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CRISTIANO POLETTI, Un altro che mi scrive, Marcos y Marcos, 2024, pp. 104, € 18,00.

 

La poesia di Cristiano Poletti è ricca di visioni, e non solo perché egli è anche un valente pittore: la sua poesia riesce a combinare, infatti, il massimo di astrazione con il massimo di visibilità. Nel libro precedente Un altro che ti scrive, Temporali (Marcos y Marcos 2019), già il titolo evidenziava, nella sua ambiguità – “temporali” intesi come fenomeni atmosferici, ma anche come elementi cronologici –, questa cifra dualistica che forse è la principale qualità dello stile dell’autore; allo stesso modo i luoghi, i famigliari e la voce poetica che li raffigura sembrano essere assediati dalla storia, quasi a creare un clima di arida claustrofobia, dove l’attesa dell’acqua dal cielo è una speranza di salvezza, individuale e collettiva.

Il nuovo libro va compreso a partire dalle tematiche del libro precedente per percepire come lo sfondo storico e cronologico si trasfigura qui progressivamente in una campitura sacra e apocalittica, uno sfondo rossastro e fulgido che ha come agente, e reagente, la presenza tangibile della morte, del corpo morto e del nero del lutto, insieme alla portata della memoria, anche collettiva. Questo passaggio riesce all’autore focalizzandosi sull’individuale, che però, come si evince dal titolo, è anche “altro”: alterità, singolare e collettiva, che interloquisce con il poeta, ma anche che agisce ponendo in essere il poeta tramite la sua voce altra. Perciò c’è sulla pagina una voce fuori campo in corsivo, in alto a sinistra, che accompagna i titoli delle sette sezioni: è una voce che dipana il filo di lana della storia. Nella prima voce emerge insieme al padre il ricordo dei lavori del passato attraverso le generazioni (il “filo di lana” della storia), a introdurre il tema della malattia paterna (sezione Dove tremiamo): è tangibile la presenza del corpo malato e morente, con però tutta la tradizione alle sue spalle («E l’uomo come un altro che ti scrive / ti dice: / veniamo da lontano certamente») e allo stesso tempo necessaria condizione per la nascita del poeta («Un salto nel sangue, crepa-madre») e della sua lingua, che diventa però afona davanti alla morte.

Nella sezione Di passaggio il tempo dell’attesa coincide con un movimento perenne di dispersione, che tuttavia, nella scrittura, viene fissato nei “quadri” dei tre testi iniziali («Ecco a te, figlio dello sguardo e del colore, / a te che non sei nel sonno delle parole»). Sotto l’egida della peste/epidemia evocata dalla voce iniziale, la passione cristologica raffigurata nella malattia paterna viene rievocata («Sono parole le mie per concludere: / concluso è l’orto e il fiato»), allargando il campo alla macro-dimensione della tradizione poetica, coincidente con la possibilità di un’apertura storica anche al futuro («passo portando il peso di una voce, / […] sapendo / che quella voce non è mia»). Questa voce, che appartiene e non appartiene al poeta – raffigurato nel profeta Samuele, il chiamato da Dio nel sonno –, traccia nella terza sezione una Biografia in breve di colui che viene chiamato «Cristiano», che «Sembra avere un continuo bisogno / di nascondersi», cioè di sfuggire al suo destino di poeta. È una biografia anche multipla, caratterizzata da un “noi” neotestamentario più che collettivo: questo “altro” è ora senza più nulla, senza neppure una casa, infatti, tuttavia sa ancora guardare leopardianamente la realtà con gli occhi dei molti, una realtà testimoniata come storia («Di tutte le figure del passato, / la più chiara alla mente, la più vera / è una lunga ringhiera col suo odore / di legno ed era guerra ed era dentro / la polvere di fine novecento»).

Siccome non si sa all’inizio di quale colpa, appena adombrata, sia colpevole questo “altro” («e di te / io sarei l’indifeso difensore, / mio spirito, catastrofe»), la sezione Risposte dei quadri appesi viene portata nel libro sotto la forma, quasi inquisitoria, di un botta e risposta, non in versi, rappresentato nell’alternanza di tondo e corsivo sulla pagina. Sono, questi, quattordici “quadri”, l’equivalente dei versi di un sonetto, divisi ognuno in due parti distinte: la difesa dell’“altro”, appunto, non può che essere un capovolgimento, dunque oltre che rispondere all’accusa, anche incarnarla (e in questo caso sembra che l’“altro” acquisti spessore diacronico), così come le “voci” possono accusare come rispondere. È in corso una sorta di dibattito tra la storia e le sue rappresentazioni, già fissate appunto in immagini, e la voce fluida del poeta, che interroga questa galleria immersa nel tempo e nello spazio. Come nel libro precedente, i barlumi di storia vengono presentati con le immagini, simboliche, della quotidianità («Ecco fuori una foglia, con su il carico della pioggia scesa, in casa una lampada e quattro candele, un fuoco e una foto, un piatto. Ecco il quadro»), pur sapendo che c’è un “nero” che aspetta in fondo e di fatto ciò che ora predomina è il vuoto dell’assenza. Si è quindi di fronte al paradosso che la storia non può mostrare se non un insieme di vuoti, anche e specialmente proprio nel momento in cui cerca di narrare, cioè di rappresentare con immagini, i fatti accaduti; allo stesso tempo, anche i luoghi e le vite vissute non sono che vuote immagini proiettate nel perenne nero del presente, laddove «c’è una parola ancora da dire, un disarmato amore e un nome ci richiamano», nonostante la morte del padre già avvenuta. In questo senso, risulta cruciale per il poeta mantenere lo sguardo, perché «La veduta si dà, la visione si costruisce».

La quinta sezione, Dalle Sefirot, è preceduta dal Quadro 14, l’ultimo e singolo della sezione precedente: qui colui che “Viene in una nube” è nientemeno che il Figlio dell’uomo così come lo prospetta il profeta Daniele. Si entra qui nel cuore dell’ebraismo apocalittico. Notoriamente, le Sefirot sono nella tradizione cabalistica il mondo dei nomi di Dio, le sue dieci emanazioni luminose. L’Albero delle Sefirot, con le radici nel cielo e la chioma verso la terra, narra il viaggio della luce divina verso la materia, e viceversa. La conoscenza dell’Albero comporta un discendere nelle radici della propria anima e allo stesso tempo un sollevarsi verso il cielo. Ma cielo e anima sono per il poeta, qui coincidente con il profeta (e più tardi con il “salmista” della sezione successiva), «il permanente», opposto alla transizione delle cose del mondo. Una radice comune, SFR, lega queste luci emanate «ai termini ‘libro’ (sefer), ‘computo’ (sefar) e ‘storia’ (sipur)». Le poesie, nel riproporre la disposizione binaria della sezione precedente, assurgono qui a una momentanea ricapitolazione dei tempi («Nel grande nero è la prima luce»), visione momentanea perché alla fine si ritorna «dopo tanta luce» al nero «nel respiro di un libro».

La penultima sezione, Alla fine, è una sorta di densissimo ritorno a casa fisico e linguistico, evidenziato da intere frasi in dialetto bergamasco. La presenza dei morti si evince dall’ossessivo canto notturno degli uccelli, non a caso evocato in dialetto, la lingua dell’origine. È qui che viene invocata la «Pasqua per questa lingua questi morti», che rende esplicita la metafora del libro scritto/corpo risorto, dove lo scriba si fa servus di queste invisibili presenze dei morti, che in vita hanno preso il giogo di Cristo su di loro, hanno picchiato «i ciócc cuntra l’aria» (i chiodi contro il vento). In questo ritorno, che è terrena ricapitolazione, viene a galla la succitata colpa del poeta: lasciare sullo sfondo «la sognante / casa infinita», in nome del vero rappresentando l’animale uomo, «portarlo tutto nel corpo del testo». La colpa è il materialismo intrinseco alla scrittura poetica. Ma i morti sono sepolti in pace in un giardino, mentre il Dio-folgore-tempesta ha spezzato la mente come un ramo e il legno come una rima: dunque, la rivelazione è catastrofica e allo stesso tempo generante la parola poetica. Anzi, per certi versi, la parola poetica è la reliquia di questa rivelazione e non ancora della divinità veniente.

La dimensione di ciò che è nascosto e invisibile, e che vive vicino all’uomo, si incarna metaforicamente nel densissimo poemetto America, nell’ultima sezione dove la storia si rivela per quello che è: qualcosa che si spezza e vira su sé stessa, seppellendosi. Vengono in mente i Paesaggi contaminati di Martin Pollack, quando il poeta si chiede cosa sia accaduto ad Elmira, cittadina dello stato di New York dove venne costruito un campo di detenzione per soldati sudisti, durante la guerra di Secessione; eppure la storia, tutta, appare come già redenta, essendo invisibile come ciò che pertiene al divino, anche nella forma della morte: «Ciò che è nascosto parla di noi. / Ciò che è sepolto parla con noi».

(Giovanna Frene)


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