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FABIO PUSTERLA, Fiumi nefrite vortici, Marcos y Marcos, Milano 2025, pp. 144, € 17,00.
 
Quello di Fiumi nefrite vortici, ultima di almeno dieci raccolte, è un Pusterla al suo meglio. Il libro è incisivo e sempre teso, a tratti infiammato (nefrite appunto), compatto anche grazie a una selezione più attenta dei testi – il numero di poesie è praticamente dimezzato rispetto alla media degli ultimi anni. Il picco di densità, pathos e inventiva si colloca – almeno per me – soprattutto nelle prime tre importanti sezioni. Si ritrovano direi tutti i tratti identitari delle raccolte migliori (le idee, i temi, l’impegno, la storia e le storie, le storie dei «senza storia», la lingua spuria e inclusiva, il plurilinguismo e il parlato o meglio i parlati, che sono la causa o l’effetto del brulichìo di voci che sale dai testi), cioè i tratti identitari di un poeta che ha reso importante la poesia italiana degli ultimi decenni e che ha visto formarsi quella che possiamo chiamare una ‘zona-Pusterla’ presso le giovani generazioni. Ho detto siritrovano. Pusterla è infatti un poeta ostinato, di fortiniane insistenze, è un poeta di lago direbbe il De Angelis di Poesia e destino («due o tre temi insistenti, sempre gli stessi»), ma è anche estremamente vario, capace di moltiplicare i suoi spunti e di rinnovarli e di farli diversi. Elenco dunque in sette paragrafi più o meno sintetici alcuni aspetti e punti di forza di Fiumi nefrite vortici.
Primo. Come in tutti i suoi libri, anche in questo la materia prima è la storia contemporanea, cioè come si legge a p. 29,il«molto male e poco bene» (il «tempo delle iene») di Ucraina, Gaza, migranti, nuovi fascismi fino giù giù alle miserie dell’affaire Ferragni (p. 76) e di altro ancora. A questo primo ‘cerchio’ si sovrappone e si intreccia, come la sua ovvia radice, il molto male del passato Novecento (nazismo e fascismo, le guerre, la campagna di Russia ecc.) visto, vissuto, patito attraverso i ricordi personali e le vecchie foto della famiglia Pusterla, che è il ‘terzo cerchio’. È soprattutto la madre (di una madre via via bambina, adolescente, moglie e madre) a tenere le fila dei racconti di sé e di altre figure parentali e a dialogare col figlio. I contenuti dei ‘racconti’ sono molto vari, non tutti sono tragici’, o meglio non tutti (quasi nessuno) parlano subito e direttamente e solo del molto male e di fascismo e nazismo e altre criminosità. Il male, la presenza e la sensazione del male entra di sbieco, da porte sempre diverse, spesso a sorpresa, alla fine. Come nella poesia che racconta dello ‘zio’ Amadio e dell’amore della sua vita («una donna di Torino»), e di come cucinava le lumache («burro aglio e prezzemolo, tempi di cottura», p. 32) ma che finisce con l’immagine inquietante di «un ferro arroventato nella pentola». È con questa varietà o multilateralità di contenuti, faits-divers, aneddoti, è in questa profusione di vicende particolari che Pusterla evita lo schematismo, l’astrazione, l’enfasi, il ditino alzato.
Secondo. Anche per le cose appena dette (diciamo la compresenza dei ‘tre cerchi’) si può dire che una delle strategie centrali e più sollecitate della poesia di Pusterla, e di questa raccolta naturalmente, è il montaggio. Pusterla tendespesso a sovrapporre, stratificare, mettere in relazione (nell’unità-libro o nell’unità-sequenza o nell’unità-testo) vite e destini diversi, diversi piani temporali, un fascio di storia e storie di ieri e di oggi, collettive o individuali, riconoscibili o anonime. Penso ad esempio al trittico (o a quello che possiamo pensare come un trittico) «Costa Vermiglia», «Costa Brava» e «Allée des naufragés», dove la morte tragica alla frontiera del poeta Antonio Machado richiama (è figura di) quella di Walter Benjamin a Portbou, che a sua volta richiama quella di tutte le «vite minime» di tutti i migranti senza nome morti di fronte a tutte le frontiere del mondo. Oppure penso ancora a«Costa brava», perché qui il destino di Benjamin entra dentro i sogni di una bambina, Gemma, la nipotina del poeta (nomen omen ovviamente) – che è qualcosa di molto simile a pezzi memorabili come «Visita notturna»in Cose senza storia (1994), che sovrappone i sogni della figlia Nina e la vita spezzata di una sua coetanea nel lager di Terezín, o come «Le prime fragole»in Folla sommersa (2004) dove il figlio è visto ‘insieme’ a una «bambina schiacciata da un panzer a Gaza».
Terzo. Un motivo o nervo concettuale importante di Fiumi nefrite vortici, forse più importante che in altri libri, è la memoria. La poesia è memoria, «senza parole una memoria / non può esistere» si legge a p. 20, ma è come fosse scritto in ogni pagina di questo libro. La poesia è custodia del rimosso o del ‘superato’ da una Storia che per inerzia per incuria o per programma sempre più dimentica e sempre più vuole dimenticare. Ed ecco allora la ragazza che all’esame non ricorda quando finisce la seconda guerra mondiale («che domanda stronza mi fai […] Il ’43, il ’45, cosa cambia?», Schizzo metropolitano), il nome di Anna Frank rimosso dall’intitolazione di una scuola dell’infanzia in Germania (p. 74), un comune italiano che non vuole dedicare una sua via a Sandro Pertini (p. 75): tutte ‘amnesie’ che spianano la strada al ritorno dei nuovi fascismi. «La storia insegna ma non ha scolari» sono parole di Gramsci ma ce le ripete questo libro, che invece ricorda tutto, legge tutto e «prende nota di tutto» per riusare un verso di Argéman (2014).
Quarto. Come al solito Pusterla è insieme diretto e allegorico e figurale, quindi potente. Le parole del profeta Isaia, «Viene il mattino, e anche la notte», riportate sulla soglia del libro (e doppiate da quelle che danno il titolo alla seconda sezione – «A che punto è la notte») fissano già il sistema delle opposizioni profonde del libro, tra buio e luce, male e bene, fine e inizio e altri contrari. La pars negativa è inevitabilmente preponderante(«poco bene e molto male» appunto) e prende, soprattutto, le forme proprie e metaforiche di un pianeta sempre più sporco e disfatto, ritratto a tinte sempre più espressionisticamente cupe, abitato da un bestiario quantomai sinistro e repellente (ragni, serpenti, vespe, pipistrelli, topi). Nella raccolta c’è pertanto disseminazione di lemmi chiave come caligine (v. il bellissimo «la caligine / si è sdraiata per sempre sul mondo», a p. 38), fango e fanghiglie, piscio, merda, bitume, acque luride, rifiuti, cenere e così via. Si sarà poi capito che i fiumi di questo Pusterla (v. la poesia «Fiumi nefrite»nelle prime pagine) non sono mai limpidi e anzi contestano-rovesciano letteralmente quelli ungarettiani, con frecciate dirette in «Fiumi nefrite»(«dolina» e un elenco di fiumi) e nella seconda delle «Cronache ingloriose»(«Questo è il Serchio» a p. 75). Non per niente una sezione si intitola «Sinfonia del fango», sintagma estrapolato da un brano di Arthur Köestler posto in epigrafe a p. 71, ma che a mio avviso allude o può essere avvicinato al famoso saggio zanzottiano su Montale del 1953, L’inno nel fango, dove il fango è il fango, il disfacimento, il distrutto e l’inno è la poesia, cioè – diciamolo con parole semplici – il positivo in extremis, la luce in fondo al tunnel, il rifiorire inaspettato e improbabile. Con tutte le limitazioni del caso («Se un canto esiste non è più per noi» si legge a p. 110)la reciprocità dialettica fango-inno è intrinseca anche in Fiumi, nefrite vortici, nei cui testi ritroviamo (quanto basta e in modi sempre variati) la logica degli eppure e dei ma leopardiani-montaliani che nel finale (in finali spesso enfatizzati dallo staccato strofico) aprono a una paradossale e risicata ipotesi di speranza, tipo: «Ma forse sopravvivono là sotto / e almeno loro sapranno rifiorire» («Giallo, frane, belle di notte»); oppure: «Ma il bagliore / in fondo alla pianura // Basta poco, anche solo un miraggio, per riaccendere» (p. 118), eccetera.
Quinto.Mi sembra che in questa raccolta funzioni benissimo l’alternanza tra due tipologie di testi nettamente diverse nella veste formale e nel tono. Quelli (opportunamente pochi) del primo tipo (cfr. pp. 29, 41, 43, 44, 49) sono poesie tendenzialmente brevi, ma soprattutto scandite more geometrico in strofette uguali, quasi sempre distici, con rime facili e in versetti cantabili (ottonari, novenari), come ad esempio: «Occidente decadente / dove il sole va a morire. // Qui la luce si sprofonda / ogni cosa va a finire» (p. 41), oppure «Io vorrei che i sassolini / fosser tutti zuccherini // che piovesser dalle stelle / gianduiotti e caramelle». (p. 49). Nell’economia del macrotesto funzionano come cambi di tono, variazioni canzonetta o filastrocca,rispetto al continuum dei testi dell’altro tipo: poesie mediamente più ampie, stroficamente irregolari e dalla testualità complessa, con versi piuttosto lunghi e tendenti alla ‘prosa’ di cui l’esempio perfetto è «Matteottihof». Tale alternanza e coesistenza tra i due tipi testuali fa sì che il libro risulti un campo di forze divergenti per tono, velocità e agogica. E faccio notare che anche nei testi del primo tipo, la loro forma apparentemente ‘leggera’ può venire contraddetta da un contenuto al contrario ansiogeno e perturbante, come in questa sorta di frammento di favola horror o rintocco lugubre ricorrente nel libro (pp. 18 e 43): «Non andare nel bosco nero / non andare nel bosco scuro».
Sesto.Fiumi nefrite vortici si avvale di tutta quella tavolozza di colores linguistici e retorici che ha reso, raccolta dopo raccolta, inconfondibile la poesia di Pusterla e un grande esempio di poesia dopo la lirica. C’è tutto: la paratassi coupée e saccadée, gli asindeti ‘esagerati’ («La bambina è: mia madre. / L’anno è: 1929. / Tutto il resto è: mistero», Vortice), la sintassi nominale asciuttissima come ai tempi di Bocksten. Così ad esempio inizia «Dalle terre alte»: «Quel che per ora non c’è: scoiattolo, lepre, coniglio. // Uccelli, invece, molti piccoli uccelli»; e così finisce: «Vasto movimento di nuvole, a terra molti fiori». E c’è poi tutta la lingua del parlato, della voce dell’io o delle voci altrui in presa diretta, «volutamente scomposte e frammentarie» (come ci dice l’autore in una nota), voci che spesso aprono ex abrupto i testi e talvolta non li lasciano sino alla fine. Attacchi come: «Tornano, certo che tornano, / non se ne sono mai andati.» («Altro giro di vortice»), «Questo no questo davvero non è / l’Aventino …» («Matteottihof»), «No, io non l’ho mai vista. Si chiamava Pierrette» (p. 46) e così via. E poi, ancora, la diffusione capillare di parole e tratti del dubbio, del pressapoco, incaricati di opacizzare e sfocare il dato o il ricordo come in molta poesia montaliana e ‘anni Sessanta’. Intendo i tanti forse («forse il cortile / enorme del Matteottihof / forse un altro ….», «Matteottihof»), i non so, gli indeterminativi magari in combinazione con le marche disgiuntive («certe piazze di Milano / o altri luoghi …», p. 39) o modalità epistemiche del genere di «si chiamava Pierrette, mi sembra»(p. 46), «in Cirenaica, credo» (p. 33), fino all’incertezza del ricordo di sé medesimo bambino (ancora la memoria!): «Sono io in calzoncini e canottiera / sopra una bicicletta? …» («Via Pasteur, 1965»).
Sette. Dopo quarant’anni di poesie (l’esordio nel 1985 con Concessione all’inverno), e tanto più in un poeta – come si diceva – di fortiniane insistenze, per i lettori fedeli la poesia di Pusterla diventa come una Heimat, un luogo che si conosce e (ci) si riconosce, dove ci sono personaggi e immagini che reincontrare è bello ed emozionante. Echi di Pusterla in Pusterla insomma. Per esempio, nel «pettirosso […] che fruga / col becco gli interstizi e cerca cibo» di Fiumi nefrite e vortice (nella poesia «Sul Garda, lungolago») io ritrovo appena mutata la «volpe tra i binari […] che cerca qualcosa, / forse niente» di «Zurigo HB»(di Corpo stellare 2010), e ritrovo il loro archetipo, cioè l’«ultimo piccione» di «Sabato a Sintra»(Le cose senza storia). Oppure non posso non pensare che l’«airone dell’alba» del testo che apre il nostro libro non sia uno dei due aironi di Folla sommersa (1999). Sono clic che possono scattare anche da imput meno ‘pieni’, perché talvolta basta un semplice sintagma come il‘qualcosa che/di’ di «Dall’alto giungono a volte clangori / qualcosa che sferraglia» (p. 90, corsivo mio) a farmi ricordare immediatamente «… Erano padre, madre  / qualcosa di perduto …» («Cani I», Corpo stellare), oppure «Qualcosa di rimosso, l’orrore non scordato» («Belgrado, palazzi sventrati, tenda», Argéman), e a riportarmi infine a quel bellissimo, indimenticabile, ritratto di «Carlo»in Le cose senza storia: «… E poi il sorriso / e un modo di guardare: vento, cigno, / qualcosa di sconvolto. …».
                                                                                                                                    (Andrea Afribo)

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