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HENRI COLE, Middle Earth, New York. Farrar, Straus and Giroux 2003, pp. 57, $ 23.

 

Nato in Giappone da genitori americani nel 1956, autore di quattro volumi di versi, poet in residence allo Smith College, e, secondo Harold Bloom, poeta centrale della sua generazione, Henri Cole riconosce la sua tradizione nella poesia lirica di tutti i tempi e di ogni lingua prima ancora che nella poesia americana. Sfogliando questo suo nuovo libro colpisce  nfatti l’omaggio alla forma lirica per eccellenza, il sonetto, che qui rivive, libero dalle sua maglie più rigide e flessibilissimo, quasi etereo, in ben 29 dei 34 testi. I quali attingono alla biografia del poeta, ai suoi desideri e alle sue paure per comporre un delicatissimo autoritratto, quanto mai elusivo perché estratto da sensazioni, suoni, odori piuttosto che da fatti concreti. I versi che precedono le tre parti del volume a mo’ d’epigrafe introducono il tono di questa poesia dal ritmo pacato e dalla lingua incredibilmente nitida: «Deadheading the geraniums, I see myself / as I am, almost naked in the heat, / trying to support a little universe / of blakening pinks, wilted by rain and sun, / stooping and quivering under my scissors / as I cut the rotten blossoms from the living, / as a man alone fills a void with words, / not to be consoling or point to what is good, / but to say something true that has body, / because it is proof of his existence». La delicata analogia fra il lavoro di giardiniere e quello di poeta funziona a più livelli: tutti e due tentano, in solitudine, di tenere in vita «un piccolo universo» continuamente minacciato, separando quel che è morto da quel che è vivo con un esperto lavorìo di cesello affinché emerga la verità sulla propria esistenza non camuffata da parole esornative o consolatorie. Ed il pregio di questa poesia è proprio la limpidezza della sua lingua che s’incide senza sbavature sulla pagina per dipingere pannelli che molto ricordano la pittura orientale: «Beyond the soggy garden, two kayaks / float across mild clear water. A red sun / stains the lake like colored glass. Day is stopping. / Everything I am feels distant or blank / as the opulent rays pass through me, / distant as action is from thought...» (Kayaks). Ognuna di queste formelle serve a comporre il ritratto intimo del poeta oltre il dato reale, come ci viene detto in My Tea Ceremony: «Oh, you bowls, don’t tell the others I drink / my liquor out of you. I want a feeling of beauty / to surround the plainest facts of my life [...] I want an atmosphere of gentleness to drive / out the squalor of everyday existence [...] Heart, unquiet thing, / I don’t want to hate anymore. I want love / to trample through my arms again». La violenza vissuta in famiglia dal poeta è perciò diluita in poche immagini del padre ubriaco e della madre impotente e insensibile, ed è infine superata nel perdono. «Thank you, Mother and Father, for creating me», si legge in Self-Portrait in a Golden Kimono. In Powdered Milk, padre e figlio appaiono addirittura uniti come fratelli in un destino di solitudine («Solitude had made us her illegitimate sons»). Anche la sofferta presa di coscienza della sua omosessualità si risolve nella ricerca d’amore, nel cedere ai suoi desideri, come se la vita ricominciasse dalla sua dimensione più istintiva e terrestre in poesie dai raffinati tratti erotici: «tears fell from our hair, / as if from bent glistening sycanores. / It was as if Earth were taking us back»; «all I am is impulse and longing / pulled forward by the rope of your arm, / I, flesh-to-flesh, sating myself / on blurred odors of the soft black earth» (Blurr). Quel che colpisce è il timbro di questa voce austera che sembra provenire da molto lontano, dagli spazi siderali della mente, che reverbera distinta nel vuoto che la circonda, più a suo agio con il mondo minimo degli insetti e dei fiori, l’universo che popola queste poesie e che il poeta fa emergere coi suoi suoni e le sue voci facendolo reagire con un inconfondibile fondo di cultura e letteratura classica.

 

[Antonella Francini]


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