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GIULIA MARTINI, Tresor, prefazione di Giulia Depoli, Latiano, Interno Poesia, 2024, pp. 144, euro 15.

Dire che quella di Giulia Martini è una voce giovane della poesia italiana fa problema giacché l’aggettivo “giovane” nel paese di Gobetti e Michelstaedter è spesso impiegato con toni paternalistici, come una formula prudenziale o una scommessa ritrattabile. Meglio allora esordire affermando che Giulia Martini è una voce importante della poesia italiana. Tresor è il suo secondo lavoro, dopo il notevole esordio di Coppie minime, e già i titoli evidenziano uno slittamento dal dominio fonetico-fonologico (“coppia minima” in senso linguistico) a quello metaletterario. Ciò che lega i due libri, a mio avviso, è il perdurare, e consolidarsi, di un esperimento assai interessante e piuttosto originale di ricollocazione dell’io: non già tramite una messa a latere del sé in chiave fenomenica, bensì attraverso il riposizionamento della voce poetica entro un contesto di senso oggettivo e acclarato, vasto e risonante, in cui riconoscersi e insieme confondersi, dissolversi. In Tresor tale contesto è dato dalla letteratura delle origini, come il calco da Brunetto Latini subito palesa, e non tanto, o non solo, dalla tradizione lirica – dei cui echi pure la raccolta è tramata, dai dugenteschi a Montale e oltre – quanto soprattutto dalle prime attestazioni di scritture redatte per scopi pratici: atti notarili, statuti e istituti giuridici, placiti, zibaldoni mercantili, lasciti ecc. In verità, per come l’autrice concepisce l’atto di parola, la tradizionale distinzione tra canto e praxis manca di valore. Né le interessa granché la dimensione puramente storica, linguistico-filologica del testo. Martini, la tradizione, non vuole ricalcarla ad arte, ma ripensarla, e direi riviverla, intus et in cute: ciò che conta, per lei, non è cosa quelle tracce verbali testimoniano del passato, ma come agiscono nel mondo. Ai suoi occhi ogni testo è un’azione portata a effetto sulla realtà, gesto in grado dimodificare e trasformare l’esistente in quanto frutto di una mistione tra vissuto e portato culturale.

 

La frizione da cui sprizza la scintilla poetica proviene, se non vedo male, dall’attrito di una duplice, contrapposta spinta: da un lato la natura stringente, vincolante di congegni retorici nati per normare il vivere associato, calibrati per conferire valore legale alle cose del mondo; dall’altro, la qualità fluida, contaminata, di quegli stessi scritti, frutti impuri di mescidazioni quasi fantasmagoriche tra latino, parlate locali, germi di un volgare colto esteso, influssi delle proto-lingue d’Europa. A ben vedere, il suo campione non può che essere lui, il tosco poliglotta ser Brunetto. L’autrice di Tresor dissoda il solco romanzo per leggervi, a specchio, la sua esperienza – anche di vita, se la persona amata, il summum bonum, è un bene che si va perdendo e che implica dunque una messa in discussione dei beni, mobili e immobili, nel senso contrattualistico del termine: i possedimenti e gli oggetti che ogni unione accorpa, ogni scorporazione disunisce. Sicché la (già) medievale e oggi postumana esigenza di codificare per verba ogni aspetto relazionale, allestendo macchine verbali che attestino, inventarino, sanciscano vita, si incontra e scontra, a ogni testo, con ciò che detta Amore dittatore. Insomma i due grandi filoni ispiratori della tradizione d’Occidente sono qui intrecciati, e in qualche modo messi a contrasto, fatti reagire, calati nel fluire di giorni qualsiasi fatti di stanze studentesche, salotti familiari, paesaggi industriali, tra pasti, sigarette, viaggi in macchina, frasi al sapor di veleno, investiture muliebri di ascendenza feudale, passioni impietosamente pesate sul libro mastro del dare e dell'avere.

La fredda convenzione sociale-sociabile sancita dagli atti rogati e il palpitare caldo della vita psichica cozzano ancora e ancora pagina dopo pagina, con la seconda sempre soccombente, giacché sommersa dall'onda d'inchiostro della parola burocratizzata: «e fate finta di parlarmi e invece / mi dite una cosa che sembra scritta»; «sei sempre stata solo un documento, un atto patrimoniale in un registro»; «una dichiarazione di consistenza dei beni posseduti». Sono versi, quelli di Martini, da cui erompe la potenza espressiva della poesia, una forza a tratti esaltante ma in ultima istanza beffarda, se all'atto pratico il risultato che ottiene, tutta questa energeia spesa, è quello di certificare l’impotenza di chi la pronuncia ad aggiustare il mondo.

Almeno tre elementi cardine della fabbrica testuale di Tresor penso meritino di essere sottolineati - oltre al già ricordato lavoro sulla lingua, sulle lingue, ricamate da Martini con finezza. Il primo è la studiata architettura della silloge, un edificio bilanciatissimo e ben sagomato in ogni sua parte. Il secondo, di concerto col primo, la struttura ritmica, di romanica, e lapidaria, asciuttezza. L'ars combinatoria con cui l’autrice si adopera a disporre una dopo l'altra le parole-pietre è prova di un orecchio che accompagna l’occhio in ogni scelta con grande accuratezza. Il terzo elemento, forse meno evidente ma che vale la pena ricordare, è l’ironia o meglio il ventaglio di sfumature ironiche ravvisabili: c’è una vena più sapida, tagliente e perfino autolesionistica («Sei sempre stata brava a farti strada / come i Fiamminghi, come i Padovani»), un’altra argutamente metatestuale («Barbara è tutta colpa del copista»; Testimonianza di Travale col ficcante gioco dei verba dicendi, a snudare il potere falsificante del linguaggio; la semina nel campo semantico ecc.), una terza per così dire allo specchio, da cameo giottesco: l’autoritratto della «tosca» che fa la carta «scripta».

Nelle esecuzioni pubbliche di brani scelti Martini non legge: dice a memoria, secondo il termine che lei stessa predilige, i versi, convinta che il motto latino attraverso cui si è soliti certificare la natura definitiva, e tombale, del linguaggio Verba volant, scripta manent – abbia un significato opposto rispetto a quello che di solito gli si attribuisce: non le parole vanno e gli scritti restano, ma le parole agiscono, si muovono, gli scritti stanno fermi, restano inerti. Mentre modula sillabe amplificandone il suono ad arte, regolandone la durata perché galleggino nell’aria né più né meno del tempo dovuto, l’autrice dimostra una fiducia fabbrile nei confronti dell’atto verbale, ma ricorda anche che il canto, epico o lirico che sia, ha origine liturgico-rituale, convoca e celebra insieme. Eppure, Tresor è un libro pienamente apprezzabile anche nella sua tradizionale veste tipografica. Perché è anche vero che carta canta, ogni volta che le si ridà fiato.

(Riccardo Donati)


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