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IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 34-45

SERGEJ ZAV'JALOV, L’Assedio di Leningrado e la poesia del realismo socialista (scarica il pdf)


 
L’Assedio di Leningrado, assieme al genocidio degli ebrei d’Europa e ai bombardamenti atomici delle città giapponesi, rappresenta il simbolo della catastrofe, ovvero l’eliminazione totale di una popolazione inerme. Durante il corso dei decenni, tuttavia, l’Assedio è stato interpretato in maniera radicalmente diversa, come un atto eroico, i cui morti non sono delle vittime indifese ma, appunto, degli eroi: in sostanza, il discorso non ha riguardato tanto l’Assedio, quanto l’Eroica resistenza di Leningrado. In questo modo, la successiva reinterpretazione dell’Assedio è divenuta parte non solo di un’interiore rivalutazione dei valori, ma anche di una tendenza globale a de-eroicizzare la storia e ad abolire la figura dell’eroe in quanto tale.
La controrivoluzione neoliberale degli anni Novanta ha utilizzato l’Assedio alla stregua di un'arma proprio come ha fatto con le altre tragedie nazionali del Ventesimo secolo – la Guerra Civile, l’Holodomor, il Grande Terrore. È possibile che si tratti solamente di un capovolgimento totale di quell’immagine del passato frutto della propaganda sovietica? Che il negativo sia diventato positivo e viceversa?
Negli ultimi decenni è stato fatto molto in campo storiografico, nella letteratura e nella critica letteraria per l’elaborazione di questi o altri soggetti legati all’Assedio, tuttavia si ha l’impressione che – con alcune rare eccezioni, come i libri di Sergej Jarov – non abbiamo a che fare con un’analisi profonda di tali eventi catastrofici, bensì con una sorta di reazione neoliberale alla narrativa storica sovietica e al realismo socialista come metodo di comprensione dell’uomo e della società. Per questo la polemica contro il realismo socialista è condotta senza tenere conto della sua essenza, ovvero l’analisi marxista delle classi sociali. Il risultato che si ottiene è un’immagine dalle proporzioni incredibilmente deformate.
Secondo le statistiche ufficiali redatte al tempo di guerra, durante l’Assedio sono morte 640mila persone, sebbene non di rado gli studiosi considerino che la cifra sia più prossima al milione. Tra questo milione di persone, si annoverano almeno 900mila operai e contadini. Nel dibattito odierno sull’Assedio, tuttavia, l’attenzione si concentra esclusivamente su quegli eroi e quei testimoni che rappresentano gli strati privilegiati della popolazione. Non è importante che fossero dei benestanti prima della Rivoluzione e avessero perduto le loro prerogative, riducendosi persino in miseria, oppure che fossero dei “nuovi” privilegiati, membri della nomenclatura e, spesso, vecchi rivoluzionari. In questo modo una parte predominante dei morti o dei sopravvissuti alla catastrofe non solo viene privata del suffragio, ma di fatto anche dell’interesse per la propria esistenza.
Il totale discredito dell’eroismo o la “riqualificazione” degli eroi alla stregua di vittime porta non soltanto all’universalizzazione anacronistica delle rappresentazioni contemporanee e al rifiuto del desiderio di comprendere la società e l’uomo del passato, ma aspira anche alla trasformazione della classe media dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale, cioè di quel piccolo borghese che è ormai stato superato e trasformato, dalle esigenze del neoliberismo, nell’Uomo con la maiuscola, l’Uomo che, in quanto tale, è “misura di tutte le cose”. L’habitus di questa classe comprende, in particolare, una visione del mondo basata su una psicologia “pop”, con il suo cosiddetto “lavoro sui traumi”, che significa, in buona parte, spostare i propri problemi sugli altri (sui genitori, sul marito o la moglie, sulle circostanze) e rifiutare, così, di difendere duramente e talvolta strenuamente ciò che è sacro e ha valore. 
Tuttavia, un uomo di una cultura diversa da quella piccolo-borghese dell’Europa e dell’America settentrionale si oppone ostinatamente a testimoniare contro se stesso, rifiutando di considerarsi una vittima e di osservare ciò che gli accade come un trauma irrimediabile. L’uomo sovietico era proprio questo e senza comprenderlo fino in fondo non è possibile capire né la storia né la letteratura sovietica.
Cominciamo col rispondere a questa domanda: che cos’è l’Assedio di Leningrado da una prospettiva di classe? La popolazione della città, così come quella di tutta l’Unione Sovietica, era composta da quattro classi sociali – una situazione comune descritta dal marxismo: due classi deboli, sempre dominanti, e due classi forti, sempre subordinate.
La prima classe era quella della nobiltà e della borghesia, che aveva mantenuto fino al 1941 una posizione abbastanza dominante in ambito scientifico e culturale. Questo è il motivo per cui, quando leggiamo qualcosa dedicato all’Assedio, abbiamo a che fare con delle testimonianze di questa classe sociale.
La seconda classe comprendeva la nomenclatura sovietica (qui sorgono alcune difficoltà, soprattutto perché tra il 1937 e il 1938 venne colpita in maniera devastante dal Grande Terrore).
La terza classe era rappresentata dai contadini (detti, nel gergo leningradese dell’epoca, skobari, villici). Si trattava per lo più di persone che si erano trasferite in città durante gli anni dell’industrializzazione ed erano diventati, di regola, degli operai non specializzati (analogamente agli attuali migranti).
La quarta classe era quella proletaria, meno numerosa rispetto alla precedente, formatasi come gruppo sociale vero e proprio prima della Rivoluzione. Si trattava di lavoratori specializzati. È necessario sottolineare una cosa importante: c’erano degli attriti molto seri tra queste due ultime classi perché erano in competizione per le risorse, ovvero gli alloggi e i salari. Protrattesi durante tutto il periodo sovietico, le discussioni a proposito della corretta remunerazione salariale (questioni che occuparono i giornali sovietici fino al crollo dell’URSS: il chozrascët, il profitto, la decentralizzazione) erano fomentate, in gran parte, da coloro che erano interessati alla discriminazione dei lavoratori non qualificati, cui seguì l’inevitabile smantellamento del socialismo, sebbene con i “guanti di velluto”.
Gli echi di questa lotta tra le due classi subalterne si protrassero fino agli anni Settanta, dal momento che si trattava di persone molto diverse, i cui valori e le pratiche di sopravvivenza differivano radicalmente.
Ognuno dei quattro gruppi sociali sopramenzionati si rapportava con l’ideologia della società sovietica in maniera diversa: c’era chi si adoperava, spinto dal pathos, per la costruzione del socialismo, chi era indifferente e chi con questo era in aperto conflitto. Fatto ancora più importante: ogni classe aveva le sue pratiche di sopravvivenza in condizioni estreme. Una parte rilevante dei contadini aveva sperimentato la carestia del 1921-22 nella Regione del Volga e quella del 1932- 1933 nella Terra Nera centrale. Queste classi furono colpite in modo diverso anche dalla mobilitazione militare: i contadini, che furono inquadrati nella fanteria in quanto illetterati e analfabeti, subirono almeno il doppio o il triplo delle perdite rispetto agli operai, destinati all’artiglieria, alle forze corazzate, al genio militare, alle truppe di trasporto, all’aviazione e alla marina.
È fondamentale rendersi conto che, all’inizio dell’Assedio, in città non c’erano quasi più uomini in età di leva: furono soprattutto le donne, i bambini, gli anziani e gli invalidi ad affrontare il disastro. 
Passiamo ora al realismo socialista. Il termine “realismo socialista” è diventato insopportabile grazie agli sforzi della propaganda neoliberale. Ormai si è soliti considerarlo un sinonimo di propaganda totalitaria, di schiavitù spirituale e di insignificanza estetica. Qualsiasi opera del periodo sovietico – anche solo un poco di valore – è dichiarata o un’eccezione che conferma la regola generale, oppure qualcosa di essenzialmente opposto al realismo socialista.
Se perseguiamo la logica dell’eccezione, dovremmo escludere dal campo del realismo socialista tutto ciò in cui possiamo ravvisare qualcosa di vivo, veritiero e di talento, e lasciare solamente quello che è morto, falso e mediocre. A nostro parere, tuttavia, questa prassi mostra solo la persistenza e l’attualità dell’eredità cultura sovietica, percepita dagli esponenti della cultura russa come qualcosa che deve essere negato, allo stesso modo in cui, secoli orsono, la cultura medievale era stata rifiutata dalla cultura rinascimentale e così, in concatenazione, il rinascimento dal barocco, il barocco dall’illuminismo, l’illuminismo dal romanticismo e, infine, il romanticismo dal modernismo. In realtà, ognuno di questi movimenti culturali produsse un certo numero di capolavori e una massa di innumerevoli artefatti banali: il realismo socialista non fa eccezione.
Da questo punto di vista, il realismo socialista con i suoi eroi inflessibili non ha più senso dei santi cattolici in estasi mistica sulle tele barocche, dei re e dei condottieri nelle odi classiche, dei fantasmi nelle ballate romantiche, degli ardenti eroi nazionali nei romanzi pseudo-storici, ma anche di quei poveri dall’animo nobile e dei ricchi viziosi che popolano il naturalismo.
Quanto detto può trovare riscontro anche nelle attuali ricerche dedicate al realismo socialista. Dal momento che viene studiato sulla base di opere di basso valore e stereotipate, emerge un quadro corrispondente solo all’analogo sovietico della letteratura di massa, in cui la propaganda per la mobilitazione sostituisce quella commerciale. In un certo senso, si assiste alla riduzione di un periodo complesso e contraddittorio durato settanta anni agli utopistici modelli educativo-disciplinari del tardo stalinismo. L’intenzionale e opportunistica indeterminatezza nella definizione di ciò che è, o non è, il realismo socialista e l’uniformazione di questo concetto con quello di “letteratura sovietica” appaiono dunque eloquenti.
In principio, a giudicare dai materiali del Primo Congresso dell’Unione degli scrittori sovietici tenutosi del 1934, ci fu un serio tentativo di conferire a questo termine una declinazione teorica. Nei discorsi di Maksim Gor’kij, Aleksei Surkov e Vladimir Lugovskij vennero proposti dei cardini ideologici abbastanza seri su cui sarebbe stato possibile costruirvi la sua filosofia.
In particolare, Gor’kij invitò a rifiutare che un ruolo centrale nella letteratura fosse riservato all’“uomo superfluo”, l’egoistico alter ego dello scrittore emblema della classe piccolo borghese, e propose di rivolgere la propria analisi verso rappresentazioni che mostrassero le classi subalterne, sottolineando giustamente come la letteratura russa non avesse mai indagato la figura di un contadino, di un operaio, di un crudele padrone di servi della gleba o di un capitalista avido.
Ribattendo a Bucharin – che stava infarcendo con aforismi latini e bons mots francesi il discorso tenuto davanti a un pubblico che per un terzo era composto da persone senza educazione secondaria e con una conoscenza molto approssimativa della lingua russa – Surkov pose l’accento sull’avvicendamento delle classi sociali in corso, sia tra gli scrittori che tra i lettori, e sulle infinite prospettive che permetteva l’introduzione nella letteratura dell’esperienza delle classi sociali inferiori.
D’altra parte, Lugovksoj insistette sul fatto che il realismo socialista offrisse la possibilità sia di vincere contro il fato della tragedia greca, sia di unire “il luminoso e il gioioso”, secondo la definizione di Marx, ovvero di coniugare l’antica definizione della bellezza con la visione cristiana della “bellezza e forza dell’uomo nella vergogna mortale” e con la possibilità di sfuggire alla prigionia dell’egocentrismo individualista (qui cita Eraclito: “tutti gli svegli vivono in un mondo comune, mentre ciascun dormiente se ne va in un mondo proprio”).
Il pregiudizio secondo cui l’Assedio di Leningrado non è stato affrontato nella letteratura sovietica è molto diffuso, ma si tratta di una falsità: il Premio Stalin del 1941 fu assegnato a Nikolaj Tichonov per il poema Kirov s nami (Kirov con noi); quello del 1945 venne consegnato a Vera Inber per il poema Pulkovskij meridian (Il meridiano di Pulkovo) e il diario leningradese Pocti tri goda (Quasi tre anni); quello del 1950 fu vinto da Ol’ga Berggol’c, divenuta nota come la “musa dell’Assedio”, in realtà non per i versi e i poemi dedicati alla Leningrado assediata (all’epoca il governo della città era appena stato estromesso dal potere, evento noto come il cosiddetto “caso di Leningrado”, e non era possibile premiare un’opera di questo tipo), ma per il poema Pervorossijsk, dedicato ai membri dell’omonima comune post-rivoluzionaria (anche in questo caso un tema distante dalla linea principale tenuta dal partito negli anni del tardo stalinismo). Infine, in un’epoca diversa, per quanto lontana dal liberalismo del Disgelo, Aleksandr Cakovskij ricevette il premio Lenin nel 1978 per il romanzo Blokada (L’assedio), mentre Daniil Granin, uno degli autori di Blokadnaja kniga (Il libro dell’assedio), venne insignito dell’Ordine di Lenin nel 1984. È evidente che non si è verificato un occultamento del fatto, bensì di una diversa interpretazione degli eventi.
Ma cerchiamo di esaminare brevemente la poesia dell’Assedio, scendendo piano piano la scala sociale. Nel suo gradino più alto, la nobiltà e la borghesia, troviamo Anna Achmatova, che durante gli ultimi anni della guerra fu una figura letteraria di primo piano: le sue poesie furono pubblicate nelle principali riviste letterarie e negli almanacchi, così come sui giornali. 
“Pravda” e “Izvestija”; fu eletta nel consiglio della sezione di Leningrado dell’Unione degli scrittori; intervenne per radio, nella Sala delle Colonne della Casa dei Sindacati, e fu accolta con grande calore. 
Le poesie che Achmatova dedica alla guerra sono ispirate dall’esperienza profondamente personale della tragedia, ma, se ci si interroga sul loro destinatario, possiamo cercare di arrivare al cuore delle contestazioni, che nel 1946 seguirono alla delibera della Commissione organizzativa (Orgbjuro) del Comitato centrale del Partito Comunista a proposito delle riviste “Zvezda” e “Leningrad” (sebbene sarebbe più corretto dire che era la delibera a fondarsi su di esse) e al relativo discorso di Ždanov che la seguì. Sarebbe bastato riflettere su chi fosse diventato il lettore sopravvissuto a quegli eventi catastrofici (non il “suo” lettore, ma il lettore nel suo complesso) e come lo vedesse lo Stato, che con questo stava cercando un nuovo modello di dialogo alla luce di una parte inseparabile del progetto rivoluzionario: “l’educazione dell’uomo”.
Il problema era concreto: come era possibile educare un uomo che era appena tornato dal fronte, che aveva subito una tragedia nelle retrovie o che aveva forse perso metà della sua famiglia? Come si poteva parlare con una persona del genere?
Achmatova, con tutta la sua elevatezza di spirito e la sua sacra tragicità, non riuscì a vedere il volto di questo lettore sovietico, ma continuò a rivolgersi ai rappresentanti della sua classe sociale. Ecco una delle sue più famose poesie di guerra:

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[Ai vincitori 

Dietro le porte di Narva,
davanti solo la morte...
Così la fanteria dei Soviét marciava
Nelle bocche gialle delle “Berte”.
Di voi scriveranno i libri
“La vita offrirono per il prossimo”,
giovani senza pretese –
Van’ka, Vas’ka, Alëška, Griška –
nipoti, fratelli, figli!].

Per prima cosa: chi sono i soldati della Seconda guerra mondiale? Sono persone nate tra il 1900 e il 1925. E chi è una persona che è nata attorno al 1900? Chi sono i suoi genitori? Figli di schiavi. Quindi lui, questo soldato, è un nipote di schiavi che porta dentro di sé l’infamia della servitù della gleba: un trauma che nessuna rivoluzione può lavare via. Nella lettura di versi simili da parte di un lettore di questo tipo, i nomignoli “Van’ka, Vas’ka, Alëška, Griška”, impiegati dai padroni per i loro servi, evocano dei ricordi talmente nitidi che viene meno qualsiasi altra conversazione. A parte questo, poi, è chiaramente rilevante anche l’ambiente: chi ha vissuto la guerra è attento ai dettagli. E quali sono i dettagli qui? Si tratta di un puro e semplice manierismo letterario: cosa vuole dire “marciò dritta nelle bocche gialle delle 'Berte’?” È un riferimento alle finestre “nella casa vicina” della poesia Fabrika (La fabbrica) di Blok? Chi è stato a vedere la bocca da fuoco gialla delle armi? I soldati che hanno visto queste armi per tre anni sanno di che colore sono. E, in ultimi, di quali “Bert” stiamo parlando? La Berta era diffusa durante la Prima guerra Mondiale: da allora sono passati trent’anni, ma la poetessa è rimasta nel mondo del suo passato.
Il secondo livello è quello dell’intelligencija piccolo borghese di cui fa parte Gennadij Gor. I genitori erano rivoluzionari di professione e lui nacque in Buriazia, dove la famiglia si trovava in esilio. I rivoluzionari, però, non rappresentavano una classe sociale – mentre è proprio la visione di classe a essere l’argomento di questo studio – erano, in ogni caso, delle persone legate al passato, che fecero la rivoluzione per guidare il popolo in rivolta e, dopo la vittoria, crescerlo ed educarlo. 
Gli anni Venti furono caratterizzati da un gran numero di discorsi dedicati alla “vita educata”, a come si dovesse “mangiare educatamente”, “bere educatamente”, “vestirsi educatamente”, “comportarsi educatamente”. Di cosa si trattava? E come si opponevano a questa educazione i poeti dei primi anni del realismo socialista, come Aleksandr Prokof’ev? Descrivendo una rissa di campagna, il poeta sembrava che dicesse: “questo è il nostro modo di fare, siamo contadini e abbiamo vissuto così per secoli”. Il suo modo di testimoniare le pratiche contadine è uguale a quello avuto dopo la Rivoluzione dalla cultura borghese: non ammette che ci sia qualcuno in grado di insegnargli cosa sia “culturale” e cosa no, perché, come afferma in una sua poesia, “abbiamo difeso, compagni, il nostro potere sovietico”.
n alcuni casi Gor è stato definito come un oberiut post-OBERIU. Ma chi sono stati gli oberiuty da un punto di vista sociale (a proposito, anche il padre di Charms era un esule politico)? Erano persone che avevano completamente smarrito il loro capitale sociale. È proprio alla piccola borghesia che la rivoluzione ha portato via tutto (ai “portatori” dell’habitus nobiliare e alto borghese era rimasta la “grande cultura”). Per loro, la costruzione del socialismo era diventata il mondo dell’assurdo e le modalità con cui hanno espresso e incarnato questa realtà ci dicono assai di più sui tormenti di una classe sociale un tempo privilegiata di quanto potrebbe fare qualsiasi rispettabile rappresentante di ceti un tempo superiori.

I versi di Gennadij Gor – e questa è stata una perdita terribile per la nostra poesia – sono rimasti sconosciuti fino al 2002 (ma anche la prima pubblicazione è passata inosservata), per volontà dell’autore stesso. In questo caso non si tratta solo di censura ma di qualcos’altro di estremamente importante. 
Mentre Achmatova scrisse i versi dedicati all’Assedio sia quando era a Leningrado, sia nel periodo in cui fu evacuata (e qui vale la pena ricordare che non visse il momento più terribile della carestia), sia una volta ritornata in città, Gor compose tutte le sue poesie (che non aveva scritto prima né scrisse dopo, essendo un prosatore) mentre era evacuato: nel miserabile inverno del 1941-1942 non aveva, come la maggior parte dei sopravvissuti, le forze per scrivere.

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[Qui il cavallo rideva e il tempo galoppava.
Il fiume entrava nelle case.
Qui il papà era la mamma,
E la mamma muggiva.
All’improvviso esce il portinaio,
Va a sinistra.
Trasporta legna da ardere.
Spinge il tempo con il piede,
Prende a calci gli anni
E getta dalla finestra quelli che dormono.
Gli uomini si siedono
E mangiano il sapone,
E bevono l’acqua della Neva,
rifacendosi la bocca con l’erba.
E la ragazza fa la pipì in piedi
Lì dove ha passeggiato da poco.
Lì dove cammina la primavera vuota,
Lì dove vaga la primavera]

Si tratta di una poesia terrificante, dedicata alla catastrofe: il protagonista, che ha perso il senno a causa della distrofia alimentare, è circondato da realtà e miraggi indistinguibili gli uni dagli altri. Il poeta si è ritirato in se stesso e il mondo intero si è ristretto in un punto doloroso al suo interno. La realtà circostante e le altre persone sofferenti si sono allontanate da lui.
I personaggi delle liriche dell’Assedio composte da Gor, se compaiono, sembrano delle maschere o delle scenografie spaventose. Non furono solo i poeti e i loro lettori, persone del “mondo della cultura”, a perire nel disastro, ma anche altri esseri viventi scomparvero nell’inferno della fame: donne arrabbiate, vecchi indolenti, adolescenti inferociti, bambini emaciati. Il poeta li ha notati? No, non l’ha fatto: Gor si è ritirato in se stesso e quando si è riavuto, una volta passato quel po’ di tempo necessario per guarire almeno in parte dal trauma, ha smesso di scrivere poesie. È forse possibile che, per il resto della sua vita, abbia provato qualche ostacolo etico non solo a pubblicare questi versi, ma anche a leggerli alle persone più vicine? All’interno della problematica legata alla disumanizzazione dell’essere umano (“Se questo è un uomo”, come disse Primo Levi), discutere di Gor, spaventato dalla censura sovietica, non sembra un argomento convincente.
Ma proseguiamo. È estremamente difficile, a nostro avviso, definire chi appartenesse alla nomenclatura sovietica negli anni precedenti la guerra. Durante i due decenni trascorsi tra la Rivoluzione e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, non era potuta emergere una nuova classe sociale vera e propria, perché questo processo avrebbe richiesto un cambio generazionale all’interno del gruppo privilegiato giunto al potere. La prima domanda a cui rispondere è: a quale classe sociale appartenevano queste persone? A questo punto, mentre si tenta di dare una risposta, il compito diventa arduo, dal momento che il Grande Terrore ha modificato in larga misura la composizione di questo gruppo. Dal nostro punto di vista, sono due i poeti dell’Assedio che si collocano logicamente in questo terzo livello: Nikolaj Tichonov e Vera Inber.
Nikolaj Tichonov proveniva da un ambiente piccolo borghese – così come, del resto, la maggior parte dei poeti rivoluzionari di cui fu un esponente di spicco – e, per molti versi, rappresentò il volto della poesia sovietica degli anni Venti. In seguito alla creazione della nomenclatura degli scrittori sovietici (l’Unione degli scrittori sovietici) ne ricoprì una delle cariche principali, in quanto capo della sezione di Leningrado. Sfuggì alle repressioni del 1937 e con l’inizio della guerra ottenne una posizione di rilievo nel Comando politico del fronte di Leningrado. Al termine della guerra divenne presidente dell’Unione degli scrittori. 
La poetica dei versi rivoluzionari di Tichonov, tuttavia, era lontana dal realismo socialista, apparendo piuttosto una continuazione della linea di Gumilëv (solo che gli eroi di quest’ultimo erano, convenzionalmente, dei “bianchi”, mentre quelli di Tichonov erano “rossi”). Si trattava di persone con la stessa etica e la stessa comprensione dell’eroismo, dal momento che anche l’eroismo, naturalmente, possiede una sua dimensione di classe. Ricordiamo la Fenomenologia dello spirito di Hegel: l’uomo sceglie la libertà o la morte; colui che sceglie la morte e sopravvive diventa un rappresentante della classe dirigente, mentre chi sceglie la vita diventa uno schiavo.
L’eroismo delle classi oppresse è di un tipo completamente diverso e consiste nel momento in cui l’uomo che non ha scelto la libertà ma la vita da schiavo all’improvviso dice: “No!”
Ricordiamo Komu na Rusi žit’ chorošo (Chi vive bene in Russia?) di Nikolaj Nekrasov (“Del servo esemplare Jakov il fedele”):

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[Ma tra i servi si trovano
Qualche volta dei veri e propri cani:
quanto più dura è la punizione
tanto più bene vogliono al padrone].

I versi raccontano di un cameriere che porta il proprio padrone-aguzzino paralizzato in una foresta deserta e si impicca davanti ai suoi occhi. 
Questo eroismo, l’eroismo degli oppressi, si risveglia quando il senso di umanità (di giustizia? Della verità? Del bene?) si ridesta improvvisamente in un uomo che ha perso quasi del tutto l’aspetto umano a causa dell’umiliazione. Un esempio, più tipico del Ventesimo secolo, è quello dell’uomo che per tutta la vita si è umiliato, piegando la schiena in una fabbrica o in una piantagione (con moglie e figli): improvvisamente, qualcosa dentro gli esplode e questo stesso uomo sale sulle barricate o si unisce ai partigiani e rimane ucciso. Perché?
Se vogliamo parlare seriamente dell’eroismo durante la Seconda guerra mondiale, non dobbiamo dimenticarci del cambiamento avvenuto nelle classi sociali. Nelle poesie di Tichonov parrebbe che nulla sia cambiato, come se la Rivoluzione fosse appena iniziata o dovesse avvenire il giorno dopo. Ma erano passati vent’anni dall’ottobre del 1917 ed era stata costruita una società fondamentalmente nuova, tanto che anche la gente era cambiata. 
Ecco un frammento del poema Kirov s nami (Kirov è con noi), pubblicato sulla Pravda del 1 dicembre 1934 (il giorno della morte del leader dei comunisti di Leningrado).

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[Le case e le recinzioni sono distrutte,
L’arco in rovina è spalancato,
Nelle notti di ferro di Leningrado
Kirov cammina per la città.
Un combattente, giusto e terribile,
in silenzio cammina per la città.
L’ora è tarda, sorda e gelida...
Severa, come una fortezza, la fabbrica.
Qui non ci sono pause nel lavoro,
Qui hanno scordato il riposo e il sonno,
Qui le persone sono molto in pensiero,
ma solo poco sudore cola sulle tempie.
Che la fiamma rossa di un proiettile
Arda più volte nelle officine,
Lavora al meglio, come si deve,
Scaccia la fatica e la paura.
Uno attimo di stupore lega
Gli uomini, ma esce un vecchio:
Ascoltate cosa ha da dire questo nonno,
La sua lingua non è corrotta:
“Che le nostre zuppe siano annacquate,
Che il nostro pane valga oro,
Staremo in piedi, dritti come d’acciaio,
Poi riusciremo a stancarci”].

Sono certamente dei meravigliosi versi densi di eroismo ma…dov’è qui l’operaio?
Il vecchio? “Che le vostre zuppe siano annacquate…”? Non è così che parla un operaio: a casa ha già una moglie anziana, gonfia per la fame, dei figli o dei nipoti che non piangono più, ma tacciono storditi…non parlerebbe mai così. Si tratta di nuovo di manierismo letterario, lo stesso presentato da Achmatova. Sì, il testo è esteticamente bello (una virtuosistica parafrasi di Vozdušnyj korabl’ [Il vascello aereo] di Lermontov), ma non rappresenta la verità e tantomeno la realtà di queste persone, perché l’eroismo dell’operaio è di un altro tipo: qui vediamo solo l’eroismo del padrone, mentre, a dire il vero, si è assistito al coraggio degli schiavi che hanno cessato di essere schiavi, nonostante conservassero i traumi della schiavitù.
Passiamo ora a Vera Inber, nipote di Trockij, che trascorse presso la famiglia della ragazza gli anni della scuola. In realtà, la famiglia non apparteneva tanto alla piccola quanto alla borghesia vera e propria, sebbene le origini ebraiche non dessero loro gli stessi diritti dei cristiani. Vera Inber si sposò in prime nozze con un ricco borghese, visse a Parigi e prima della Rivoluzione si fece un nome in ambito letterario: quando, nel 1914, furono pubblicati in contemporanea Cetki [Rosario] di Achmatova e il primo libro di Inber, Pecal’noe vino [Vino triste], i critici li confrontarono e ad Achmatova preferirono spesso Inber. Questo testimonia, come minimo, una certa bravura. Quella che segue, però, è un’altra storia: prima il gruppo dei costruttivisti, poi il tentativo di diventare una vera poetessa sovietica (con i viaggi di propaganda nei cantieri del socialismo, ma anche con le traduzioni dei libretti d’opera). Quando scoppiò la guerra, Inber era la moglie del rettore del Primo Istituto di medicina di Leningrado (i coniugi appartenevano alla nomenclatura e, con l’inizio dell’Assedio, godettero di grandi privilegi). Tutti i memorialisti sottolineano che nei mesi più terribili dell’inverno 1941- 42 la poetessa aiutava sistematicamente i suoi amici e una volta alla settimana offriva il pranzo a qualche uomo di lettere affamato. Non possiamo che inchinarci con gratitudine davanti a questo gesto, ma non è la sua personalità che ora ci interessa (di solito si parla di Inber come di un’opportunista filogovernativa sovietica e non vale la pena ripetere acriticamente queste affermazioni). Continuiamo a considerarla come una vera poetessa e vediamo come ha lavorato con il materiale dell’Assedio nel poema Pulkovskij meridian. 

23
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[…] Giorno dopo giorno
Dalle nostre cellule scompare il calcio.
Diventiamo più deboli. (Prendete anche solo me:
Un piccolo graffio sul dito,
ed è passato già un mese, anzi, tre
ma non si rimargina, accidenti!)
24
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24
Così penoso e, ancora, così veloce
È adesso l’invecchiare dei volti!
I tratti Portati all’asprezza degli uccelli
Come per mano di un lugubre truccatore:
Ha aggiunto un po’ di cenere e mescolato il piombo
E l’uomo sembra un cadavere
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25
Si aprirono i denti, si affilò la bocca,
il volto di cera. Una barba da cadavere
(che nemmeno il rasoio può levare).
Un’andatura quasi senza baricentro,
una mano grigia quasi senza polso.
L’inizio della morte. La disintegrazione della proteina.
26
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26
Le donne mostrano gli edemi,
Continuano a raffreddarsi (e non è per il freddo).
Lo scialle a maglia, un tempo bianco
Sta sempre più stretto, a croce, sul loro petto.
Puoi credere che questo petto
Abbia mai potuto nutrire un bambino
........................................ ........................................
 28
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 28
Ma lì, dopo, arriva la fine.
E in una vecchia coperta color polvere,
Appuntata con spille inglesi,
Sta il morto legato con la corda
Su una slitta, così ben attrezzato
Che, forse, non è il primo della famiglia.
 29
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 29
Ma il passante porta, in una coperta blu,
Un lattante, la salute stessa,
Anche se non di donna, nemmeno di mucca,
ma di soia è il latte con cui lo nutre.
Non è solo un incontro in movimento:
Qui si passa il testimone della vita...] 


Non sembrano dei versi dovuti all’opportunismo, anzi, in molti casi sembrano tratti da un libro di medicina vietato ai lettori sprovvisti di un’autorizzazione speciale, Distrofia alimentare nella Leningrado assediata (1947). 
Certo, alcuni passi portano il timbro dell’uso “corrente”, come l’ultima strofa, che è tipicamente sovietica: “ma la città viveva…”, “ma la città combatteva…”, “ma le muse non tacevano…”, anche in questo caso, però, non è esattamente così.
Abbiamo, qui, qualcosa in più: la poetessa, che vive in un appartamento riscaldato, che mangia poco, ma senza rischiare la vita, che non passa il tempo, dalla mattina alla sera, in coda, sperando di comprare delle tessere annonarie per un pezzo di carne lavorata, dei cereali, del grasso e dello zucchero, vede ciò che succede intorno a sé e si dispiace (se non altro visto il suo relativo benessere) per chi la circonda, anche se continua a non capire niente. Che senso aveva menzionare una ferita da taglio al dito? Per un sopravvissuto all’Assedio sentire queste cose è un sacrilegio: c’erano persone con i piedi gonfi e senza più denti a causa dello scorbuto, c’erano bambini con i peli sul viso ed ecco, nella lirica, una borghese che si è tagliata un dito. Notiamo, però, come l’occhio femminile si fermi con tenacia sulle piccole cose, ad esempio un cadavere avvolto in un panno fermato con spille inglesi. È un dettaglio che rivela l’essenza di un grande poeta. Tuttavia Inber – che più tardi, nonostante la sua condizione privilegiata, perderà un nipote – non comprende i suoi personaggi, né tantomeno che c’era bisogno di soldi e risorse incredibili affinché una donna partorisse durante l’Assedio e il bambino rimanesse vivo!

Confrontiamo, però, questi versi con il raccolto di Ol’ga Berggol’c Banja (Il bagno), dove una signora privilegiata si reca in un bagno e lì trova altre donne distrofiche, magrissime. Una di loro si avvicina alla signora, le schiaffeggia il sedere e dice: “Ehi, carina, non venire qua, guarda che ti mangiamo. Proprio ora…non abbiamo molto tempo…Puttana…”. 
Eccola qui l’abissale differenza tra le classi sociali: Berggol’c è la portatrice dell’ottica del realismo socialista, capisce queste persone come se ci fosse stata anche lei, in quel bagno, per quanto godesse in verità di una situazione privilegiata. Nel Dnevnik (Diario), il 12 aprile 1942, registra: “Ho un aspetto attraente. Dal viso sono sparite tutte le pustole, non ho quasi rughe, per quanto sia incredibile non ho mai avuto una pelle così levigata, quasi di seta [sic]. Le spalle ampie e candide e i seni rotondi, tonici, attraenti”. Nonostante questo, però, Berggol’c ha la capacità di vedere e capire queste persone, mentre Inber riflette ancora la vecchia vulgata borghese che ripete “sì, abbiamo compassione di voi”, anche se si tratta della stessa pietà che traspare dai quadri degli Ambulanti. Proprio come nel quadro Trojka di Vasilij Perov: sono ritratti tre bambini legati a una botte come bestie da tiro, ma l’artista non capisce il meccanismo di violenza che li costringe a fare questa cosa. Per comprenderlo, è necessario un altro tipo di esperienza sociale.
Berggol’c, a nostro avviso, è la più complessa e interessante voce autoriale dell’Assedio. Con il suo passato, la mésalliance dei genitori e il declassamento sociale che l’ha sradicata da un’ambiente piccolo borghese e le ha permesso di entrare a far parte dei primi nuclei del Komsomol, composti da quegli idealisti che ambivano ai valori più elevati.
La sua visione era assolutamente in sintonia con il mondo di queste persone con cui aveva trascorso la giovinezza, e il padre, tedesco del Baltico e laureato all’Università di Dorpat, a Tartu, non fu d’ostacolo.
Così, fin dai primi giorni di guerra, iniziò a scrivere servendosi del materiale che le forniva l’Assedio. Per lei si trattava, prima di tutto, di un atto di liberazione dal trauma di sei mesi di prigionia e interrogatori: era divenuto di nuovo chiaro chi fosse il nemico e dove si trovasse. Anche se era stata assolta per una qualche circostanza miracolosa, quei sei mesi l’avevano seriamente traumatizzata: come poteva essere altrimenti? Lei, che aveva dato il suo cuore per la rivoluzione, all’improvviso era stata accusata di tradimento! Qui non si trattava certo dei vecchi "nostalgici", che non si aspettavano altro dal nuovo governo.
Dunque, iniziata la guerra, come prima cosa Berggol’c introduce nei suoi versi le persone comuni, della strada. Cosa hanno trovato nella guerra quei “maestri della parola”, come Tichonov? Le file serrate di eroi defunti e l’incedere ferreo di un capo ormai morto, ma non certo i cadaveri per le strade o le persone affamate: queste non sono immagini eroiche. 
Ecco, invece, Razgovor s sosedkoj [Conversazione con la vicina] di Berggol’c. Scritta, tra l’altro, già il 5 dicembre 1941 (il giorno dell’inizio dell’offensiva su Mosca).

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[Dar’ja Vlas'evna, la vicina di casa,
ci siederemo, per conversare assieme.
Sai, parleremo del mondo,
del mondo che vogliamo, il nostro.

Abbiamo vissuto quasi sei mesi,
da centocinquanta giorni dura la battaglia.
Sono gravi le sofferenze del popolo
I nostri, Da’rja Vlas’evna, sono con te].

Certo, qui c’è un’interruzione, quando irrompe il tono ufficiale (“Sono gravi le sofferenze del popolo”), ma è la poetessa che lo pronuncia, non il suo personaggio: in bocca a lui, queste parole sarebbero suonate come una bugia indecente e insostenibile, mentre lei lavora nel comitato radiofonico, prende parte ai programmi di propaganda, per lei è normale. 

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[Oh, gli ululati del cielo notturno,
il tremore della terra, una frana vicina,
quasi non riesce a tenere in mano
una povera fetta di pane di Leningrado…]

(per dire una cosa del genere, bisogna davvero aver tenuto in mano quella fetta di pane).

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[Per vivere al centro dell’assedio,
sentire ogni giorno il fischio della morte –
quanta forza ci serve, vicina mia,
quanto odio e amore…

Così tanto che nei momenti di sgomento
non riconosci te stessa:
“Posso sopportarlo? Sono abbastanza forte?”
-“Puoi farlo. Pazienta. Sopravviverai”].

“Pazienta!” Un ritorno alla vecchia immagine contadina, dato che il contadino è colui che sopporta; in questa sopportazione c’è un certo eroismo.

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[Dar’ja Vlas'evna, ancora un poco,
verrà il giorno che sulle nostre teste
squillerà l’ultimo allarme
e suonerà l’ultima ritirata.

E quanto lontana, passata
sembrerà la guerra a me e a te
nell’attimo in cui apriremo le imposte
e strapperemo dalle finestre le tende nere

Lasciate che la casa risplenda e respiri,
che si riempia di calma e primavera…
Piangete piano, ridete piano, più piano,
godiamoci il silenzio.]

La poesia del realismo socialista non rispecchia una dichiarazione privata e superflua. Compie, simile alla poesia liturgica, quella missione che i decadentisti hanno definito “sobornaja” [conciliare], educando in un modo o nell’altro il proprio lettore. Non può certo calarlo in un’atmosfera disperata (“lo spirito dell’ozio e della tristezza”), nonostante nel dicembre del 1941 ci fosse spazio per ben poco, oltre la disperazione. Ma non lo può fare. Non si può dire a un moribondo: “Stai per morire, hai una distrofia alimentare al terzo stadio: anche se ti nutrissero ora, non sopravviveresti. Ormai è troppo tardi!”. Una cosa del genere l’avrebbe potuta fare, e l’ha fatta, uno scrittore borghese (“un realista senza sponde”4 ), ma uno scrittore del realismo socialista non avrebbe potuto dirlo: per lui ritrattare in modo del tutto realista uno storpio o un moribondo avrebbe voluto dire deridere le vergogne del proprio padre, diventando come Cam. E colui che si trovi in una tale condizione di necessità è proprio come un uomo con le vergogne scoperte. Ecco perché la poesia del realismo socialista mostra una tragicità senza pari: da un lato, dice la verità (“Piangete piano, ridete piano”), ma dall’altro, questa verità viene detta in maniera tale che sia necessario sapere come ascoltarla (cosa vuole dire “piangete piano…?”).
Qualche anno dopo, Berggol’c scriverà la continuazione di questa poesia, Vtoroj razgovor s sosedkoj [Una seconda conversazione con la vicina], dove appare il verso “Hai sepolto cinque persone”. Nel 1944 era possibile dire una cosa del genere, perché l’Assedio era finito, ma allora, nel 1941, quante persone aveva già sepolto? Non lo sappiamo.
Un’altra questione molto importante è quella del punto di vista dell’uomo comune, dell’operaio e del contadino. Chi era questa donna? Molto probabilmente, la moglie di un operaio: lui lavorava in una fabbrica, lei restava a casa, preparava la minestra e lavava la biancheria dei figli, come si usava nelle famiglie degli operai. Erano le loro pratiche di sopravvivenza e rifiutarle significava rinunciare ad avere figli. Non c’erano gli elettrodomestici moderni e fino alla fine degli anni Cinquanta alcuni appartamenti di Leningrado non avevano il gas e, spesso, nemmeno l’acqua calda (per fortuna c’erano l’acqua corrente e le fognature). Prima della guerra non c’era il riscaldamento a vapore, si usavano le stufe. In queste condizioni di vita, rifiutare la quotidianità significava rinunciare ai figli. Berggol’c lo capì a causa della sua terribile esperienza; rifiutò le regole della quotidianità e il modello patriarcale della donna e il risultato fu che entrambe le sue figlie morirono.
Dar’ja Vlas’evna, invece, aveva con ogni probabilità passato tutta la sua vita ai fornelli, all’acquaio, a fare il bucato e a stirare. Aveva cresciuto i suoi figli che, presumibilmente, erano morti: i più grandi erano andati al fronte e non erano tornati, mentre quelli più piccoli erano morti di fame nella città assediata.
Niente di tutto questo viene detto esplicitamente, ma si cela dietro i versi di Berggol’c. Non è possibile pronunciare queste cose in modo diretto, ma in realtà vengono nominate, solo in un modo diverso, comune nel realismo socialista, pensato per un lettore con un’esperienza che gli avrebbe permesso di vedere ciò che si trovava dietro le nere lettere tipografiche.

Traduzione di Iris Karafillidis  

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