« indietro BREVE NOTA SU ZAR-FANCIULLA DI MARINA CVETA
di Marilena Rea
Marina Cvetaeva scrisse il poema Car’-devica (Zar-fanciulla) nel 1920 a Mosca, ed è datato «1 luglio – 4 settembre (vecchio calendario)». Il poema, che fu pubblicato per la prima volta nel 1922 a Mosca (GIZ), e nello stesso anno per la seconda volta a Berlino («Epocha»), consta di 3032 versi e porta il sottotitolo di «poema-skazka», cioè «fiaba in versi»: Zar-fanciulla è infatti una riscrittura delle due fiabe popolari russe omonime, la 232 e la 233 della raccolta Narodnye russkie skazki curata da Afanas’ev.
Della fiaba, tuttavia, Marina Cvetaeva prende solo la struttura («Scoprire l’essenza della favola, di cui la tradizione dà solo lo scheletro. Sciogliere dall’incantesimo la favola», scriverà l’autrice a proposito di un altro poema fiabesco, Il Prode). Zar-fanciulla è quindi una fusione di molti motivi folclorici, in cui si incastonano tratti delle fiabe popolari e di quelle letterarie elaborate soprattutto da Puškin; a motivi che rievocano, inoltre, le byliny (canti epici russi) si affiancano richiami a opere letterarie moderne, in vario modo rivisitate in altre opere: l’Amleto di Shakespeare, Famira-Kifared di Annenskij, le liriche di Heine.
Il poema non ripropone dunque il solo racconto fiabesco, ma si presenta come una complessa tramatura in cui spiccano temi cari a Marina Cvetaeva, quelli che accompagneranno tutta la sua produzione poetica: il mito di Fedra e Ippolito e quello di Sibilla e Apollo, le storie bibliche di Giuseppe e la moglie di Putifarre, di David e Saul e infine di Salomé e Giovanni.
Alla grande ricchezza tematica del poema fa riscontro una sapiente costruzione polifonica delle voci e una estrema ricercatezza di linguaggio: Marina Cvetaeva predilige infatti la moltiplicazione delle radici verbali che, attraverso la variazione di prefissi e suffissi, crea una amplificazione sonora vorticosa e martellante e una fitta concatenazione semantica che sfrutta la grande duttilità della lingua russa.
Annotazioni sul poema e sul testo tradotto
Il poema è così strutturato: nel preludio si anticipano i temi che verranno narrati secondo la tecnica tradizionale usata dal cantastorie; nella Notte Prima, la matrigna, visto il rifiuto che il suo figliastro – lo Zarevič – oppone alle sue profferte d’amore, ricorre al vecchio tutore, che con una spilla insanguinata affatturerà lo Zarevič facendolo cadere in un sonno profondo ogni volta che gli si avvicinerà Zar-fanciulla; nell’Incontro Primo il canto del debole e malfermo Zarevič arriva fino al regno lontano di Zar-fanciulla (la possente guerriera che ama la lotta e disdegna l’amore) e la farà innamorare. Zar-fanciulla lascia il suo esercito e il suo cavallo, si avvia per mare sul rosso veliero per cercare il ragazzo, ma appena l’incontro tra i due si fa imminente, lo Zarevič sprofonda nel sonno per effetto della spilla. Zar-fanciulla tenta di svegliarlo, lo chiama, lo carezza, e, prima di rinunciare, gli dà un bacio che resta impresso sulla fronte dello Zarevič come un cerchio rosso.
Nella Notte Seconda (qui tradotta) entra in scena il vecchio Zar ubriacone, personificazione della potenza distruttrice e del regno ctonio in cui abita. In un trionfo di colore rosso (della porpora, del vino, del sangue, del diavolo), lo Zar è espressione grottesca dell’ingordigia sanguinaria di chi detiene il potere. Quando l’attenzione si sposta sulla matrigna, la voce narrante allestisce un dialogo immaginario con la sua anima (di natura maschile), con cui intraprende il viaggio attraverso le sei stanze, come attraverso una struttura a scatole cinesi, che precedono quella della Zarina. Ma l’ultima stanza risulta vuota, perché la giovane donna è scappata sulla torre dove incontrerà lo Zarevič. I due litigano, la matrigna – dalle trecce-serpenti – minaccia di buttarsi dalla torre ma lo Zarevič riesce a salvarla. Arriva il vecchio tutore (trasformato in gufo-civetta) a riscuotere il pegno del suo lavoro, cioè i favori sessuali della donna.
Nell’Incontro Secondo (tradotto), lo Zarevič si sveglia fortificato (dal bacio impresso da Zar-fanciulla che continua a bruciare sulla fronte). Lui si allontana per mare, mentre dall’alto della torre lo spia la matrigna. Raggiunto dal vecchio-gufo, lo Zarevič canta con la gusla la sua inettitudine e le sue origini lunari... Zar-fanciulla riesce a captare il suono, torna dal giovine ma lo trova di nuovo addormentato per effetto della spilla magica. La possente guerriera, alter ego del bogatyr’ (eroe epico russo) oltre che simbolo del sole (tutto in lei brilla e brucia di una fiamma rossa), non riesce a rompere l’incantesimo e infine piange sull’amato addormentato: il suo pianto è resina che stilla da una quercia, è acqua di una roccia di ghiaccio. Lei promette di ritornare un’ultima volta; quando è ormai lontana, lo Zarevič si sveglia e racconta al vecchio il suo sogno (una trasposizione simbolica dell’incontro mancato con Zar-fanciulla).
Il poema prosegue con la Notte Terza, in cui lo Zar inneggia alla distruzione del regno e celebra con fiumi di vino il matrimonio della giovane moglie – che ha danzato per lui – e dello Zarevič. Nell’Incontro Terzo e ultimo si ripete il non-incontro tra Zar-fanciulla e Zarevič: lui è inesorabilmente vittima del maleficio del sonno, allora la vergine guerriera gli lascia una lettera di addio e si strappa il cuore per porre fine al suo tormento d’amore. Svegliatosi, il giovane legge la lettera e vede nel cielo il riflesso della tragica fine della fanciulla. Muore gettandosi in mare. Muoiono anche la matrigna (Notte Ultima), scaraventata dal vento da altezze vertiginose, e lo Zar, dilaniato dalla furia del popolo affamato (Fine).
Da Zar-fanciulla di Marina Cvetaeva Siede lo Zar nelle viscere della terra, l’umido baffo stuzzica, sbircia d’intorno – cos’altro sbevucchiare? Glu-glu glu-glu, già mezzo regno s’è bevuto! Ma gli sembra di potersi qualcos’altro scolare.
Simili a figlie davanti a un boiaro severo tutte le coppe intorno a lui come un anello.
Coppe turche e coppe tedesche, da arciduchi e da arcivescovi...
«Più leste della mia strozza, santo cielo, voi vi seccate! E tracanno e travaso senza sosta, ma siete sempre prosciugate!»
Simili a danzatrici davanti a un mercante le bottiglie intorno a lui come un anello.
Tutte belle, variopinte, accollate, tutte avvenenti e etichettate!
Fasciate di grigia muffa annosa, guarda: come elfo di bosco, villose.
Smania di scoprire cosa nascondono, che cos’è quel riflesso iridescente.
***
Riempi riempi senza freni, tanto mai traboccherà! Bevi bevi finché tieni,
tanto mai ti basterà! La vite nostra è ricca, spaziosa la cantina, solerte è il cantiniere, di botti una caterva.
Simili ai bimbi davanti a un soldato le botti attorno a lui come un anello.
Ma quale anello! Una muraglia! Ma nemmeno: un’armata!
Tracanni – non trabocchi! Traballi – non tracolli! Guarda, furbo di uno Zar, la schiera stai per accoppare!
Tra fiumi di vino e monti di botti la tua tenda frangiata hai piantato.
«Agli altri il mare turchino, a me – quello di vino. Chi a riva se la dorme, e io remo tutta la notte!
Il mare mio è calmo e remo senza cambio. Perciò degli altri mari m’importa un fico secco!
A chi l’acqua scipita, ma a me – la zuccherina. Faticando senza posa remiamo ad ogni ora. Di questo mare son rematore, di questo mare son vogatore. Verrà il tempo di affondare, sprofonderò in questo mare!»
– Sarà!
«La sepoltura chi te la dà se bevi e non sei sposato? Se invece sei sposato eccoti rimproverato!
A chi servo così vecchio, valgo meno di un baiocco, per il vino – senza onore, a chi servo così ciucco?»
*** Sedeva lo Zar, sedeva, che alfine si stancò! Con mani e con i piedi la strada si spalancò! Ci prova a stare in piedi, ma niente – per terra! – Largo, cianfrusaglie, fatevi da parte! Stava quasi per tentare col piede sinistro... Di nuovo lo abbatterono i nemici! Come un gallo si agitò, come un tacchino! Di colpo si aggrappò alla tenda-baldacchino! Era quella porpora la stessa da tempo, sulla testa dello Zar precipitò la tenda! Andò allora l’accozzaglia in polvere di vetro! Bottiglia su bottiglia tuonò un pandemonio! *** Soffoca la tenda lo Zar, il vino lo Zar affoga, non fiotti, ma fiumi! Non fiumi: cascate! A vedere questa scena chi non si stupirebbe? Si contorce la tenda ululando a squarciagola. Come il diavolo dimena il rosso, danza la tenda dello Zar. O forse dentro c’è un orso? O forse dentro c’è un drago? O forse è tutto un sogno? Per non uscire fuori di senno, passiamo ora dalla Zarina. Passiamo dalla bella – col vino è tutto vano! – guardiamo come pena, di lacrime cosparsa, come vince la notte la Patria senza Zar. *** Prima di aprire il chiavistello dimmi, anima, da quale parte tu ci vieni: dalla maschile o da quella femminile?
le balie abboniremo con poco. Se dalla femminile, strade divise: gira a sinistra, alla buon’ora! Dunque. Ora, amico, qua la mano. Coraggio, non ti prendo a spallate come fanno i bambini: è cinese la scienza che ho appreso. Se il cuore poi (il petto è cassa!) sulle pareti come cristallo batterà, fa nulla, amico! – il tuo bacio all’amata più dolce schioccherà! Non condurre la cantante per sentieri reconditi! Noi cantiamo, siamo uccelli: una penna caso mai per ricordo! Però, a non essere avari, un poco a te, un poco a un altro... una penna per uno e senza ali resterebbe l’Uccello di Fuoco! Dunque. *** Slacciami la collana, non svegliamo le balie! Come i cieli dell’Immacolata,
sette – le stanze della Zarina. (amico, la tua mano è un pezzo di ghiaccio!) Lacci e calappi alle pareti, bubboli e campanelli. L’onore della moglie è serto dello Zar: non bastano i lucchetti! (con me, se sarai agile, passerai per un ago!) Leste le mani, basse le ciglia: di gonne leggere vestite le filatrici-ricamatrici notte e dì intrecciano intrighi. (solo sbirciando di sbieco, senza trine trameremo!) Guarda: sotto sette serrature, perché il ladro si diletti, dei sette peccati capitali delle donne i sette canterani. (dammi una collanina, farò senza grimaldello!) Che suono è, questo ronzio? Una Kamarinskaja sui pettini sfregano le cardatrici. (se non c’è la calvizie, districheremo senza pettine!) Nelle zampe asciugamani (sei rimasto sbalordito!) le sette more del diavolo: le badanti della Zarina. (forse sono sorelle mie: tu la schiena non mi strofini!) Nella cucina di frode femminile più lesti, Sansone e Dalila! Qui di alba s’impasta il rossetto, di neve s’impasta il belletto... (senza rossetto, senza belletto, fumo negli occhi getteremo!) Così dalla cucina alla fucina: qui col maglio nelle mani di piombo si forgiano gli addi, di vetro si forgiano i legami. (non so dire a priori cosa forgerà per noi!) Fratelli mano nella mano, non disturbiamo una mosca, una mano – di fuoco!– nell’altra! Indietro tutte e sei le stanze... (davanti all’ultima, alla settima, accosta le labbra alle mie!) Verso il cuore, verso la foce... Immersi in questi gorghi tutti perderemo gli Zarevi e tutte le Zarine del mondo! (lasciami! Staccati! Adesso dobbiamo narrare!) Davanti all’ultima soglia, davanti all’ultima stanza, ascolta, amico caro, queste mie parole: (perché limpida sia la voce, che beva prima dell’acqua!) se di nuovo invocherai un uccello che mi somigli, sappi: dell’uccello ho le penne ma il cuore è ardente, terrestre...
(questo è rozzo esempio di siffatti cuori!)
E inoltre, amico, ricorda: noi siamo due volte spacciati! Se soave è il nostro canto ancor più dolci i nostri baci...
(scolpiscilo nel tuo petto. Scorda chi lo ha detto).
***
Dormono le balie, dormono le tate. Le lenzuola sono intatte. Fumano negli angoli le lampade. Eccola dunque – la stanza sua – la stanza settima! Eccola dunque – la stanza da letto! Ma lei dov’è? Non c’è. Ma lei dov’è? Col vento. Non dorme, lei piange, per l’amato si strazia via dal letto nuziale, dalle sete e dai broccati, dai musi dei giullari, dai frastuoni mondani! Dalla stanza è scappata, per la scala è sgusciata, scalino dopo scalino faticoso è solo uscire! E poi sempre più libera, più libera, il passo sempre più sicuro, più sicuro, quasi risorta dalla bara sfrecci veloce nell’aria non sul tetto con gli uccelli: su una superna stella! (oh vento, ladro sciupone, delle belle difensore, di gelosia paladino, di fedeltà assassino, il conto non esige, il venticello mio!) Se ne sta la prigioniera sulla torre più alta. La graziosa si è legata proprio a quel ragazzo che la catena nostra grave prima di tutti ha spezzato, che prima del consorte la pettorina ci ha strappato. È lui il maestro da blandire! Da contendere con le gatte! Le ha sfilato il braccialetto, con gli orecchini si diletta. Perlina mia – la chiama mia cara... un ragazzo d’altra fatta! *** – Passi! Madre di Dio, salvami! Questi sono i suoi mirabili passi! Ti accenderò una candela votiva! Poiché io conosco questi stivali! Non è un lamento: è suono di gusla. Non perde i lumi: è lui! *** – Perché sei qui? «Perché lo sei tu?» – Tranquilla, ma ne vado. «Anch’io me ne vado»
Resta il giovine santerello a pizzicare le corde. La bella matrigna tace, morde la coda della treccia. E il vento tra di loro come anguilla – tra i due. Il musico – tic e tic – sulle corde,
a lei nel petto batte e batte il cuore: esploderà in mille schegge! Quello volge la schiena.
Buon Gesù! Sta per andare! Frusta la treccia dalla bocca e come belva disumana – zac! il figlio per la spalla acchiappa! – Cessa, donna, i tuoi discorsi! E la veste non mi sfiorare! Sei mica una da marinaio? E vorrebbe scostare la spalla ma non può disserrarle le mani: strette al collo diletto come cerchio di ferro. – Io sono tuo figlio, tu mia madre. Sono salito a respirare il vento, ad ascoltare il murmure del mare... Ma come fune tu mozzi il fiato! «Prima del tempo non farmi invecchiare! Io sono la Zarina e tu il mio Zar!» E la luna tra di loro come lama – tra i due. «Tre anni con la prossima alba da che per il volto tuo dolce – come al bazar il mendico per la pesca succosa – deliro! Tre anni questa notte ho aspettato!» Cautamente, come due piccole ali, lui le disserra le mani indebolite dall’affanno. Lungo il corpo con premura le posa, poi va dritto verso la scala, finché a un richiamo gutturale volge d’improvviso la testa. Come strega nell’aureola lunare, lei sta in piedi su un merlo della torre, si ciondola con il corpo sull’oceanico abisso. Oscilla, vacilla, quasi cullasse un figlio, gli occhi terribili fissa su quelli dell’assassino. Gonfia gli ardenti vestiti il vento, come una vela! «Alla sciagura m’indurrai! Sparirai? Sparirò! Tu dalla scala, io dalla torre!» Oscilla, oscilla, s’alza ai ginocchi la gonna. Come bambina birichina incute terrore, canzona: «Perché barcolli? Sei spaventato?» verso di lei lo Zarevi – un passo. «Fermo! Non muoverti d’un passo!» verso di lei lo Zarevi – un altro. Oscilla – per un obolo morirò! Oscilla – morirai anche tu! Oscilla – eh no! Non mi toccare! Non ci provare! – e come pugno di piselli, di perline, dalla gola – una risata febbrile! «Addio, mio monaco asceta!» si fa lo slancio più furente, «mia albicocca, mia pesca!» fischiano come serpi le trecce. Tanta è la furia che la vista s’annebbia! Tanta è la furia che la luna si spezza! In un terribile grido viscerale prorompe: lui con presa d’acciaio d’un balzo l’afferra! Saldo sulle gambe resta. *** In sudore lo spavento è dilagato. Lei – più docile di un bambino. Ferma, non disgiunge le mani, ferma, pesante è il respiro. *** Indi dolci fluivano le parole: «Più non spaura, giù dalla torre...» E – con fremito d’usignolo
un riso lieve, birichino. «Ora si è compiuta la mia soddisfazione! Ora si è compiuta la mia passione!» Da sotto la frangia riccioluta l’occhio guarda malizioso. «Tra le braccia mi hai tenuto, al petto tuo mi hai premuto... Adesso so – ride di nuovo come batte il tuo cuore! Pari a un ferro mi hai infilzata, quale striscia infuocata sotto pinze arroventate la traccia-ricordo delle tue mani! Il desiderio mio femminile: ecco tutto il mio avere. Va! Di sotto, caro mio, non potrò più rovinare». *** Uf! Chi ha sbuffato così all’improvviso? Di chi è quella testa felina tra i merli? È l’illustre profetessa degli addii: la civetta prefica, il gufo-civetta. Si azzima, il becco si linda. Gialli gli occhi, rotonde ambre. Si accosta a sussurrare alla bella: «Vengo ancora per la spilla!» Si fece quella il segno della croce, riconoscendo l’ospito suo caro. «Ho sentito la vostra lite furibonda, mentre volavo qui attorno da civetta! Due volte nel petto la spilla ficca, due volte al gufo concedi le labbra!» Le dischiude la carogna butterata come ali una mano dall’altra, come becco un labbro dall’altro: – Non ti opporre, boccuccia serrata! Con la donna è nata l’ubbidienza! Accostati, vite fustosnella! Se gli occhi gialli non vuoi vedere chiudili pure, i tuoi occhietti neri! *** Chiudi ed è fatta, mezzo male, mezzo oltraggio... Benché lo fiuti ancora È fatta! Già le labbra esalano calore. Non il vento sembra cantare, ma un coro. Già varie cose sussurri, la cupida bocca digrignando. Già il petto scompostamente si avviticchia alle penne. È fatta! È andata! Ed ecco che accanto a te non c’è il vecchio gufo, ma il giovane cigno! *** Vedono tra la mussola-fumo l’invisibile vento e la luna: la strega col gufo nell’avvinghio! La strega col gufo nel groviglio! La luna una lacrima sgrulla, l’altro scrolla una betulla... E dalle labbra – in un rivolo doppio che traccia è mai quella rugginosa? – Dio salvi il nostro regno! Il becco del gufo è insanguinato!
la luna il volto scosta... Ha invaso il sole la reggia come un esercito dorato: raggiante si alzato lo Zarevi dell’umore giusto. Poco ha dormito, ma di gusto! Pronto per andare all’altare! Al ribes il suo sapore, e a me – il vigore! Tre tori allo spiedo divorerei in un boccone! Fammi vedere allo specchio qual è oggi il mio aspetto. Bianco busto nelle stringhe e un rosso cinturone. – Che cerchio ho tra i sopraccigli? Che monetina purpurea? Quasi passata col piumino sembra la neve sulle gote. – Che cerchio ho tra i sopraccigli? Che stemma nobiliare? O un pastore notturno qui ha acceso un falò? Oppure, meditando, ho strofinato la fronte? *** Con mani sicure lungo i ritorti sostegni, con passi veloci giù per la scala scoscesa. Ha scordato per le icone la genuflessione. Non va a rendere omaggio al padre e alla madre. Non sa che la vedetta è già presentatarm! Col biancore di cigno tutti i corvi ha fugato. Le belle dalle soglie lo salutano col fazzoletto. Le vecchie – alle ragazze: «Ma che bel maschietto!» Di chi è alla finestra buia la notte tetra dell’occhio? Chi aguzza tra due pugni lo sguardo vigilante? «Se integro vuoi sfuggire alle reti femminili, il conto non pagare, regolalo con la coscienza. Si dirà: va per mare! Che la bella maledica! Donne – razza schifosa, pesci – razza gloriosa. Se integro vuoi sfuggire alle reti femminili, fatti coraggio, Guarda come sui flutti naviga lo Zarevi , va al passo con il mare canta all’unisono col vento. Se integro vuoi sfuggire alle reti femminili, lesto devi remare, giovane navigatore! Otterrai la stessa cosa dalla donna e dall’acqua: il petto si alza come onda, l’onda si alza come petto. Cantasorie, imprigionato!
Negli annali: mi stringo... Non lo Zarevič alla barca: il cigno a un cigno si stringe. Di nuovo sarà invano il libero tuo volo! Nessuno può sfuggire alle reti femminili!» *** Le voci ascoltava, ascoltava il musico, rasserenato si appoggiò sul gomito. Quali corde sotto le dita nel corpo fremono le vene. Dai cuscini si solleva dorati, fronte alta, petto in avanti. Sgrana gli occhi azzurri – guarda guarda! vede un gufo-barbagianni strabuzzato. Gli si accosta, lo copre per intero: «Buona notte, signor timoniere! So fare a meno dei tuoi occhi chiari». Da sotto il lembo il butterato: – Che oca! Oca mia, oca bella, tacchino d’oltremare! Si svincola di colpo: via dalle mani! Non si era il musico riavuto, che in mezzo ai suoi stivali: la calvizie del vecchio! «Che storia è questa? Sei impazzito, vecchiaccio?» – Ohi le costole! Ohi le braccia! Ah che male! «Senza il mio ordine, come hai osato?» – Non deve il mio cigno scappare lontano! Mica son poche le trappole in mare! Chi ne risponde? Il servo tuo fedele! Si scatena qui lo Zarevi , – basta! Morde con i denti la collana.
«Appena ti ho notato – coltello nel fianco! Un gatto nero che la strada mi ha tagliato! Mi togli sete e appetito perché appassisca!» Così si dedica alla gusla con stizza! *** Dice allora Zar-fanciulla ai suoi due cucciolotti, ai suoi giovani marinai: «O voi, marinai meravigliosi, agili miei remi, giovani mie braccia. La notte intera a giocare a carte, ammazzando il sopore col gioco, e a fare al mio amico la guardia. Gettate le carte, gettate il mazzo, tuffatevi nell’abisso profondo, interrogate le bestie e i pesci: se sentono i pesci il suono, se sentono le bestie la voce, se il giovane musico è in mare!» Si alzarono subito i giovani, drizzarono i corpi possenti, accennarono il gesto d’onore e un turbine soltanto rimane sull’acqua... Della vergine il petto tutto di schizzi s’imperla. *** «Generava mia madre senza tormento: non un figlio – un filo di fumo! Sembra mi abbia infuso nelle vene la penetrante luce della luna. Non mi stuzzicano i brustolini, tanto meno il peccato carnale! Scovate voi una sposa per un siffatto fidanzato! Non fidanzato: stelo malfermo! Se uno passa, scrollo rugiada. Piove – non ho cappello, nevica – neanche stivali. Più acerbo di un rametto, più indifeso di una vecchia... Scovate voi un’amica
per un siffatto marito! Si appresta da lidi lontani a solcare le lande marine, impietosita dal fratello smilzo, la possente sorella mia. Un cerchio l’alba mi ha impresso, un rosso cerchio ardente. C’è una pietra per il palazzo, c’è uno sposa per il ragazzo!»
Lei ascoltava questo canto quasi mangiasse una mela, captava il suono soave quasi sorbisse la birra. Quand’ecco emergono – sbuffo d’acqua i nuotatori in duplice colonna: crinite, da leone, le rosse due chiome. «Abbiamo interrogato i pesci guizzano svelti sul vascello siamo spiacenti, nessuno sa niente. Dello Zarevič non c’è traccia!» «L’udito di fanciulla è più fino», risponde ai marinai con un sogghigno. «Tale è il mio udito da ladro che persino il fruscio delle alghe sulla coda squamata di un pesce fiuto! Nonché lo Zarevič! Levate le vele! Danzate, acque! Non sono Zar se stavolta non si incontrano le barche! Non sono Zar né Fanciulla!» *** O libertà cara della barca! Oceanica strada di ninnananna! *** Lo Zar mio cigno in mare, di anelli e gioielli adorno. Non s’è visto caftano più bianco,
non s’è visto cinturone più rosso. Pende l’orecchino a ferro di cavallo... S’invocasse col canto un amico siffatto! Oh, che sguardo azzurro! E che bocca vermiglia! «Osserva: l’abisso comincia a far le bizze!» – Sei forse nato, ragazzo, alla vigilia d’Epifania? Ti hanno mica insegnato le contadine a mentire? «Ma no, vecchio mio! È simile a un miraggio. Guarda, non è un’onda: una trojka crinita!» – Menti, villano, ti faccio il contropelo! Meglio se col pettine ti districo il cespuglio! «Sbagli, uccellaccio, pozzo sotterraneo! Che sorta di Zar-Vela si sta alzando sull’onda?» – Non ti bastano gli occhi? Interroga la sfera! Mica sono il padrone delle acque minacciose? *** Gli occhi sempre più attenti, e punge la serpe... – Dormi luce mia, dormi mio falco! come sassi cadono le braccia. E giù le gambe come sassi, la fronte pesa come piombo... Lei non godrà più col ragazzo il tè all’osteria. Si ribella, le forze raccoglie, le palpebre si disserra con le dita... Barcolla, si riscuote: «Non resisto, ho sonno!» La speranza è svanita! Rosso è il segno, il marchio sulla fronte. «Vecchio! L’incendio!»
s’è chiuso un occhio. Disserra la mano, tinna l’orecchino.– Vecchio, l’incendio! S’è chiuso l’altro.
Con ques’ultimo grido s’addormenta, bocca semiaperta. *** Lei gli slaccia sul petto il caftano, le stringhe. A un soffio dal petto tiene
la testa del dormiente. Respira? – no! Respira? – sì! Inclina l’ameno volto sul petto suo d’acciaio: c’è o non cè traccia di fiato? Dio sul mare scrive con il vento. Stretti i sopraccigli, punta – come l’aquila il becco lo sguardo sul dormiente. Sì! Un cerchio appannato! Sì! La gioia – un lampo negli occhi – come oro! La gioia – un lampo! Il dolore – un maglio! «Se dunque è vivo, perché non si sveglia? Se dunque respira, perché non mi sente?» Dimenticato è il sillabario! Confusa è la Vergine-Zar, cosa dire – non sa. Al petto – tavola liscia preme i pugni: reprime l’angoscia. – Ehi, mio pigrone! Non ti scrolla nemmeno un colpo di cannone! Come se una quercia le foglie scuotesse. Come cane scatenato il riso – dalla bocca insolente. «Cucci cucci, piccolino!»
balla tutta dalle risate. Finito – è passata la ramazza! Finito – è fluita l’acqua! Guarda: il petto sta per scoppiare! Tutti i vascelli per affondare! – e – Piano piano, come attraverso la massa
di una corteccia di pietra, dagli occhi suoi dilatati grandi lacrime-ambre, spaiate. Quando mai la quercia ha pianto resina? Così, lacrima su lacrima, dalla fonte degli occhi ampi tre ruscelli dorati verso la foce delle labbra. Non tremano le ciglia. Immobile è il volto. Sembra che una pesca d’arancia le spremano addosso. Succo d’arancia, d’albicocca, fluisci! Succo d’anima prelibato! Fluisci lungo le gote, succo d’ambra, succo prezioso, dono dell’anima sua severa, fluisci a profusione! Sul candido caftano, sul tacito viso – come sangue stilla, resina! Sangue rosso sul muto ghiaccio... Fierezza, pietra-roccia, sciogliti in pianto! *** Sotto l’acciaio-corazza già inizia una lite furiosa: – E che? Non una lacrima per il cavallo, e piangi per il fanciullo? Ero turbine-fuoco-grandine-tuono: per tutto – castigata! Interi eserciti ho catturato:
da un filo d’erba legata! Interi eserciti ho catturato, le navi ho affondato, e ora scivolo nel pantano senza alcuno scampo! Col pugno olivastro, glorioso, terge il viso rotondo, riaffiora la bellezza. Volge al sole il volto perché con il suo fuoco incenerisca la vergogna. «Ordino a Sua Altezza: per la terza e ultima volta, quando si specchia nel mare l’alba, tornerò al richiamo delle corde. Addio! Fino a tre volte la legge nostra: perdonare» La forza della sua bocca virile la bocca gli scottò (della collana traccia doppia sulla corazza). Si stacca dalla delizia, balza a bordo della sua casa marina. *** La serpe-acciaio il bavero squarcia, e intanto si muovono le labbra: è un respiro o uno sbadiglio? O forse chiamano qualcuno... Prima degli occhi dischiude le labbra: – perché, bella, non aspettare? Non avrebbe il vento udito il pianto: lo avresti baciato e ribaciato! Poiché le donne nell’ora d’amare la rossa bocca più degli occhi hanno cara, bramiamo tutti del paradiso i frutti, ma noi orgogliose – ancora di più. *** Tremola, si stiracchia, tasta con le dita la bocca. Invano! Lei neanche si volta! Già oltre cento verste – lontana! Il vecchio balbetta, danzando come capro: «Se ne va certo a vele spiegate! Non sempre baciare sulla bocca... Orsù, dammi il tuo bavero!» *** Più azzurri del fiordaliso, più azzurri della canapa gli occhi suoi fiorirono sulle gote insonnolite. «Senti, vecchio, senti, il sogno che ho sognato! Come se un cuculo
avessi puntato! Che invano non si angusti! Avevo l’occhio aguzzato e ... Sento il suo cuccù: fino a tre volte». – Non un cuculo ti parlava: la tua amichetta si angustiava. Come geme il cordame durante una tormenta... Ma tu nel dormire sei davvero un portento! «E inoltre vedo dice rattristato che resina piange una giovane quercia. Il petto mi stringe con i suoi rami, e lacrime goccia sul mio caftano». – No, Zar mio Cigno, né resina né quercia: il ghiaccio della superbia in lacrime si è sciolto. «E sogno – sussurra (il labbro si sfrega) un sole rosso in bocca, come mela. E inchinandosi: assaggia, pigrone!» – Per prendere sonno leggi re Salomone. Quello – una nuvola-sospiro: «Fammi terminare! Giaccio incatenato
per l’anulare. Che sia la morte? Che siano nozze? Dimmi, non farmi penare!» – Sarebbe meglio, signore, se tornasse a sognare! Da una donna, attento, Giuseppe fu rovinato! A un capello femminile più d’uno ci è penzolato! Non bada lo Zarevi al perfido inganno,
si bacia frattanto la dolce mano. «Leggi pure le carte, leggi pure le sfere! Gracchia pure, cornacchia! Di dolce sa la bocca!» Allestisci, o musico, un convito! Chiara è l’acqua di turchinetto! Ave a te, Zar-Bufera! Addio!
La bocca del fanciullo come rosa è sbocciata! Sui criteri di traduzione
La presente traduzione, nel tentativo di restituire al lettore italiano la stessa tramatura linguistica e stilistica del l’originale, si discosta da una resa prettamente interlineare. Particolare rilievo è stato dato alla rima (luogo di incontro fra la tradizione letteraria italiana e il genere russo della “fiaba in versi”), così come alle assonanze e consonanze, tese a ricreare la stessa vivacità fonetica del linguaggio cvetaeviano. In alcuni casi è stato necessario reinventare il testo: nella scena, ad esempio, dello Zar ubriaco (nella Notte Seconda), la traduzione asseconda più il carattere grottesco del personaggio e il delirio dell’ubriachezza (sottolineati anche dall’uso del raëšnyj stich, versificazione tipica delle narrazioni comiche e satiriche improvvisate dagli imbonitori di fiera), che non l’effettivo senso dell’originale. In generale, le scelte traduttorie perseguono lo scopo di incarnare nella lingua italiana non solo la simbologia e la significazione del poema russo, bensì anche il suo impianto fonetico, retorico e metrico-ritmico. Marilena Rea ¬ top of page |
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