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IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 112-113 (scarica il pdf)

FLAVIO SANTI, Quanti (Truciolature, scie, onde, 1999-2019), prefazione di Niccolò Scaffai, Industria & Letteratura, 2020, pp. 112, € 15,00.


«Quanti graffi quanto dolore / Quante lacrime quanto seme / Quanta rabbia quanto sudore / E quanto di me distrutto»: l’ultimo libro di Flavio Santi mi ha fatto tornare in mente, transitati per i meandri capricciosi della memoria attivata dalle ricorrenze verbali, questi versi di Giovanni Giudici letti e amati da giovane. Che il titolo della raccolta e il cognome dell’autore, nella cornice della copertina, siano in rima può essere casuale, ma suggerisce lo stesso una pista di lettura: quanti Santi, in questo libro, e quanti anni, quante perdite, quanto amore, anche, e quante illusioni coltivate e perdute. Ciò che viene trattato come l’illusione più grande, e da cui ostentatamente si prende congedo, qui è proprio la poesia. Il carattere residuale della raccolta, dichiarato nella prima parte del sottotitolo (truciolature), ribadito nella nota conclusiva – dove si legge che i testi inclusi sarebbero «residui, trucioli, frantumi di un’era che per me è geologica», quella della «scrittura di poesia» per l’appunto – armonizza volutamente con il suo immaginario, incline alla lettura dei paesaggi reali, culturali e psichici, come rovine. Rovine parlanti: alla lettera grazie alla classica strategia retorica della prosopopea (come nel Canto di un’area dismessa, dove il macrooggetto inanimato del titolo diventa soggetto locutore), o per metafora, come nello scenario postapocalittico immaginato in A me morendo vivo, dove gli esploratori alieni sbarcano su una Terra ormai deserta trovando le vestigia di una civiltà ibrida umano-artificiale, antropo-robotica, tutta da ricostruire nei loro manuali di xenostoria. Ma alla fine anche questo stadio delle cose-segno e della comunicazione delle rovine viene oltrepassato, se il libro si chiude prospettando, o forse invocando, l’espansione e l’esplosione del Sole, che divorerà i pianeti del suo Sistema prima di contrarsi nuovamente (nella poesia finale Così minacciosi, che occupa da sola la sezione Oltre). L’impressione che lascia Quanti, allora, è quella di un tentativo di autoarcheologia progettato dal suo autore, sul piano personale e affettivo come su quello antropologico e politico. Tentativo just in time, si direbbe, se dopo la combustione stellare, brutalmente privata di ogni sfumatura sublime tramite un improvviso cambio di registro («Tutto finirà in un enorme scarico di lavandino. / Anche a Dio gli si stringerà il culo»; si pensa ovviamente a una ripresa di Eliot e del celebre finale di The Hollow Men: il mondo non finirà con un botto e nemmeno con un flebile lamento, ma con un osceno risucchio), a fare da explicit sta un doppio irrimediabile addio («Addio tutto, addio Dio»).
Per capire come questa linea di senso si articoli, e soprattutto se sia l’unica, occorre guardare un po’ più da vicino la raccolta, partendo dai suoi spazi vestibolari e interstiziali. Questo piccolo esame è utile anche per fare ipotesi sul significato del titolo complessivo, Quanti, che non si riduce a un generico riferimento al campo della fisica subatomica, molto frequentato, e spesso a sproposito, dalla letteratura negli ultimi cinquanta o sessant’anni. Il libro è ripartito in quattro sezioni, ciascuna introdotta da un frammento testuale in esergo. In tre casi questo frammento contiene la parola quanti, ma solo nella sezione iniziale il termine ha valore sostantivo e significato  attinente alla fisica (è una citazione da Albert Einstein). Nelle altre due occorrenze quanti ha valore pronominale e sta all’interno di citazioni poetiche. La terza sezione, Lapidario degli incipit, è introdotta dal celebre verso dantesco «Quanti si tegnon or là su gran regi» (ottavo dell’Inferno, e la memoria poetica di molti continuerà in automatico: «che qui staranno come porci in brago»); ad accompagnare la quarta sezione, Oltre, sta un verso del grande poeta africano Léon-Gontran Damas, nella traduzione di Vittorio Sereni: «quanti di me ne sono morti POI». Un congedo alla poesia con accompagnamento di poesia allora, quantomeno. Commento brevemente Lapidario degli incipit. Come dice chiaramente il titolo, è una specie di cimitero di poesie abortite, fallite e inconcluse: vanno da un solo a molte decine di versi e sono quasi tutte (due le eccezioni) corredate da qualche rigo di puntini dopo l’ultimo verso scritto, a sottolinearne il carattere di torso.
Sono (sarebbero state) tutte poesie di argomento civile o sociale. Questa è la sezione più concettuale, e anche francamente più irritante (credo per deliberata scelta dell’autore), del libro: se nella sezione precedente, Memorie dello schermo di vetro, pubblico e privato si alternavano e intrecciavano, e la poesia tentava ancora di costruire personaggi-voci parlanti e di restituire la temperatura psichica dell’epoca dei simulacri televisivi e poi della connessione globale, qui quel piccolo coro di voci singole si dissecca nella tonalità di un’invettiva che si vorrebbe feroce ma si strozza subito in gola: così come le reiterate esortazioni a ricordare sprofondano nella conclamata ininfluenza e nell’invisibilità della poesia nel panorama mediale contemporaneo. Questi testi non sono finiti, mi pare che suggerisca Santi, perché non esiste alcun motivo per finirli. Il prossimo Dante non sarà un poeta. Insomma, questo è lo spazio metacomunicativo in cui si dovrebbe sancire la rinuncia alla poesia. Cecidere manus. 
Eppure qualcosa sopravvive all’ennesima distruzione in pubblico dell’attività poetica, e sta all’inizio del libro. È il breve canzoniere amoroso e coniugale intitolato Chiara, che è senz’altro il quanto di luce – per metafora e solo per metafora quantistica – dell’opera. Non ho a disposizione nessun elemento oggettivo dirimente per dimostrarlo, solo il mio orecchio di lettore (dunque l’osservatore interferisce sull’osservato e osserva anche sé stesso, come l’ermeneutica sapeva molto prima di Heisenberg), ma ho la sensazione che queste siano le poesie che Santi ha scritto per ultime. E, azzardo, sono tra le cose più belle che abbia scritto. Al centro della scena c’è una coppia di lungo corso, la cui storia viene riaggregata per lampi a partire dal corteggiamento per arrivare ai silenzi, alle assenze, ai rimuginii, agli improvvisi fulminei istanti di comunione della convivenza prolungata. La casa buia o in penombra, la camera, il letto sono coprotagonisti e propiziatori di questa vicenda trasformativa al rallentatore di due pensieri-corpi. 
A prendere la parola e a dire io è l’elemento maschile, ma l’altra voce è sempre implicata, taciuta ma presente ad orientare quella che leggiamo. Finché, in una poesia, si arriva a sentirla risuonare: «Cara tesoro adesso che posso / adesso che puoi, sigillo le tapparelle / sigilli le tapparelle, che respirino poco, appena un fioco / la quasi luce, la quasi ombra / ci sta addosso / la lucertola passa / io amo fare la muta / in silenzio, serpente, / accanto a te, sul letto acuta». A questo punto la sorprendente conclusione di sezione, una breve poesia in friulano (ricordiamo che Santi è o è stato eccellente poeta dialettale) dove l’io ricorda un monito rivoltogli da Franco Loi, che in italiano suonerebbe grossomodo le tue poesie non barattarle con niente, è forse meno incongrua di quanto sembri. La poesia è finita? Certo. Finiamola ancora, finiamola meglio.


di Federico Francucci

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