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RICCARDO SOCCI, Al risveglio c’è un lenzuolo, Firenze, Le Lettere, 2025, pp. 88, € 12,00.

 

Riccardo Socci, già autore di una bella raccolta poetica (Lo stato della materia, Arcipelago itaca 2020) e di un’importante monografia sulla poesia contemporanea (Modi di deindividuazione. Il soggetto nella lirica italiana di fine Novecento, Mimesis, 2022), ha da poco pubblicato un nuovo libro di versi, dal titolo evocativo quanto enigmatico: Al risveglio c’è un lenzuolo. Da che cosa ci si risveglia? Qual è il senso della presenza di un lenzuolo? Insomma, qual è l’argomento del libro? Viene in soccorso la convincente Prefazione (pp. 5-8) di Claudia Crocco, che prepara con estrema chiarezza l’orizzonte di attesa del lettore: «Al risveglio c’è un lenzuolo è un libro sulla morte, sulla malattia, sul tempo: anche solo per questo, vale la pena leggerlo» (p. 5). Si potrebbero aggiungere alla lista anche temi come la famiglia, la disabilità, l’eros, la crescita e l’invecchiamento, la memoria. Sappiamo, dunque, quali nodi tematici affronterà la raccolta, e i titoli delle sette sezioni, ciascuna formata a sua volta da sette componimenti anepigrafi, confermano, in parte, queste aspettative: Al risveglio c’è un lenzuolo, Un cane che gira su sé stesso, Tunnel della risonanza, Una parete enorme e bianca, Quante cose sono nuove, Casa senza barriere, Finché niente accade. Se sappiamo di che cosa si parla, sappiamo invece di chi si parla? È qui che le cose si fanno più complicate e uno sguardo più globale sull’opera di Socci permette di comprendere alcune coordinate della sua ricerca espressiva.

Sin troppo facile sarebbe leggere in chiave autoreferenziale i saggi critici di un autore per proiettarli sulla sua pratica poetica; eppure, l’operazione, in questo caso, è tutt’altro che peregrina. Nella sua monografia sulla lirica italiana di fine Novecento, infatti, Socci descrive una tendenza alla «deindividuazione» dell’io poetico negli autori da lui studiati, cioè l’adozione di vari meccanismi enunciativi che eludono il soggetto, lo sfumano e lo ridimensionano. Difficile non vedere un simile procedimento già all’opera nella sua prima raccolta, Lo stato della materia, in cui il soggetto sembra spesso laterale, discreto, se non addirittura assente – alla maniera, quasi, del primo Fiori. Questa eclissi, o meglio «deindividuazione», funziona bene, mostrando che Socci è in grado di costruire un io pienamente contemporaneo, senza però astenersi dall’espressione lirica del soggetto. Senza rinunciare, quindi, a portare in scena il vissuto, l’interiorità di un individuo e il suo rapporto col mondo da un punto preciso nello spazio, nel tempo e nella lingua. Tuttavia, in Al risveglio c’è un lenzuolo il poeta sembra puntare a un traguardo ancora più ambizioso, spingendo la propria ricerca in nuovi territori. L’io non risulta eclissato, ma contaminato, ibridato, ambiguo. Crocco nota acutamente una somiglianza con poeti «che hanno sperimentato l’alternanza fra prima e terza persona» (p. 8), intuizione confermata da un passaggio metapoetico del libro, che recita: «parla di sé in terza persona / e il racconto acquisisce un livello ulteriore di senso / nei ricordi di chi lo ascolta» (p. 66). Eppure, a ben vedere, per “deinvidualizzarsi” l’autore non applica un semplice slittamento pronominale, ma una vera e propria rete di strategie di ambiguità referenziale. I pronomi di prima e terza persona sono in realtà porosi, come porose le identità fra malato e caregiver, osservato e osservatore – riprendendo le due categorie implicitamente esposte dall’esergo di Trevisan scelto da Socci: «è triste essere un osservatore, rende malinconici. E viceversa». Il punto di vista enunciativo sembra, infatti, porsi a egual distanza fra soggetto e oggetto: al centro vi sono esperienza e percezione, senza frontiere nette di individualità, come forse insegna, prima ancora della lirica di fine Novecento, la scrittura di Amelia Rosselli. La chiave di lettura è in quel bellissimo avverbio: «viceversa».

Si comprende meglio, così, l’insieme delle strategie dell’ambiguità che dipendono da questa precisa ricerca espressiva. Queste possono essere l’evocazione onirica (la sfera semantica del sogno è d’altronde ben presente), la presenza di personaggi dai contorni vaghi e assolutizzanti («l’uomo», «la donna», «il figlio», «il fratello», «il poeta», «la mamma», ecc.), lo sfasamento temporale intra ed extradiegetico e la frammentazione memoriale (la narrazione è perlopiù al presente, ma il presente non è univoco né progressivo su una linea del tempo). Queste forme dell’ambiguità referenziale, tuttavia, collidono con l’estrema precisione semantica del racconto del vissuto, poiché luoghi, oggetti, esperienze e sensazioni sono nominati senza filtri di sublimazione o di elevazione metaforica. Questa accuratezza è ben visibile nel campo della malattia, per cui sintomi, farmaci, dispositivi medici e particolari anatomici sono inseriti a pieno titolo nel dettato. Argomenti e linguaggi delle scienze sperimentali, peraltro, non sono una novità nella scrittura di Socci, basti pensare ai frequenti elementi scientifici presenti nello Stato della materia. Se nel primo libro, tuttavia, questi inserti creavano una stridente frizione con il piano della realtà descritta, in Al risveglio c’è un lenzuolo la scienza, soprattutto medica, entra a far parte più organicamente del tessuto linguistico e referenziale. Indeterminatezza e accuratezza, dunque: l’ambiguità non erode il confine fra verità e finzione, ma le frontiere tra persona e personaggio, tra identità e identificazione. Il soggetto riesce a raccontare la “propria” (in senso allargato) esperienza, senza scivolare nelle due trappole opposte, cioè il kitsch del racconto che indugia nel pathos autobiografico e la freddezza cerebrale del racconto ultra-alienato che elimina l’ethos personale.

Socci, con questa raccolta, sembra aver raggiunto una calibrata maturità che lo ha portato a confrontarsi con topoi eterni della lirica – morte, malattia, ecc. –, andando però a toccare temi estremamente attuali per la nostra sensibilità e per le sfide che vengono poste alle società occidentali contemporanee: la disabilità, la cura, la medicalizzazione del bios, lo spazio laico del lutto. Inoltre, la messa in scrittura di un vissuto che entra in contatto e rielabora tali questioni non cede a scorciatoie espressive scontate o à la page. Socci costruisce un linguaggio proprio, unendo, come detto, ambiguità focale e accuratezza semantica in una versificazione che procede lenta e riflessiva, come una colata lavica sulla pagina. Versi lunghi, frasi ampie e sviluppate, interpunzioni minime, senza però creare effetti di accumulo o dilatazione. Il fraseggio sembra seguire la sintassi del pensiero ma non vuole mimarlo trasformandosi in monologo interiore o flusso di coscienza. Lo sguardo si posa sulle cose, le nomina, le attraversa, ne è attraversato: ricorda. Spostandoci su un altro livello di lettura, la scrittura sempre rigorosamente monostrofica, sembra chiudersi claustrofobicamente su sé stessa, procedendo allo stesso tempo con una sintassi talvolta sghemba e brusca. Claustrofobico e dalla deambulazione incerta, lo stile riflette, in effetti, due eventi sanitari cruciali, uno pubblico – la pandemia di covid-19 e i vari lockdown –, l’altro privato – la sclerosi multipla del personaggio principale. Anche lo stile vuole esprimere gli effetti della medicalizzazione, non solo sul piano semantico, ma anche su quello più sfuggente del ritmo del pensiero e dell’esistenza.

Si è già notato che alla coerenza strutturale fondata sul numero sette – il numero dei giorni? del tempo che scorre e si ripete ingabbiato nelle scansioni collettive? – si contrappone l’ambiguità referenziale delle istanze osservate/osservanti. Ebbene, tale contrasto influenza anche il sistema simbolico del libro? Potremmo dire che la coerenza risiede ancora una volta nell’ambiguità, in tale caso dell’elemento simbolico centrale, il lenzuolo, che riesce a essere allo stesso tempo un sudario, figurazione della morte («il lenzuolo azzurro e sotto la mamma», p. 81) e della malattia che avviluppa il corpo («nel tubo della risonanza c’è un corpo nudo / con sopra un camice azzurro che sembra un lenzuolo», p. 39, «dal corpo appiattito sotto al lenzuolo bianco / di un ospedale», p. 48); ma anche un velo di protezione per l’intimità vitale dell’interiorità («sotto il lenzuolo si rinnova il respiro, c’è un albero di giuggiole / di fronte all’ingresso protegge gli abitanti della casa», p. 29) e dell’autoerotismo («si masturba sotto il lenzuolo al riparo / dall’aria condizionata», p. 19); nonché la purezza della volta celeste («perché il fumo sporchi / questo cielo azzurro come un lenzuolo», p. 77). O forse si tratta, proseguendo nella lettura dell’ambiguità, di una figurazione proprio della polisemia, in quanto leggero velo, sottile discrimine fra il sogno e la veglia, con l’immensa connotazione metaforica che questi due poli opposti portano con sé. Il lenzuolo, in effetti, come sottolineato dal titolo stesso del libro, è ciò che gli occhi incontrano al risveglio. Così anche in un passaggio poetico eponimo, carico di significato: «al risveglio c’è un lenzuolo azzurro / steso di fuori, l’aria lo gonfia come in un quadro. / Dietro la finestra puoi vederlo soffrire, non c’è relazione / fra il vento nel lenzuolo e gli impulsi che passano tra i suoi neuroni / e costruiscono il sogno» (p. 21). Il lenzuolo, labile frontiera fra ciò che resta di queste identità diffuse, sventola, protegge e nasconde, nel suo essere un diaframma fra osservatore e osservato, occupando quello spazio del “viceversa” su cui il libro intero si impernia.

Al risveglio c’è un lenzuolo, per concludere, riesce nel suo intento di proporre una voce matura e originale, capace di affrontare temi antichi e nuovi, di parlare una lingua ben calibrata e di esprimere con intelligenza e complessità uno sguardo riflessivo su di sé e sul mondo, mediato ma non artefatto, in una parola: autentico. Se «morire è questo / diventare sempre più piccolo nelle fronti / delle persone», questa voce poetica – pur nella sua ambiguità e deindividuazione come scelta poetica – è viva e, speriamo, destinata a rimanere.

                                                                                                                           (Andrea Bongiorno)


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