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Italo Testa, Se non sarò più mia, Fanna, Samuele Editore, 2024, pp. 41,€ 13,00.

 

Di norma, chi si occupa di poesia lirica – almeno in Europa, o da una prospettiva ancora continentale – deve misurarsi con l’ingombrante eredità di Hegel: per metterne a fuoco i limiti (Hamburger), riconoscerne i meriti (Mazzoni, benché On Modern Poetry sia un libro decisamente meno hegeliano, e non so se migliore, di Sulla poesia moderna), oppure assumerla come punto di partenza (Combe) per decostruire l’idea romantica di soggetto e soggettività delle Lezioni di estetica e proporre modelli nuovi, siano essi più attenti e aderenti al piano linguistico (Hempfer) o a quello più storico (Jackson) del genere lirico; tuttavia, al netto delle rispettive posizioni, chi si muove tra teoria e storia (e alcuni anche nei cantieri dell’ermeneutica moderna) tende a guardare a Hegel con uno sguardo aperto, mantenendo una tensione dialettica nei confronti di quella voce che prende parola quando uno scrittore decide di scrivere in versi (Brehm).

Italo Testa, per ora, non si è espresso in maniera teoretica ed estensiva sulla poesia lirica, anche se il suo saggio Teoria della poesia in una recente curatela di teoria della letteratura (2022) è piuttosto istruttivo in questa direzione. Se da un lato questo contributo sottolinea l’interesse speculativo di Testa nei confronti del genere lirico, la sua opera poetica non è da meno, e anzi rivela, almeno a parere di chi scrive, un atteggiamento profondamente hegeliano (che in qualche modo è inevitabilmente in dialogo con la produzione scientifica dell’autore): la poesia come Aufhebung, come movimento dialettico che tende al superamento di un binarismo in perenne conflitto, e che trova nella fase successiva il proprio momento realizzativo, in attesa che qualcosa sia chiamato ancora a muoversi, a confrontarsi, ad auto-distruggersi.

Tra il 2004 e il 2024, da Gli aspri inganni a Se non sarò più mia, i lettori di Testa hanno avuto a disposizione negli scaffai virtuali (e forse anche materiali, in qualche libreria indipendente) almeno dieci libri di poesia: stazioni di un movimento estetico che necessitano, quasi ontologicamente, di essere superate, riscritte e completate dalle raccolte successive. Se non sarò più mia non è da meno, dato che La divisione della gioia, uscito inizialmente nel 2010, per poi essere ristampato nel 2014 per le edizioni di Industria e Letteratura, è l’inizio, macrotestuale, dell’ultimo libro di Testa: come scrive l’autore nella Nota finale (nota che compare identica anche nella Divisione della gioia, p. 76), «le sezioni di questo libro costituiscono quattro nuovi capitoli del poema che occupa la parte centrale de La divisione della gioia e che, dopo la prima pubblicazione nel 2010, ha iniziato ad espandersi e continuerà ad accompagnarmi per il tempo a venire» (p. 40).

Quattro tappe, dunque: Tutti i volti (9-14), Più vicino (17-20), Dove non vedi, dove non sei (23-28) e L’amore si dividerà (31-37). Si tratta di un libro piuttosto omogeneo e strutturalmente bilanciato sul piano della forma, delle soluzioni metriche e della continuità tematico-forma nell’opera di Testa – opera che, come dicevo, mira a completare (difficile parlare di chiusura, per Testa) La divisone della gioia e quel sentimento di vuoto che occupava l’ultima pagina della raccolta: «e così, sbadatamente, continuo / a camminare per le strade, solo, / a fuggire, allarmato, dal tuo bene, // per rincasare, affranto, a sera, / scoprendo la felicità inattesa / delle tue piante ancora vive, e nuove» (75).

Lascio a chi si occupa di filologia, e di caccia all’intertesto e agli indici di macro-testualità, il mal-augurato compito di disegnare le trame compositive che legano e slegano le tesi e le antitesi di Testa. Diversamente, anche se il mio occhio non potrà di certo ignorare il paratesto di questa raccolta, vorrei concentrarmi su due dati che emergono come principî strutturanti in questo ultimo explicit (in divenire) di Testa: da una parte, il tempo, con le sue sfasature nello spazio della raccolta; dall’altra, il soggetto di enunciazione, con le sue maschere, i suoi doppioni e la sua ricerca di nuove parole (voci) e nuovi corpi (soggetti) che la rendono possibile nel mondo esterno.

Già dalle prime pagine del libro, il principio dell’hic et nunc, e dell’io come centro della poesia, sono sfumati: non è quasi mai chiaro chi parla nei testi di Testa – l’io, il tu e gli altri (spesso, “noi”), sono grammaticalmente e deitticamente pronunciati, spesso in maniera piuttosto esaustiva ed esposta nel layout della raccolta, eppure sembrano (desiderano?) confondersi a vicenda, come catene paradigmatiche (per sostituzione), divenendo per l’appunto «tutti i volti» (p. 9) del linguaggio, come vuole il titolo del primo canto della raccolta, e a de-personalizzarsi, per diventare a loro volta riflessi dello spazio che abitano: per esempio, una donna compare all’inizio del libro, svelandosi nella «trama che ci avvolge e inquieta», attraverso una serie di atti impersonali («si alza», «si agita», «si perde») e intransitivi («scende», «cammina»), dove solo lo sguardo (e non la parola) sembra essere in grado di creare una forma di contatto transitiva tra le persone («ti guarda»). Del resto, l’incipit del libro è declinato all’insegna di un movimento anaforicamente ipotetico («se», «se», «se»), con un’apodosi che non viene del tutto esplicitata nel suo lungo incedere, se non attraverso contorni impersonali e intransitivi – in ogni caso, indeterminati. Al polo opposto, invece, il soggetto lirico tenta di opporsi a questa condizione (della post-modernità), riconoscendo al suo interlocutore se non un ruolo decisivo, determinato, in questa logica dispersiva dell’esistenza, quantomeno un’identità definita secondo meccanismi di riconoscimento relazionali («sei tu, sei proprio tu», p. 10), senza che siano gli stessi meccanismi di riconoscimento, però declinati al plurale («i tuoi occhi chiari sono di tutti»), a strappare questa memoria al momento privato dell’io («noi, io e te», p. 11).

L’operazione di Testa, dichiarata immediatamente in apertura, è interessante e in controluce rispetto a una norma lirica, italiana, maggiormente legata alla disposizione classica del soggetto (anche nelle prose, nella prosa in prosa, nella poesia in prosa) e meno aperto al modello americano del long poem: il soggetto, infatti, non risponde a un’idea di uno e molteplice secondo una lettura canonica, conflittuale, dell’identità poetica (io lirico vs. io empirico) e delle sue tensioni estetico-ideologiche (singolarità vs. totalità, io vs. mondo), ma piuttosto a un conflitto tra l’io e le altre soggettività che abitano, simultaneamente, lo stesso spazio: «è successo, e accadrà ancora, / anche tu sarai una di loro, / abiterai una casa, vivrai / senza saperlo come chiunque / un giorno ti sveglierai all’alba / guarderai dalla porta aperta / le colline buie a mezzacosta» (pp. 19-20).

Perché, alla fine, chi dice io dovrebbe detenere il punto di vista sul mondo in termini assoluti? In questo senso, il plurale collettivo verbale («siamo», «generiamo», «ci perdiamo», «seguiamo», «dormiamo», «ci allontaniamo», «confessiamo») che attraversa senza soluzione di continuità l’intera raccolta restituisce questa idea di pluralità conflittuale contro l’egemonia conoscitiva, performativa e visiva del soggetto lirico: sono l’uno e il molteplice ad abitare mimeticamente lo stesso spazio, e a condividere dei valori culturali comuni (per lo più desiderativi) e a non accettare compromessi relazionali (cioè che sia solo l’io a essere se stesso, mentre gli altri, che lottano con l’io per essere nello spazio e nel tempo, siano disposti, o relegati, sullo sfondo del suo potere enunciativo): «sono questi gli spazi aperti / dove giriamo inquieti conversiamo / prendiamo le misure degli altri, / gridiamo al muro confessiamo / la nostra ombra, la pena muta / dei volti» (p. 25). Per questo, nella poesia di Italo Testa tutto parla ed esiste, e nessuno è in grado di eccedere (nel linguaggio e nell’esistenza), di soverchiare gli altri con la propria voce (e, per analogia, il proprio corpo) l’uno e gli altri («ora sei tu, o un’altra», p. 17; «quell’uomo», «quella donna», p. 19).

Anche a scorrere le pagine della raccolta, seguendone l’andamento ora narrativo, ora enigmatico, ciò che permane, nel testo, è lo spazio fisico (del libro) e urbano (dei luoghi giurisdizionali del contemporaneo: stazioni, autobus, strade, cortili, fiumi – o più semplicemente le ramificazioni sociali di una città, o i suoi riflessi nello schermo dei telefoni); e i tempi (dal mattino al pomeriggio fino alla sera) che vi corrispondono, o che meglio ne riflettono le tensioni («dove ti spogliavi in quel mattino», p. 18; «assorbiti nel buio della sala / i nostri pomeriggi in fuga», p. 24; «tornando dal buio siderale / a noi, a questa chiarità / diffusa, a questo smemorarsi / di abitudini, donne e uomini», p. 34). Con il tutto che, nel momento esatto dell’enunciazione e della descrizione, sembra contrarsi, stazione dopo stazione, e realizzarsi solo in uno stato ambiguità che coinvolge i «luoghi» e le «persone» che «li abitano», «lasciando tracce di colore, / vampe, scie, minimi segnali, // in questa ambiguità di cose / e di eventi che le attraversano, / le scompongono, le riducono / a increspature sul foglio del tempo» (p. 32).

Il «Tempo», scriveva Gozzano, «va mentre ch’io parlo»; una formula simile mi sembra che si adatti perfettamente alle forme narrative di Testa, che in un dialogo non richiesto con la tradizione italiana crepuscolare mostra una tensione altrettanto forte nei confronti di quelle strutture spazio-temporali della poesia che si slegano e si dislocano, oltre la lunghezza del verso, nella rappresentazione della vita interiore e dei suoi effetti nel mondo, nonché nella mimesi dei luoghi in cui si disperdono le tracce di coloro i quali sono in grado di abitare, e non solo attraversare, le soglie post-moderne che caratterizzano la nostra esistenza. Testa non è di certo un poeta crepuscolare (o neo-crepuscolare, come Giovanni Giudici e una buona corte di poeti del secondo Novecento), né un poeta americano che ha raccolto la grande tradizione del long poem (da Walt Whitman a John Ashbery), eppure sembra guardare a entrambe, al tentativo, lukàcsiano, di resistere al desiderio della prosa e di ritornare all’illusione della poesia epica – non tanto al suo ideale di perfezione greco, ma alla sua r-esistenza nel divenire plastico e reificato dell’arte e dell’esistenza, sospeso tra la poesia lirica e la prosa di finzione, come «figure [parole] scomparse nel tempo» (p. 26).

(Alberto Comparini)

 


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