« indietro ELIZABETH BISHOP, Miracolo a colazione, trad. di Damiano Abeni, Riccardo Duranti e Ottavio Fatica, con una Nota di Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2006, pp. 288, €27,00.
Elizabeth Bishop è giustamente considerata una presenza indispensabile della poesia del Novecento. Ce lo riconferma questa ampia scelta di poesie, che prende il titolo da una sestina relativamente giovanile e porta in copertina una deliziosa miniatura della stessa Bishop (una cartolina augurale il cui testo legge caratteristicamente: «May the Future’s Happy Hours Bring you Beans & Rice & Flowers– April 27th, 1955 – Elizabeth»). La scelta comprende 68 poesie, contro le 40 del la precedente bella traduzione di Margherita Guidacci, L’arte di perdere (1982), del tutto ignorata dalla fascetta editoriale che ci informa che questa è «la prima volta» che Bishop appare in traduzione italiana. (Una più esigua ma significativa scelta di 30 poesie, pressoché clandestina, era apparsa nel 1993 a cura di Bianca Tarozzi.) Comunque ci compiacciamo che finalmente Bishop abbia trovato un editore alla sua altezza, che presumibilmente terrà questa elegante scelta in catalogo per anni a venire (poi ne uscirà un’altra che affermerà di essere la prima!). La pattuglia di traduttori che evidentemente hanno lavorato di concerto (non è indicata ripartizione di compiti) è fra le più valide. Ogni soluzione rivela una lunga riflessione e merita di essere studiata, e l’esito complessivo è ottimo. Si potrebbe confrontare la sempre notevole Guidacci con le nuove versioni per discutere appunto su cosa una traduzione ha da essere. La diversità delle scelte e il passaggio del tempo non significa senz’altro che la nuova traduzione sia preferibile alla vecchia. Gioca su un altro tavolo, più scaltro. Per esempio la toccante villanella che è difficile leggere senza cedere alla commozione, One Art, che Guidacci traduce logicamente Un’arte, qui diventa con un colpo di mano L’arte è sempre quella. Non direi però che questo è il senso di One Art. L’arte di perdere è un’arte, o «quell’arte» (Inf. 10.51), in quanto distinta dalle altre (come la poesia). Insomma Abeni-Duranti-Fatica rischiano di essere troppo bravi, e forse occorrerebbe fare un discorsetto su «La modestia del traduttore». Fatica ha anche ben meritato con la sua Nota conclusiva, stringata e in chiave, preparandoci ai rigori e abbandoni della cara Elizabeth. Un mostro di intelligenza, come una volta notò un’altra aspirante scrittrice che s’era messa a scuola da Marianne Moore. La quale infatti è la fata madrina di Bishop, che continua a parlare di animaletti e paesaggi in strofe intricate, ma poi si apre via via a riflessioni distese e comincia forse a guardare non più a Marianne ma a Robert (Frost). Si veda la lunga descrizione di paesaggi della Nuova Inghilterra che apre L’alce. Il mondo di Bishop è quello regionale del Paese degli abeti aguzzi (1896) di Sarah Orne Jewett, altra partecipe osservatrice, altra donna che visse soddisfatta un ‘Boston marriage’ con un’altra donna. Meno soddisfatta Bishop, che invece come ben dice Fatica è sempre sola, sempre pronta a perdere, terribilmente lucida sulla vanità del tutto. Segnalo la bella prefazione di Tim Parks agli aforismi di Mario Andrea Rigoni, Variazioni sull’Impossibile (Padova, Il Notes Magico, 2006). Parks ci ricorda che scopo dell’arte è rendere sopportabile l’insopportabile, anzi ci permette leopardianamente di affrontarlo, e la paragona al «farmaco» che Elena nell’Odissea versa nelle coppe a Telemaco e Menelao. Questa funzione è evidente nell’arte della Bishop, che crea i suoi intarsi di parole americane, nette e succose, per celebrare quel che c’è da godere (poco) e chiarire che si tratta di un lampo di breve durata. Così avviene nella poesia di ambiente brasiliano (paese dove Bishop si rifugiò per quasi due decenni) Canto per la stagione delle piogge, che racconta un luogo di bellezza e amore con un tono di inno protestante (altro carattere che lega Moore a Bishop): «Ascosa, oh ascosa / nella nebbia alta / la casa in cui abitiamo, ai piedi della rupe / magnetica, gravata / da piogge e arcobaleni, / ove, presenze familiari, / spontanee, si aggrappano bromelie / nerosangue, gufi, licheni / e filacce delle cascate». Sono strofe di dieci versi dove nell’originale ogni verso rima con un altro. Questo non succede nella traduzione che però in altri testi trova felicemente soluzioni di rime (o riesce a rispettare le chiuse ricorrenti delle sestine). Comunque siamo nella casa della vita, della gloria, ma nell’ultima delle sei strofe la gioia svanisce con il sopraggiungere dell’estate: «Senz’acqua // la grande rupe spiccherà / smagnetizzata, nuda, / senza il velo / di arcobaleni o piogge, / senza l’aria clemente / e l’alta nebbia; / traslocheranno i gufi / e le svariate / cascate avvizziranno / sotto un sole fermo». And the several / waterfalls shrivel / in the steady sun. Guidacci aveva tradotto «sotto un sole implacabile». Entrambe le soluzioni hanno i loro meriti, forse quella nuova è preferibile perché lascia al lettore estrapolare la connotazione negativa. L’inglese di Bishop è di solito piuttosto lineare e non presenta grandi difficoltà di lettura. Ci sono dei versi che rimangono enigmatici, certe considerazioni di sapore metafisico sulla conoscenza (At the Fishhouses) o sulle ragioni del viaggio (Questions of Travel). Oraziana mancata, Bishop sogna un asilo irraggiungibile, una casa sulla spiaggia: «I’d like to retire there and do nothing, or nothing much, for ever, in two bare rooms: / look through binoculars, read boring books, / old, long, long books, and write down useless notes, / talk to myself, and, foggy days, / watch the droplets slipping with light. / At night, a grog à l’americaine» (The End of March). Quello americano continua a essere un universo domestico, fatto di pochi amici e gesti solitari, e di un’arte che è osservazione di un mondo moralizzato e confessione. Manca nella scelta adelphiana uno dei tardi ampi ritratti brasiliani, Manuelzinho, che Bishop stessa volle registrare e che è una contemplazione disincantata e tenerissima dell’umanità nuda (quella che più tragicamente scoprì il vecchio Lear) nei panni di un giardiniere indigeno amabile e incorreggibile. Sentire la voce di Bishop leggerla con le sue pause, le sue cadenze, le vocali aperte... Che sguardo freddo e amoroso, che amore freddo. Bishop in fondo ci ha dato una manciata di poesie disincantate. È poco, ma è pur sempre il meglio di una stagione. E il meglio che un lettore possa scoprire, grazie anche ai valorosi che hanno fatto a gara coi loro vari talenti per farla parlare in altre lingue.
Massimo Bacigalupo
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