. Ecco perché Bonnefoy anzitutto libera le cose dalla loro simbolizzazione, ma anche dalla loro riduzione alla lettera, al significante. La parola nuit è chiara, ma anche la notte è chiara, anche se è oscura, scrive a un certo punto Bonnefoy. Una replica a Mallarmé, questo non voler separare la parola dalla cosa, il fiore che si leva musicalmente ("idéé même et suave"), dal fiore del giardino.
Nella scrittura di Bonnefoy la finitudine prende campo, lingua, ritmo e disegna all’orizzonte le pareti di una casa. La casa dell’immortalità che appare nel sogno fatto a Mantova (quella "maison de l’immortalité" dove le fanciulle invitano a entrare). Ma queste pareti sono un sogno. Sono un miraggio. Quel paese che la finitudine circoscrive dinanzi agli occhi della mente è un paese che è prima del paese, sta in una penombra che è ricordo, traccia di un sogno che non ha preso corpo, frammento di una visione che non sarà mai dispiegata.
E tuttavia la poesia resiste alla tentazione dell’oblio. La tentation de l’oubli è il titolo che raccoglie recenti conferenze di Bonnefoy su Baudelaire: un’esegesi del ricordo, del suo farsi lingua, tenerezza nella lingua, presenza nella lingua. Esegesi di tre poèmes: Le balcon, La servante au grand coeur, Je n’ai pas oublié, voisine de la ville. La poesia: pensare contro l’oblio. Anche Jabès, l’ultimo Jabès, aveva meditato sulla poesia come un pensare contro l’oblio.
Il ritmo, nella scrittura di Bonnefoy, è un fiume, ama l’adagio e il largo. La lentezza è il dispiegarsi della cosa – del fiore? – verso la luce, dall’ombra. Un salire verso l’invisibile inteso, appunto, come "délivrance du visible". Una visione che non cancella le voci, né le ombre, né i silenzi, e neppure i passi, i lenti passi sulle pietre, i passi che vanno verso una barca vuota, bagnata dall’ultima luce del giorno.

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