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EUGENIO MONTEJO, La lenta luce del tropico. Antologia poetica, trad. di LUCA ROSI, Firenze, Le Lettere 2007, pp. 147, € 18,00.
 
Il 44% di tutte le specie volatili sudamericane solca i cieli del Venezuela: azulejos, gorriones, alcatrices, ibis, gufi e tordi neri. Ed ora, spiccano il volo da La lenta luce del tropico, antologia poetica di Eugenio Montejo, ed invadono anche il nostro cielo italiano grazie a un volume tradotto da Luca Rosi.
Montejo (Caracas, 1938-2008), studioso, critico e membro del famoso gruppo letterario venezuelano legato alla rivista «Poesía», offre al lettore una raccolta intensa ed originale, il cui tema fondante è il rapporto dell’uomo con la natura, e della natura con l’eternità: la sacralità della natura (l’antico desiderio celebrato dal poeta) si traduce nel divenire simbolo del tropico, luogo dell’immanenza e allo stesso tempo parabola di trascendenza per gli esseri che lo abitano, manifestazione di una divinità nostalgica, appena intravista da un io poetico che è tale in quanto percepisce il canto sommesso delle creature animate.
Una poesia, quella di Montejo, che corre a svegliare gli dèi, addormentati e custoditi nel petto dei passerotti, e li desta scherzosamente come fa il tordo che ci sveglia nelle mattine estive, pigolando dai rami dell’albero dirimpettaio. I versi di Eugenio Montejo presentati al pubblico italiano in questa preziosa antologia, ci aiutano a riconoscere la divinità che giace nella gola vibrante del gallo e nella gioia segreta che fa esplodere le cicale.
Interessante e degno di nota è il costante riferimento dell’autore venezuelano all’arte dello scrivere, l’intertestualità e la metaletterarietà che ritorna in questa selezione antologica, così come un aspetto non trascurabile: sono poesie, quelle presentate nella collana «Latinoamericana», di una straordinaria serenità, di un accordo con l’armonia del mondo, un’ode all’imperituro e alla trascendenza. Si respira, in queste pagine, la profonda gioia di sentirsi circondato da una natura che l’uomo inutilmente cerca di sopprimere con il suo cemento e con le mura anguste della città: inutilmente poiché anche se il gracile corpo della cicala soccombe ai suoi effimeri giorni di vita, il suo canto diviene immortale, echeggia nel tempo e nello spazio a dismisura, rompendo le barriere del hic et nunc.
Una poesia dunque che si stacca dal consueto sfondo del dolore e della disperazione per approdare invece alla fiducia e a un sentimento di piena comunione con il creato: «Credo nella vita sotto forma terrestre […] dappertutto piena di orizzonti» afferma con forza Montejo in Credo alla vita ed afferma orgoglioso di essere ateo solo nei riguardi della morte. Morte che appare fugacemente come il coltello d’un incubo o forse solo come perdita di un passato mitico, come abbandono dell’infanzia e del paradiso vegetale ad essa legato, che purtuttavia si recupera nel sogno, nella quimera. La leggenda e l’amore sono il luogo adibito al recupero di quanto perduto: un tesoro custodito tra torri ed arcobaleni, come la pentola d’oro conficcata nella terra, perché è dalla terra che sboccia la vita e il suo ricordo. Perché è nella terra che si costudisce il passato: ed è così che, parlando dei propri antenati, l’autore s’identifica con le sue zolle e dice «Io sono il campo dove sono sepolti».
E la terra di Montejo è il fertile humus del Tropico, topografia del suo destino e geografia spirituale del suo peregrinare (metaforico e non) nei territori venezuelani così come in quelli oltreoceano. La patria del poeta è la poesia stessa, l’unico luogo di appartenenza che, tuttavia, in Montejo viene fondata nel suo Venezuela natale che è al tempo stesso origine e fine della sua poetica: «Niente porto con me / (chi va nei llanos sa che non può riportare / nulla che sopravviva nelle città) / salvo sensazioni, / stupori, / poesia / e lo sguardo diretto degli uomini».
Il Venezuela natio è il luogo «lontano dalla neve, / laddove la terra gira più lentamente» (p. 81) e allo stesso tempo una «terra fertile, sentimentale, amara, / che non si lascia possedere, / non sarà nostra né di nessuno / ma perfino nell’ombra noi le apparteniamo» (p. 67).
La riflessione sulla metaletterarietà è costante: la pagina è bianca come la neve e le parole su di essa scritte sono corvi neri, che volano ubriacando la vista del poeta. E la poesia stessa, «attraversa la terra in solitudine, / appoggia la sua voce sul dolore del mondo / e niente chiede / – nemmeno parole».
Gli alberi sono creature vive, spirituali e carnali, mentre gli uomini sono involucri vuoti, «come vestiti che si tolgono, come le ombre cadute dai loro numi». Dalle pagine di questa nuova antologia le pietre ululano nella notte, «ebbre, folli», mentre l’autore non riesce a «decifrare l’alfabeto del mondo». Ma noi, attraverso lui, decifriamo il canto raggiante della poesia ispanoamericana, che da oggi ci offre un nuovo grande autore tradotto in lingua italiana.
 
(Silvia Favaretto)

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