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« indietro In Zanzotto e le lingue altre, Semicerchio LXVIII, 2023, pp. 6-12.
Mallarmaud: Zanzotto tra i due poli di Mallarmé e Artaud di Valerio Magrelli
Premessa Questo intervento è diviso in tre parti: nella prima, individuo la presenza diretta, testuale, di Mallarmé in alcune poesie dell’autore italiano, per la precisione, quattordici (ma approfitto di questa indicazione per sottolineare sin d’ora che il mio sondaggio non ha nulla di sistematico o esaustivo); nella seconda, passo ad analizzare le sue prose critiche; nella terza, tento di stabilire alcune conclusioni, dopo aver cercato di sintonizzare la manopola dell’apparecchio radio zanzottiano sulla lunghezza d’onda del maestro francese – e qui il pensiero va alla struggente prosa con cui Yves Bonnefoy apre il suo Arrière-pays. Prima di procedere, vorrei però introdurre tre citazioni relative al tema degli influssi letterari. Inizio da quella, stringata, di Fernando Bandini: «L’accanimento dietro il modello avviene perché il poeta non ne scorge altri in grado di realizzare la sua idea della poesia, e quindi si vede costretto a introdurvisi come il paguro bernardo nella conchiglia ospite […] Ma quante cose Zanzotto introduceva in quella conchiglia!»[1] Il secondo rinvio riguarda Stefano Agosti (che ha consacrato molta parte del suo lavoro tanto a Mallarmé, quanto a Zanzotto), intento a osservare come il gesto decisivo, sotteso alla Beltà e a tutte le opere successive, consista nella rimozione di ogni paratia protettiva, così da scardinare le strutture della finzione (compresa quella del personaggio della prima persona), ponendo «il Soggetto in presa diretta nei confronti del linguaggio»[2]. Pochissimi poeti sarebbero stati in grado di compiere questa scelta di natura noètico-esistenziale, assumendo cioè il linguaggio a fondamento dell’essere: da un lato Rimbaud e Mallarmé, dall’altro, con conseguenze drammatiche, Hölderlin e Artaud. Dopo di che, Agosti commenta:
Possiamo anche chiederci se si sia trattato di un gesto compiuto autonomamente. Ma la domanda è sicuramente mal posta. Ogni esistenza è, sì individuale e singolare, ma essa è anche, almeno parzialmente, un’esistenza riflessa: vissuta nel contraccolpo che su di lei hanno esercitato altre esistenze, altre parole, altri saperi. Non vi è individuo […] che non sia stato trasformato, magari anche radicalmente, dalla parola di un poeta, dalla frase di un prosatore, dalle idee di un uomo della speculazione. Penso alla poesia di Mallarmé, alla pagina di Proust, alle rivelazioni, nell’ambito del conoscere, operate da Freud o da Lacan[3].
Fin qui Agosti sull’idea di esistenza riflessa, vissuta nel contraccolpo della presenza altrui. Quanto alla terza citazione, anch’essa centrata sulla descrizione del concetto di influenza letteraria (con o senza la relativa, debita angoscia), essa proviene direttamente da Zanzotto, in risposta a un quesito dello stesso Agosti. Quest’ultimo gli domandò se, componendo Senhal, fosse stato o meno a conoscenza del frammento mallarméano sulla «notion», edito da Jean-Pierre Richard nel 1964: «Me lo chiedo e glielo chiedo», aggiunge, «perché, oltre al tema generale della ‘quête’ dell’originario e dell’incontaminato nell’ambito del concetto, contiene straordinari punti di contatto, anche stilistici, col suo poema, di cui potrebbe essere adibito altresì ad ulteriore schema interpretativo»[4]. Ed ecco la risposta di Zanzotto:
Davvero mi giungono come una sorpresa, e quasi uno schiaffo, un’alapa [dal latino, “schiaffo”] che risveglia, questi stupendi versi di Mallarmé, che Stefano Agosti evoca alla fine del suo attentissimo e variegato discorso sul mio poemetto. No, posso dire di non aver mai conosciuto questi versi mallarmeani, che anticipano incredibilmente un’atmosfera generale solo oggi forse giunta al massimo della sua identificazione ed esplicazione. E penso che molti siano i poeti trovatisi, o che si troveranno, già spiazzati, o in orbita di avvicinamento anche loro, in relazione a questo piccolo straordinario sciame di asteroidi - sciame per così dire unitario - che fa parte del firmamento mallarmeano, di un coup de dés ininterrotto[5].
Che meraviglia, la definizione dei versi mallarmeani come piccolo straordinario sciame di asteroidi… Ma ciò che più mi interessa della replica, risiede nelle righe in cui Zanzotto illustra in maniera memorabile il proprio lavoro di appropriazione culturale, nel ben noto processo della contaminazione intertestuale:
[…] arriva da quei versi una confortante, dolce sensazione di unità che, quasi appartenente, inerente ad un sincronico “inconscio” poetico ed anche letterario, si ritesse avanti e indietro in un tempo che non è quello dei giorni e degli orologi. Così, tutti coloro che abbiano avuto certe esperienze poetiche, si trovano, grandi o piccoli, precedenti o successivi, entro una sola corrente profonda, rientrante in se stessa come l’omerico fiume Oceano, rapiti in essa, testimoni di essa, più o meno consapevolmente non importa. Né importano “plagi”, imitazioni, o altri tipi di contatti tra autori, che non sono mai casuali, mentre importa che vi sia questa communio, questa circolazione, questo dare e·ricevere, questo rubacchiare in una specie di ipnotica cleptomania, od arrivare a punti che possono essere contemporaneamente d’incontro e di scontro[6].
Approdiamo così alla magistrale conclusione: «Di tutto questo, ne Gli Sguardi i Fatti e Senhal v’è addirittura uno spreco, se si pensa alla brevità del testo, una ridda di minimi furti, in cui però la “cosa rubata”, la refurtiva è […] di scarso conto, o a tal punto è ridotta per dispersione, perdita. In questa consapevolezza (non sempre emergente, però) quando ho inviato a qualche amico il poemetto, al posto del © del copyright, ho aggiunto a mano “Nessun diritto è riservato: / magari da me si copiasse / tanto quanto dagli altri ho copiato” (con varianti...), e qui riconfermo tale mio punto di vista». Non mi soffermo oltre su questa mirabile, ipnotica cleptomania, per passare, come accennato, a una rapida lista di passi da cui emerge la presenza diretta, testuale di Mallarmé nei versi di Zanzotto. Cominciando da A che valse l’attesa del gioco? (da Versi giovanili, PPS p. 32), Stefano Dal Bianco nota che in Zanzotto, fra i più recidivi autori di riferimento, si segnalano Hölderlin e Leopardi. Se il primo è ancora soltanto orecchiato, il secondo, invece, risulta onnipresente, sin dal titolo retrospettivo A che valse?, che rinvierebbe da un lato al Canto notturno («a che vale al pastor la sua vita»), ma dall’altro anche a Salut di Mallarmé[7]). Proseguiamo con Bucolica (PPS p. 151), un testo di Vocativo introdotto da un esergo dei Sonetti a Orfeo di Rilke. Il passo evoca la «rosa», ha rilevato Andrea Cortellessa, «oggetto inesauribile»[8] che, mallarmeanamente, spande il suo profumo da un centro tanto luminoso quanto vuoto. È ora la volta di Bleu, da IX Ecloghe (PPS p. 261). una composizione, ha notato Pier Vincenzo Mengaldo, scritta in un raffinato francese post-simbolistico. Lo spunto, rileva ancora Dal Bianco, è parodico, e rinvia al «blu dipinto di blu» in Volare di Modugno, benché sia agevole notare anche la presenza di L’azur di Mallarmé (PPS p. 1482). Non per niente, Cortellessa ha evidenziato come in queste quartine si sigli con un sorriso «quella strepitosa capacità zanzottiana di sincretismo culturale che può frastornare, ancora oggi!, il lettore tradizionale di poesia»[9]. Basti pensare ai versi, di molto successivi, che convocheranno Celentano e Madonna. Passiamo poi a Proteine, proteine (PPS p. 390), amaro divertissement scatologico in cui, sempre secondo Dal Bianco, si coglierebbe una ricca serie di echi, da Parini a Plotino, da Pascoli a Eliot, da Heidegger a Dante, su su fino al Mallarmé del Tombeau de Charles Baudelaire (PPS p. 1545). È quindi la volta di un passo dalla Pasqua a Pieve di Soligo, tre distici dove, dopo aver dichiarato ormai fuori moda l’alessandrino baciato, l’autore osserva, corteggiando il verso martelliano:
Altre sono le forme che godono prestigio, soffia da esse il buio non l’argenteo del prodigio,
saetta il coup de dés che sconnette e scommette l’es e l’io, il tuo es e il tuo io, Dio, fuor dalle serie abbiette,
fuori volume, fuori cosa e cose, fuori furori e normule, in un parto che ogni suo alvo divori... (PPS 424)
Secondo Dal Bianco, al motivo della menzogna implicata nell’accettare la convenzione poetica, qui si opporrebbe la modalità più à la page, «fuori furori / e normule», che ritroviamo adottata, proprio in linea con il coup de dés mallarmeano, nella maggior parte dei testi di Pasque (PPS p. 1555). Stati maggiori contrapposti, loro piani, si apre invece con una strofa di versi a scalare:
Ed ero come riflesso o meglio fratto in ognuna delle facce di un cubo a quattro dimensioni di un lunapark formato a tesseract ma mai nella stessa positura ma mai nella stessa pastura mentale (PPS 567)
La nota di Zanzotto spiega: «Tesseract: tesseratto, cubo tetradimensionale» (PPS 646). Ho trovato online una réclame, The Rubik Tesseract, che mi autorizza a equiparare i due termini. Verso la metà della composizione, il medesimo nucleo tematico torna a riemergere:
Galatei-Poesie quali pure scomparizioni che mi lasciano solo come una meta I ˙ mai raggiunta, mai girata dalla biga infuocata (PPS 568)
Zanzotto commenta così: «Alla poesia come biga infuocata (il carro di Apollo) si sostituisce la poesia nella sua inerte materialità, un manufatto artigianale che però sarà in grado di riscattarsi in qualità di dado mallarméano. La quarta dimensione del cubo o tesseract è quella del tempo, della storia» (PPS 1585). E qui verrebbe davvero da pensare ai versi di Friedrich Schiller intitolati Gli dei della Grecia, dove al carro antropomorfico del Sole-Elio subentra una massa inerte, minerale, mera presenza astronomica. Infatti, l’explicit del testo, dopo una lunga strofa finale che fa riferimento alla Gerusalemme Liberata, suona:
Coup de dés tétradimensionnels HCliques arcs-en-ciel (PPS 568)
Questa la spiegazione, sempre in nota, del poeta: «HCl: si esagera ricordando che è il banale acido cloridrico, qui riconnesso al tema dello stomaco, della digestione?» In Pericoli d’incendi (PPS p. 573), il riferimento a Mallarmé può essere invece colto nell’ultimo verso - o penultimo, se si calcola quello, scritto a mano, che recita: “PROPRIETÀ PRIVATA” (PPS 575). Come rileva Dal Bianco, lo «scacco matto in sé e per sé» (PPS 575) ricorderebbe infatti il consueto Coup de dés. Pur senza presentare citazioni esplicite da Mallarmé, anche Reti (PPS p. 681) realizzerebbe, sempre secondo il critico, “un coup de dés irretito in una figuralità concreta, scandito dalle presenze novenarie e soprattutto dall’intervento percussivo delle cesure grafiche” (PPS p. 1627). In Soprammobili e gel (PPS p. 690), lo stesso studioso osserva come il «soprammobile» sia un carillon con l’aggravante della totale inanità: «Aboli bibelot d’inanité sonore». Nel tono dimesso, quasi crepuscolare del testo, lo pseudo-dialogo umano apparirebbe come un «parlottare» inutile sullo sfondo di una realtà incomprensibile e vaga, traslucida e ammassata come gel, cui fin dai primi versi verrebbe a contrapporsi, spiega Raffaele Manica, la «saldezza cristallina della memoria esterna all’individuo, la memoria delle cose» (PPS p. 1630). Meno visibile, ma non per questo meno convincente, il richiamo mallarmeano proposto da Agosti rispetto a Futuri semplici - o anteriori? (PPS p. 711), e a tutta la raccolta di Fosfeni in senso lato. Nella composizione, sarebbe lecito scorgere la messa in atto di una silenziosa deflagrazione dello spazio
in una miriade di spazialità, da quelle (minime) dei cristalli di ghiaccio e di neve, a quelle (massime) dei movimenti siderali: non per nulla il testo sembra accusare, in un punto, una tensione compositiva risolta in un incrociarsi e incatenarsi di distassie [incapacità a compiere dati movimenti; lo stesso di atassia, mancanza di coordinazione dei movimenti muscolari volontari, provocata da lesione del sistema nervoso], analoghe a quelle che articolano il Coup de dés mallarméano (PPS p. XLI).
Quanto a Mistieròi (PPS p. 782), la serie del 1979 intitolata ai piccoli, poveri mestieri, dedicata alle nonne di Zanzotto e ispirata alle incisioni di Zompini, per Dal Bianco ricorderebbe l’almanacco «L’amico di casa renano», del poeta dialettale tedesco Johann Peter Hebel (1760-1826), e Alla mia venerata nonna di Hölderlin, ma anche le Chansons bas di Mallarmé (PPS p. 814 e 1659). Arriviamo così alla raccolta Meteo, riguardo alla quale Agosti ha affermato:
[…] sembra che si passi dalla posizione cartesiana dell’Io penso, dell’Io parlo - magari ribaltata nel suo contrario, Io sono parlato - a una posizione che direi (metto anche qui le virgolette) di tipo «pascaliano»: l’Io non parla, e nemmeno è parlato, ma è piuttosto in posizione di ascolto o, al massimo, di interrogazione. Ascolto, interrogazione di che, di che cosa? Ebbene, di ascolto (o di interrogazione) del silenzio non dell’origine ma di ciò che è sempre stato, e che Mallarmé chiamava semplicemente la Natura: «La Nature a lieu, on n’y ajoutera pas» (la Natura ha luogo, non c’è niente da aggiungervi) (PPS p. XLV).
Ma di quale «natura» si tratta, in questi pseudo-hazku rivolti ai papaveri, ai topinambùr, alle vitalbe che appaiono in Meteo quasi fossero prove di auscultazione? Prosegue Agosti: «Come in Pascal ma anche come in Mallarmé, per questo nuovo, rinnovato Zanzotto la natura è il luogo, l’oggetto, la “Cosa” (direbbe Lacan) che rappresenta la dimensione del “fuori”, sempre intonsa pur nei mutamenti che le vengono inflitti. È la natura come materialità perenne, silenziosa, stratificata, da cui il Soggetto risulta radicalmente escluso» (PPS p. XLV-XLVI). Lo si verifica, per esempio, in Altri papaveri, che evoca Mallarmé già dal quarto verso, dove andrà ricordata la presenza puntiforme del papavero, che fa delle sue macchie colorate una sorta di punteggiatura del paesaggio, secondo quella logica della scansione mallarmeana su cui si è soffermata Jacqueline Risset[10]:
Fieri di una fierezza e foia barbara sovrabbondanti con ogni petalo rosso + rosso + rosso + rosso coup de dés maledetto sanguinose potenze dilaganti, quasi ognuno di voi a coprire un prato intero (PPS p. 833)
Venendo poi o a Colle, ala (PPS p. p. 836), va notato come la sua prima parte si presenti divisa in tre momenti. Nel primo, chiosa Dal Bianco, l’ombra protettiva delle colline traccerebbe una linea orizzontale (indicata come «ascissa»), sotto la quale, quasi per decreto di una maligna casualità, il cielo estivo sprofonderebbe definitivamente (PPS p. 1675). Ebbene, verso la metà della strofa iniziale le «avide / alee», con plurale aberrante, rimanderebbero al coup de dés appena rilevato in Altri papaveri. Infine, con Sere del dì festa siamo di nuovo di fronte a un’ipotesi formulata da Agosti, e non meno plausibile della precedente. Riferendosi al distico che suona: «Sera che scende da se stessa come / purissima immemore autoctonia del gelo» (PPS p. 867), il critico ha osservato come il suo soggetto porti inscritto su di sé, a guisa di epigrafe, «la notifica della propria assolutezza, autonomia ed estraneità», e tra parentesi aggiunge: «(una reminiscenza dell’Hérodiade mallarméana?)» (PPS p. XLVII).
II. Esaminiamo adesso quelle prose di Zanzotto dalle quali trapela il nome di Mallarmé. La prima è costituita da due passi dello studio Nei paraggi di Lacan, che non cessano di sorprendere per la loro potenza icastica. Ecco il primo, talmente audace da suonare provocatorio: «Nel cammino della psicanalisi, se in qualche modo Freud era stato il Rimbaud, Lacan poteva apparire come un Mallarmé, ma forse doppiato da un Bossuet autoparodico» – e qui dovrei precisare che il riferimento è al grande predicatore del Seicento francese, se non fosse che i rinvii si accavallano frenetici, e soltanto nel prossimo periodo appariranno riferimenti ai falansteri di Fourier, al capolavoro di Rabelais, e all’operetta satirica La nave dei folli , composta alla fine del XV secolo da Sebastian Brant e illustrata da Dürer. Ma riprendo la lettura. Prosegue Zanzotto:
Nella grande casa fourieriana della psicoanalisi, in quell’abbazia di Thelème, su quel Narrenschift, se Freud era l’autocomprendersi della nevrosi, Lacan era l’auto-comprendersi della psicosi. Se il primo, più che guarire, aveva giustificato o verbalizzato “la” (sua) nevrosi, il secondo aveva addirittura glorificato “la” (sua) psicosi, praticamente insediando un mancamento nel posto dell’ego, introducendo consistenze da dantesco Cielo della Luna nel punto focale dei paradisi dell’io (Io?). Convivevano però all’interno di questo atteggiamento le due divergenti tendenze a una scelta tra schizofrenia e paranoia quale psichismo-psicosi da privilegiare. C’erano le scelte tra due opposti modi di immaginarizzare l’io, che nel suo essere sovvertito, instabile, misero, reggeva peraltro entro se stesso le proiezioni di un inconscio ricco di una vita-violenza duplice: quella di supporto-cloaca di un rimosso originario e quella dell’abbattuto, acherontizzato ordine del simbolico (PPS p. 1214).
Certo, l’accostamento tra Freud e Rimbaud ci obbliga a un autentico stretching mentale, con la sua richiesta di dilatare la nostra capacità di comprensione fino all’estremo, per cercare di stabilire una qualche contiguità fra nomi distanti in maniera inaudita. Ma non è tutto, poiché il complesso ragionamento conduce a una pagina in cui Apollo, in quanto terapeuta, musagete e altro, viene descritto mentre distrugge progressivamente il proprio maquillage (tanto simile al concetto di fard in Mallarmé) per rivelarsi come Dioniso, «non si sa bene se travolto da risatine-singhiozzo alla Chaplin o se, nell’ultimo atto, crucifiixus alla Nietzsche. I testi di Lacan si avvicinavano sempre più a quelli di un Borges assatanato; un Mallarmé-Woody Allen continuava a esservi presente ma ridotto a fasci di iridescenze zen» (PPS p. 1215) - e qui non posso sottrarmi alla tentazione di coniare il mostruoso neologismo di un ‘Zenzotto’. Lo ammetto, sono costretto a confessare la mia scandalosa, addirittura blasfema predilezione per Zanzotto prosatore e saggista, a mio parere tra i massimi del dopoguerra, e non solo italiano. Ma mi rivolgo al successivo reperto delle prose, ossia Ipotesi intorno a “La città delle donne” di F. Fellini, dove la presenza di Mallarmé corre per così dire sottotraccia, come semplice accenno al già citato «aboli bibelot»:
L’ingordo fanciullo Fellini, tutto proteso alla manipolazione di oggetti, di materiali di ogni genere, di ciarpami, di lustrini, di bibelots da abolire o da rimontare, artigiano degli spiriti e di congegni in apparenza inutili, celibi, in un film come La città delle donne si porrà più che mai dalla parte in cui a forza di rimestare gli oggetti li si trasforma in macchine, le quali a loro volta partoriranno il dio. Un dio momentaneo, scintillante come una goccia di rugiada, gremito e torpido come un uovo, multiocchiuto e feroce come un riflettore da diecimila, onnipresente come nebbia in trascorrimento, in dissoluzione (PPS p. 1246).
Rispetto a questo breve ganglio concettuale (sia pur gremito e torpido come un uovo), ben più sostanzioso risulta il rinvio rintracciabile in Tra ombre di percezioni “fondanti” (appunti), con il suo tambureggiante e perentorio inizio:
Mi riferisco ad alcuni temi che sono stati una costante nella poesia del nostro secolo, ad atteggiamenti che si risolvono in almeno due linee fondamentali che hanno caratterizzato la poesia del Novecento, non solo italiano, e che comunque si riscontrano come un dato persistente. È una spaccatura che divide tra loro i poeti ma che divide anche interiormente molti di essi, in un gioco, o ritmo, o dramma assai complicato, in una scissione profonda, lacerante, o insuperabile addirittura, che continuamente scompare e riappare. Il primo atteggiamento si potrebbe certamente riferire, come a simbolo, al poeta in cui è assunto ed incarnato più che negli altri: è questo Artaud. Infatti egli è un vero crogiolo di esplosioni soffocate di una fisicità (prima che psichismo) per cui è quasi impossibile l’«ordinata» formazione di un dato stilistico in senso proprio (PPS p. 1338).
Amputo con dolore lo splendido prosieguo, per arrivare al secondo corno del dilemma:
Ma si diceva all’inizio che due sono i poli, o le linee del Novecento poetico che contrastano-convivono; esiste anche quello per cui al posto della negazione dello «stile», al posto del vischioso (lato Artaud, lato del superidiomatico, addirittura dell’autistico) ha determinante rilievo ed un primato la poesia-lingua percepita come qualche cosa che ha una assoluta vita propria, ricca di una totale autonomia, basata sul vigore del significante. […] È questa una linea che si potrebbe far risalire a Mallarmé. È vero che non sono contemporanei, Mallarmé e Artaud, ma non sono nemmeno così distanti nel tempo e comunque entrambi incarnano un diverso modo di essere della letteratura, della lingua, e infine dello «stile» (PPS p. 1341).
Dunque, al polo artaudiano del gorgo pre-significante, che crea significati e li rifiuta in continuazione, se ne oppone un altro in cui la creazione dello stile, divenuta primario obiettivo e «desomatizzandosi» sempre di più, genera quasi un mondo parallelo, destinato alla teorizzazione della poesia pura. Cito ancora:
Da un lato, quindi, una poesia sommamente impura e quasi gorgogliata, e ricadente in sé, dall’altro una poesia che è sempre più autonoma nel dare una spinta al sistema stilistico da essa elaborato. In questo secondo caso si crea un altro tipo di vortice: quello per cui le parole si richiamano fra di loro, s’incatenano e creano un «distacco» sempre maggiore, una specie di «stato supero» contrapposto ad uno «stato infero» del linguaggio, e del suo consistere con l’uomo. Ora si sa bene che queste due linee, che vanno chiaramente esplicitate anche perché c’è chi ha puntato tutto o sull’una o sull’altra, in realtà sono sempre intersecate e non c’è possibilità di scrivere senza rovesciamento dal polo infero al polo supero e viceversa. E Freud torna insistente con le sue originali proposte e soprattutto percezioni proprio su argomenti del genere (PPS p. 1342).
Si tratta del passo in cui Zanzotto cita l’epigrafe virgiliana della Traumdeutung: Flectere si nequeo Superos Acheronta movebo. Anche qui, sofferenti, tagliamo via la sequenza successiva, per arrivare al paragrafo in cui si sottolinea come, al polo implosivo, faccia da contraccolpo ultimo
una raggiera in cui la parola saliente dall’abisso (per rifarci ad una celebre espressione ungarettiana), elabora una propria vita, crea la sorpresa di un poema che sembra generarsi dalle parole stesse, al di fuori di quello che è un controllo dell’inconscio e del magma, anzi quasi affidato ad una super-coscienza, ad una armoniosa «autometafisica». Si pensa a Mallarmé, e forse, più ancora a Valéry, come estremi limiti di questa situazione (PPS p. 1343).
In un testo del genere (trascrizione di una conferenza tenuta a Bologna nel 1989), Zanzotto approfondisce l’interpretazione di Ungaretti già proposta al convegno di Urbino del 1979 (ora in Fantasie di avvicinamento), collocandolo in un campo di tensione rappresentato appunto da Artaud e Mallarmé quali estremi di una polarità tra corporeità e astrazione (l’osservazione è di Dal Bianco, PPS p. 1737). Altrove, egli svilupperà il medesimo concetto ribadendo che in uno «si trova il rifiuto di uscire dalla fisicità, dalla corporeità, cioè un continuo ricadere del dire/scrivere in se stesso»[11], scagliando sullo spettatore la «scena del corporeo […] secondo una modalità da chirurgia o addirittura da macelleria», mentre nell’altro abbiamo una spinta all’uscita totale, un’ansia di cancellazione mediante la «dissoluzione del corporeo nel verbale». Dice bene, però, Matilde Manara: «Il polo apollineo-mallarmeano e dionisiaco-artaudiano sono pensabili solo se complementari l’uno all’altro», esattamente come accadeva, nel 1978, «per bosco e galateo»[12]. Ma torniamo a Tra ombre di percezioni “fondanti” per la conclusione, allorquando, dopo essere tornato sulle «lallazioni e focomelie foniche» di Artaud, Zanzotto saluta con gioia
l’empatia enorme della percezione infantile, per cui certi stati d’animo, certe sensazioni di bellezza o di negatività e orrore ricevute nella prima infanzia restano poi per sempre come fecondi grumi attivanti all’interno dei vari «sistemi», stilistici e non, dei vari autori. Bifidi, ma poi ritornanti, alla fin fine, là dove tout se tient: se il «cupo» Artaud s’intenebrò del tutto con un tumore all’os inferum, il «puro» Mallarmé chiuse la sua vita nell’orrore dell’os superum, con uno spasmo della glottide (PPS p. 1346).
In tal modo, il sostantivo latino indicante la bocca (os-oris), viene chiamato a sigillare l’audace accostamento biografico. Zanzotto collega infatti il cancro al retto, che colpì l’uno, con il male alla laringe, che uccise l’altro. Concludiamo questo veloce esame delle prose zanzottiane relative alla presenza del maestro francese, rilevando, con Cortellessa, che il dispositivo antinomico della polarità Artaud-Mallarmé, brevettato a proposito di Ungaretti e diventato «la sigla di ogni attrazione critica zanzottiana»[13], verrà replicato a piacere nella produzione critica seriore del poeta di Soligo, con l’avvicendamento di «Rimbaud/Petrarca, Campana/Pascoli e – antinomia per eccellenza archetipica, ovviamente, della nostra tradizione – Dante/Petrarca».
III. Ho appena citato il recente studio di Cortellessa. Ora, l’esergo di Ernst Jünger con cui si apre il suo primo capitolo, recita: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione, conosce ben poco la nostra epoca»[14]. Ebbene, come descrivere meglio l’avventura intellettuale di Mallarmé, se non appunto collocandola sotto il segno della enorme potenza del niente? Come definire altrimenti, la sua scoperta di una teologia negativa, la crisi di Tournon e il conseguente approdo al nichilismo assoluto della «Fiction» e del «glorieux mensonge»? Il che, però, non risolve affatto la questione del suo rapporto con Zanzotto. Troppo diversi e distanti appaiono i due «ecosistemi» (ricorrendo a un termine proposto da Alessandro Piperno), per essere anche soltanto paragonati. Da un punto di vista di pura ricezione critica, potrei certo citare Bandini, secondo cui, in Zanzotto, le Alpi configurano un forte richiamo verso il Nord (mentre la fuga di Hölderlin è verso il Sud). Ciò costituirebbe «l’in più del poeta solighese nei confronti della precedente generazione, il suo distaccarsi dal nucleo latino-mediterraneo dentro il quale principalmente si muoveva l’esperienza degli ermetici, i quali amavano piuttosto Mallarmé e gli spagnoli» (PPS p. LXII) – a tale proposito viene spontaneo riandare alle critiche che Bonnefoy rivolse a Paul Valéry, accusato di cedere ai miraggi mediterranei, piuttosto che seguire i rigori di un settentrione mentale[15]. Del pari, stando a Cortellessa, l’«ermetismo» dello Zanzotto maturo nulla avrebbe a che fare con «l’araldica post-mallarmeana della scuola italiana, e anzi granducale, che di questa illustre insegna storica si è manualisticamente appropriata»[16]. Piuttosto, al di là del discorso sulle diverse linee di ricerca nate dalla lezione dell’autore di Igitur, mi sembra condivisibile questo bilancio complessivo suggerito sempre da Bandini: «La statura di Zanzotto si afferma nella molteplicità della sua esperienza linguistica, che si presenta come mixtum genus. Il poeta è l’“anti-Mallarmé” per eccellenza. Dove Mallarmé espunge, in cerca di un timbro puro e incontaminato, Zanzotto invece include. Il vino che egli ci offre è pieno di depositi sul fondo del bicchiere, e questo attesta la genuinità del suo vino» (PPS p. XCI). La feccia come prova di autenticità, dunque. Del resto, chi altri si è spinto fino a fondere lo spazio del paesaggio e quello della tecnica, la perlustrazione del veneto terricolo e quella dell’inconscio lacaniano, il genius loci e la nuova linguistica, Heidegger e Pollicino? Se questo è vero, allora potremmo dire, senza tema di smentite, che, da Vocativo a Meteo, l’orbita della scrittura zanzottiana vada, in definitiva, collocata sotto il segno di Artaud.
Note [1]Fernando Bandini, Zanzotto dalla «Heimat» al mondo, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori 1999, pp. LIV-LV (da ora in poi il volume zanzottiano sarà indicato come PPS, seguito dalla numerazione di pagine). [2]Stefano Agosti, L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, PPS p. XX. [3]Ivi, pp. XX-XXI. [4]Stefano Agosti, Un intervento su «Gli Sguardi i Fatti e Senhal», in Andrea Zanzotto, Gli Sguardi i Fatti e Senhal, con un intervento di Stefano Agosti e alcune osservazioni dell’Autore, Milano, Mondadori, 1990 (ora in PPS 1528). [5]Andrea Zanzotto, Alcune osservazioni dell’autore, in Gli Sguardi i Fatti e Senhal, cit. (ora in PPS pp. 1529-1530). [6]Ivi. [7]Stefano Dal Bianco, Profili dei libri e note alle poesie, in Andrea Zanzotto , Le poesie e prose scelte, cit. (PPS p. 1391). [8]Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto della terra, Roma, La terza, 2021, p. 178. [9]Ivi, p. 180. [10]Di fatto, Mallarmé rivoluziona il concetto di scansione tipografica immaginando una punteggiatura senza testo, «una specie di trace en creux, un movimento di pensiero che mantiene unicamente il proprio ritmo» (J. Risset, Il principio di contami nazione assoluta, in Apollinaire e l’avanguardia, a cura di P. A. Jannini, «Quaderni del Novecento francese», I, 1984, p. 78). [11]Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, a cura di G. M. Villalta, vol. I, Mondadori, Milano 2001, pp. 87-88. [12]Matilde Manara, Diplopie, sovrimpressioni. Poesia e critica in Andrea Zanzotto, Pisa, Pacini, 2021, pp. 131-132. [13]Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto della terra, cit., p. 166. [14]Ivi, p. 3. [15]Si vedano i contributi del «Bulletin des études valéryennes», n. 100, Septembre 2006 dal titolo Faut-il oublier Valéry?. [16]Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto della terra, cit., p. 116. ¬ top of page |
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