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MARCEL BEYER, Erdkunde, Köln, DuMont 2002, pp. 116, 16,90.

 

Noto ai lettori italiani per il romanzo del 1995 Flughunde (Pipistrelli, Einaudi 1997), complesso intreccio di fiction, saggistica e fonti documentarie che scandaglia il dodicennio nazista e i suoi echi attuali, Marcel Beyer (nato nel 1965) rappresenta tuttavia anche una delle voci più importanti nel panorama della giovane poesia tedesca. Fin dai primi esperimenti poetici quello di Beyer si rivela infatti un linguaggio originale, incentrato sulla decostruzione morfosintattica e sul montaggio citazionale nonché su una forte componente ritmico-musicale. Già con la raccolta del 1997 Falsches Futter (Cibo sbagliato), peraltro, il sound beyeriano giungeva a caricarsi di una complessa dimensione semantica, segnando un nuovo, interessante approccio al tema della memoria storica. Lungo la linea di una tradizione ermetica che guarda soprattutto a Celan, l’operazione di Falsches Futter si incentrava infatti sull’auscultazione del «silenzio eloquente » del passato tedesco, le cui tracce si lasciavano ritrovare in paesaggi periferici, sotterranei, oppure in objets trouvés, frammenti insignificanti come una scatola di cera da scarpe: un procedimento di raccoltae di ristratificazione semantica inteso a far saltare una vulgata storica indurita e cristallizzata.

L’approccio beyeriano al passato è riassunto nei versi di Trockenfisch, poesia che compare all’interno dell’ultima raccolta di Beyer, pubblicata nel 2002 con il titolo programmatico di Erdkunde (Geografia), termine un po’ polveroso rispetto al più moderno Geographie, ma che rimanda a una prassi disciplinare sentita quasi humboldtianamente come «occhio della storia». Il poeta muove adesso alla volta di un viaggio da ovest verso est oltre i confini spazio-temporali del proprio paese: dalla Repubblica Ceca alle pianure dei paesi baltici fino a Kaliningrad e San Pietroburgo. Lungo sei sezioni poetiche disposte a suggerire le singole carte di un atlante i luoghi stranieri si vengono a configurare in termini di colori e di odori: «Die Luft hat keinen Beigeschmack, kein Brennstoff / in den alten Kosmonautenstädten, nichts / zu saugen. Staub Sterne, Kohlgeruch sein einer // Ewigkeit verflogen, [...]» (Fort). Ma la geografia beyeriana è e resta in primo luogo archeologia della memoria: alle sollecitazioni del presente si sovrappongono esperienze personali, reminiscenze storico-culturali («Tallinn mit dem Geruch nach Holz / in der Erinnerung, Vernäht, geklemmt, / verdammte Füße, wenn ich – Taxistelle – / vor der Puschkinvilla stehe» Stiche) e fantasmi di un passato recente di cui resta ovunque soltanto polvere (Staub).Non a caso fin nella prima sezione, dedicata  alla Boemia, nel ciclo di poesieche dà il  nome alla raccolta, l’esploratore esperisce un processo di ‘ossificazione’ – «Ossizierung », come suona il neologismo beyeriano – proprio di un paesaggio «poroso», che ha paura perfino di sfiorare («[...] in Teplitz, in Teplice oder in Tepl, / ich berührte nichts, alles // fürchtete ich, würde zerbröckeln, / so wie der Name, porös [...]»). E porosi in quanto benjaminianamente osmotici, punti di passaggio tra passato e presente, sono gli scenari urbani del postcomunismo (Funky Sabbath), o gli pneumatici abbandonati ai lati delle autostrade (Fünf Zeilen).

Dopo il naufragio della storia, l’unico terreno solido su cui il geografo può poggiare i propri passi sono appunto gli oggetti nella loro realtà fenomenica («Die Sprachen sind mir fremd, als würde / ich Pantoffeln tragen: aber ich // bin da. Kunstfaser, Pelzbesatz und / Einlegsohlen: alle Dinge sind mir nah.» Narva, taghell). Di qui il procedimento di accumulazione e stratificazione nominale, il complesso lavoro sul lessico proprio di queste poesie (si vedano i montaggi e i neologismi di Bienenwinter), che rischiano qualche volta di ridursi a catalogo di materiale linguistico seppur di ottima fattura. In un contesto dominato da strutture ellittiche e da costrutti ostici, il «collante» dei versi beyeriani (il Kitt che dà il titolo a una poesia) è di nuovo quella musicalità data da un peculiare intreccio di elementi colti (lo sfruttamento di differenti metri o il sapiente uso dell’enjambement) e sonorità apparentemente ‘facili’ come le rime della nenia infantile, a cui si aggiungono i numerosi rimandi interni o addirittura tra questa e le raccolte precedenti: costanti di un programma poetico che fa leva sull’interpretazione come suo momento costitutivo.

 

[Monica Lumachi]


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