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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 92-96 (scarica il pdf)

JEAN GERSON Josephina. L’épopée de saint Joseph. Introduction, traduction, notes et commentaires par Isabel Iribarren. Texte établi par G. Matteo Roccati, Paris, Les Belles Lettres 2019 (Bibliothèque Scolastique), 2 volumes, pp. CLXXXV+1266


La Josephina, di circa 3000 esametri latini in dodici parti, è una delle riscritture bibliche in versi latini più imponenti e grandiose della storia letteraria, composta fra 1414 e 1417 dal teologo francese Jean Gerson (1363-1429), cancelliere dell’università di Parigi dal 1395, personalità di enorme peso politico, allora impegnato intensamente al concilio interconfessionale di Costanza, che con quest’opera si proponeva di promuovere il culto di san Giuseppe e il suo rapporto con Maria come figura dell’unione mistica di Cristo e della Chiesa. Finora pubblicata in edizione moderna solo da Ellies Du Pin nel 1706 e nel 1962 da Palémon Glorieux, che non conosceva l’editio princeps di Johann Geiler von Kaysersberg del 1488 né il manoscritto principale, quello di Oxford, all’interno della sua edizione delle opere complete di Gerson, la Josephina è ora finalmente leggibile a stampa in forma autonoma in un doppio volume monumentale per la prestigiosa collana Les Belles Lettres nel testo ricostruito da Giovanni Matteo Roccati, finora reperibile solo su CD-ROM (Jean Gerson, Josephina, Paris, CNRS-LAMOP, 2001, aggiornamento di una tesi di dottorato inedita del 1980) e con amplissimo commento e ricca introduzione di Isabel Iribarren, docente di Storia della Chiesa e filosofie medievali dell’Università di Strasbourg, che ha anche rielaborato la traduzione del filologo Gilber Ouy (venuto a mancare nel 2010), a sua volta sviluppo, pur privo dell’ultima revisione, della versione francese del gesuita F. Picard, che nel 1981 si era già cimentato con il Pastorium dello stesso autore. Il testo di Ouy, la cui memoria apre la prefazione della Iribarren, pare fosse eccessivamente incline a una leggibilità letteraria che oscurava gli elementi dottrinali dell’opera, a partire dalle suddivisioni, denominate canti (chants) invece di distinctiones, termine che rinvia non tanto, genericamente, ai trattati delle Summae giuridiche o teologiche quanto, secondo la curatrice, ai procedimenti di Summae esegetiche come la Summa Abel di Petro d’Ailly o le Distinctiones di Alano di Lille, che discutono interpretazioni dei diversi significati figurali o simbolici di un termine o episodio della Bibbia: ce lo testimonia lo stesso Gerson nella lettera a Michel Bartine Gratia tibi del 1426. Al di là di questo, Iribarren dichiara di aver recuperato anche le omissioni di passi (come i vv. 92-94 del Prologo, importanti per il valore programmatico) e in generale ripristinato  nella traduzione il contenuto dottrinale e le relative fonti e sfumature teologiche senza cercare una metrica precisa ma senza limitarsi a una traduzione in prosa che avrebbe ridimensionato la drammatizzazione del poema e oscurato la formularità programmata dallo stesso autore. Ha mirato quindi a una versificazione libera con cadenze relativamente regolari, inserendo nel testo le rubriche che Gerson ha elencato alla fine del Prologo, e ottenendo, al di là di singole scelte su cui è sempre possibile avere opinioni diverse, un risultato denso ma scorrevole, chiaro anche nello sciogliere i passi più intricati e insidiosi e insieme elegante, liberandosi anche dall’inerzia della tradizione per termini come temptatio, correttamente restituito a “tribulation” al posto dell’erroneo ma persistente “tentation”. Il testo stabilito da Roccati si fonda su nove manoscritti, elencati a p. CLIX ma senza le datazioni: Paris, BnF lat. 3126, 14902, 17488 e 18572; Paris, B. Mazarine 3895; Marburg, UB 69; Tours, BM 378; Oxford, BL, Rawlinson Poetry 156, Città del Vaticano BAV, Reg. lat. 1554. Noi integriamo anche, sulla base del repertorio Mirabile Web, il testimone Pommersfelden, Gräflich Schönbornsche Bibliothek, 169 (2686) II, ff. 194r-200r. A questi si aggiungono, per individuazione successiva all’edizione 2001, estratti di XVI sec. nei mss. Wolfenbüttel, Herzog-August-Bibliothek 2338 e Eichstätt, UB st 423, descritti da Roccati alle pp. CLXIV-CLXXV, ma entrambi esemplati sulla base del testo di edizioni a stampa e dunque irrilevanti per la ricostruzione dell’originale, e le prime stampe del 1488 e 1489: per la disamina e l’analisi della tradizione manoscritta i curatori rinviano alla pubblicazione in CD-ROM del 2001, purtroppo di difficile reperibilità e in ogni caso di difficile consultazione, dal momento che ormai da diversi anni i computer non prevedono slot per i CD-ROM. Invece, alle pp. CLXI e seguente, si elencano le novità, soprattutto di interpunzione, rispetto a quell’edizione. Questa parte, sulla base di ciò che si legge a p. CLXI (“on trouvera dans mon edition de 2001”), si deve probabilmente a Roccati. Il corredo informativo prevede un’amplissima introduzione e un altrettanto vasto commento finale, preceduto da ottime introduzioni alle singole distinctiones. L’apparato comprende una lista delle varianti sotto il testo e un rimando al commento in calce sotto la traduzione; esponenti di nota indirizzano a luoghi corrispondenti del commento.
L’Introduzione (pp. XIX-CLXXV), un libro nel libro, si struttura in una prima parte informativa sul testo e le circostanze della sua composizione, le sue caratteristiche tematiche e le fonti, e una seconda con la ricostruzione dottrinale, l’interpretazione dei passi a carattere mistico e l’analisi del concetto su cui si fonda tutta l’operazione poetica gersoniana, quello delle verità cristiane con valore probabile, a sua volta connesso alla concezione di autorità. Iribarren ricostruisce le relazioni fra la lavorazione del poema e le fasi del concilio di Costanza, da cui uscì, probabilmente per le mani di un segretario di Gerson, l’esemplare confluito poi nell’editio princeps. Questo fa pensare che i Padri conciliari fossero i destinatari primari del testo, che forse contava su una diffusione successiva attraverso ordini monastici cari all’autore come i Certosini e i Celestini (cui apparteneva suo fratello Jean), diffusione che rimase invece molto modesta: secondo Roccati le possibili ragioni sono l’incompletezza del testo e la guerra civile in corso a Parigi, secondo altri le conseguenze dell’affare Petit (l’avvocato di Giovanni senza Paura che difese l’assassino di Luigi d’Orléans, fratello del re e che fu attaccato da molti, fra cui lo stesso Gerson nei suoi sermoni), secondo noi anche per l’eccessiva lunghezza e la supposta complessità del poema, che sembrerebbe accantonare le attrattive narrative o liriche per concentrarsi sulle discettazioni teologiche. La composizione durante il Concilio, sede di fervidi scambi librari, poté favorire anche il reperimento e l’utilizzo delle numerose fonti che Max Liebermann ha individuato nell’intertesto della Josephina, fra modelli poetici, ispirazione dottrinale, interferenze predicatorie (sermoni di Iacopo da Varazze) e riferimenti liturgici come l’officio su san Giuseppe degli agostiniani di Milano. Le dodici distinctiones (di lunghezza variabile da 117 a 406 versi), che seguono l’exordium e il Titulus brevis con gli argomenti trattati, sono organizzate secondo la vita di Giuseppe, dall’Annunciazione fino alla sua scomparsa prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù: questo fornisce l’ispirazione per la scelta del titolo in concorrenza con alternative come Mariana o Iesuina (l’edizione usa sempre la J, anche se alla data del testo questa lettera ufficialmente era appena entrata nell’alfabeto latino). Sul piano letterario Roccati definisce l’opera come “un poema virgiliano di contenuto biblico”. Iribarren ricorda che in realtà il poema epico di argomento scritturistico era un genere letterario autonomo che “aura beaucoup de succès à la Renaissance” – pensando al De partu Virginis di Sannazzaro (e aggiungeremmo almeno la Christiade del Vida) - ma, ricordiamo, in realtà era già la colonna portante del sistema poetico medievale, da Giovenco, Sedulio, Avito, Draconzio e Aratore ai poemetti carolingi a Oddone di Cluny alle riscritture teologiche di Ildeberto e Marbodo e Pietro Riga e Alessandro di Ashby, Lorenzo di Durham ed Eupolemio, Leonio di Parigi e Alessandro di Villadei, Andrea Sunesen e Guido da Vicenza, comprendendo la miriade di componimenti che punteggia il millennio pre-gersoniano e che tutti leggevano a scuola: su questa Bibeldichtung si è sviluppato, come è noto, un immenso filone di studi, ultimo dei quali Poetry, Bible, and Theology from Late Antiquity to the Middle Ages, curato da Michele Cutino per de Gruyter, Berlin 2020, atti di un convegno tenuto a Strasburgo con la partecipazione della stessa Iribarren. La curatrice opportunamente ricorda che alcuni studiosi come Gilbert Ouy e Franco Simone, ma anche Roccati, hanno messo in evidenza l’aspetto umanistico della Josephina e il suo collegamento al movimento culturale del Collegio di Navarra, una sorta di reazione francese al nazionalismo di Petrarca, testimoniata da passi del poema che esaltano la qualità delle scuole parigine. A nostro avviso la questione dell’ambiente culturale non ha un rapporto diretto con la scelta del genere letterario, che appunto è un esercizio ininterrotto nella cultura medievale ed è attestato da centinaia di testi, ma può aver ricevuto un impulso dalla moda corrente in quell’ambiente. In particolare, la storia di Giuseppe era stata messa in versi già molte volte, come documenta M. Derpmann, Die Josephgeschchte, Düsseldorf 1974, qui non utilizzato. Il tessuto stilistico è brevemente analizzato alla p. XLI con riferimento alla varietà di registri, dai passi narrativi alle descrizioni, ai dialoghi drammatizzati e alle riflessioni teologiche insieme a parafrasi bibliche più tradizionali e più liriche come per il Magnificat (vv. 1595- 1620), il Benedictus (vv. 1735-1753) e il Nunc dimittis (vv. 2369-2374). Sul piano del racconto la trama segue un ordo artificialis che non rispetta l’ordine cronologico ma una strategia anagogica intesa a mettere in evidenza il tema dell’ascensione mistica dell’anima attraverso exitus e reditus: fuga in Egitto (1) e soggiorno a Memphis (2) per una riflessione sulla libertà dell’anima e la grazia, ritorno a Nazareth (3), poi racconto della vita da parte di Maria, incluso il loro fidanzamento (3), quindi Annunciazione (4), nozze (5), Visitazione (6), Natale (7), tutto raggruppato intorno al tema dell’insediamento di Cristo nell’anima, quindi circoncisione (8), ritorno indietro all’adorazione dei Magi (9), in rapporto all’itinerario spirituale dell’anima verbigena (Liebligswort gersoniano attestato però fin dal Carmen in Evangelio dello pseudo Ilario di Poitiers, v. 34), massacro degli Innocenti e ricollegamento alla fuga in Egitto (10), infine Gesù fra i dottori (11) e morte di Giuseppe (12) in prospettiva escatologica. In parallelo a questa chiave anagogica costante si colloca la lettura allegorica del matrimonio fra Chiesa e un pastore unico vicario di Cristo, che potrebbe avere una finalità secondaria di politica ecclesiastica all’interno del Concilio in corso.
La tecnica espositiva delle distinctiones segue lo schema tradizionale della predicazione auctoritates – rationes – exempla e utilizza i procedimenti retorici di amplificatio illustrati sia dal Quintiliano appena “riscoperto” da Bracciolini sia e soprattutto nelle fonti familiari al medioevo, come la Rhetorica ad Herennium: lo dimostra l’uso di termini tecnici come argumentum nel senso di narrazione mitica fra la documentalità dell’historia e l’inverosomiglianza della fabula (usati in senso differente da quello in uso nella critica letteraria attuale). Ogni distinctio sviluppa in forma “arborescente” significazioni differenti, come era abituale nel genere dei commenti biblici patristici e medievali, traendone infine conclusioni morali.
Il particolare debito della cultura gersoniana con le fonti francescane è descritto alle pp. LII-LXVI: si tratta soprattutto del Lignum vitae di Bonaventura, dello Speculum humane salvationis pseudo-bonaventuriano e del De imitatione Christi che fu a lungo attribuito allo stesso Gerson. Vi si aggiungono impulsi non francescani come Bernardo di Clairvaux e Iacopo da Varazze, che però sembrano condividere tratti comuni con le Meditationes. Riflessioni particolarmente efficaci riguardano l’espressione pie credendum est, che si trova sia nelle Meditationes Christi sia nell’Abbreviatio di Jean de Mailly (ma l’abbiamo letto già in Agostino, De Trinitate 42) proprio in relazione alla verginità di Giuseppe, e che Iribarren considera una chiave di accesso al nucleo della poetica gersoniana, favorevole al ruolo anagogico della fantasia. Il portato della cultura francescana si concentra dunque nel ricorso agli strumenti e al tono della letteratura devozionale. Su questo tronco portante si innestano altri rami molto influenti come gli apocrifi che riportano eventi ignorati dai vangeli canonici (il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo dello Pseudo-Matteo e le loro forme intermedie), insieme alla tradizione iconografica che ne dipende, studiata da Annik Lavaure in L’image de Joseph, Rennes 2013. La Josephina in questo quadro colma una lacuna epicizzando una materia largamente presente sul piano dell’immagine quanto poco recepita nella letteratura derivativa “ufficiale”. La storia di Giuseppe e Maria comincia ad entrare sotto i riflettori della dottrina da quando, nel XII secolo, la Chiesa cerca di definire la propria concezione del matrimonio dal punto di vista sacramentale. In questo movimento, la Iosephina si inserisce rifiutando, pur con contraddizioni fra le varie parti, alcuni aspetti della concezione iconografica e apocrifa vulgata (ad esempio la tarda età di Giuseppe) ma accogliendone altri, come la storia di Anna e Gioacchino, a sua volta protagonista di una storia di rifiuti apparenti e ricezioni effettive (in Vincenzo di Beauvais, in Iacopo da Varazze), spesso motivati proprio sulla base della loro diffusione iconografica, dunque la loro presenza nell’immaginario dei fedeli. Interessanti da questo punto di vista le informazioni sul corredo iconografico della storia di Giuseppe nei manoscritti delle Meditationes (80 illustrazioni solo nel Paris, BnF, ital. 115) e sulla compatibilità dei tratti caratterizzanti Giuseppe con l’etica francescana; povertà, umiltà e obbedienza, condizione di pellegrino e di straniero. Il capitolo I.5 dell’Introduzione sviluppa questo tema occupandosi degli argomenti teologici che la storia di questo personaggio consente di trattare: verginità, età (dev’essere giovane per evitare i sospetti di adulterio di Maria e per salvare il mistero dell’Incarnazione), ruolo della contemplazione (nel dialogo con l’Angelo), valore simbolico del matrimonio casto fra la Chiesa e un capo unico, attenzione a una teologia degli affetti.
La seconda parte, come anticipato, effettua un confronto fra le espressioni del poema e quelle dei trattati teologici dello stesso Gerson, cioè il ruolo del poema nell’elaborazione del suo pensiero, in particolare la concezione, da lui sviluppata nel periodo vissuto a Parigi (1400-1424) della teologia mistica come “operazione psicologica di natura affettiva resa possibile dall’attualizzazione della sinderesi, facoltà mistica dell’anima e sua più alta potenza affettiva” (p. XCI, in traduzione nostra: formula di A. Combes, La théologie mystique de GersonProfil de son évolution, Rome-Paris 1963-1964, vol. II p. 239). Per sinderesi, partendo dalla noetica aristotelica, si intende il superamento di un’astrazione per via intuitivo-affettiva, innovazione gersoniana basata su modelli teorici dello pseudo-Dionigi Areopagita e Riccardo di San Vittore, oltre che Bonaventura e Tommaso Gallo. Nel periodo dell’esilio lionese (1424-1429) Gerson dimostra qualche ripensamento e mette in questione l’approccio psicologico, assegnando un ruolo maggiore alla Grazia e alla mens come luogo dell’esperienza mistica. Questo percorso, che nei dettagli si sfrangia in periodi più articolati, è testimoniato dei Sermoni tenuti al Concilio di Costanza, la cui eccesiologia mariale e pneumatologica coinciderebbe con la finalità mistica della Josephina. In particolare, comune ai due tipi di documentazione è il concetto di anima verbigena concomitante con il riempimento dello Spirito. Ma tutto sommato l’affinità maggiore sembra restare con la teologia parigina.
Grimaldello tecnico dell’applicazione di questo pensiero alla composizione poetica è il concetto di aestimatio o existimatio, che nei sei gradi di verità definiti da Gerson nella Declaratio compendiosa quae veritates sint de necessitate salutis credendae (1416) equivale alla pia credulitas, cioè a un fatto o dato non certo ma probabile, a determinate condizioni di accettabilità: deve suscitare la devozione verso Dio e i santi; deve essere attestato da una ipotesi esposta in una relazione pubblica o da una testimonianza e deve essere confermata da dottori della Chiesa. A queste “credenze” ammissibili appartengono le elaborazioni creative che “completano” la Scrittura sulla base di verosimiglianza psicologica o analogia, quindi anche quelle poetiche, sulla scia di quanto già aveva teorizzato Aristotele (Poetica IX 1451a, 36-10) definendo la poesia più “filosofica” della storia in quanto suscettibile di astrazione e generalizzazione. Iribarren si sofferma molto a lungo sulla storia della ricezione di questa idea, dai commenti latini dell’Organon ad Abelardo a Bernardo di Clairvaux, che vi fonda l’idea di una consideratio aestimativa, intermedia fra quella dispensativa di tipo sensibile e quella speculativa di tipo intellettuale. La composizione poetica dunque diventa così per Gerson nei suoi Speculativa una forma di meditatio e la poesia una forma di riflessione che trasmette realtà superiori e può influenzare i comportamenti reali. Anche il Tractatus de canticis gersoniano espone un teoria della poesia come strumento mistico e in generale anche nella comunicazione pubblica la poesia acquista sempre più un ruolo positivo di divulgazione dottrinale. La pur vastissima Introduzione non comprende capitoli, altrove usuali, su lingua, stile, metrica, figure retoriche, uso dei modelli intertestuali e argomenti simili, né il classico apparato dei loci similes (ove sarebbe stato utile un confronto non solo coi modelli poetici cristiani e medievali ma soprattutto con le fonti apocrife e relative riscritture su cui si basa il poema), sia perché parte di questo materiale è già esposto nell’edizione in CD-ROM di Roccati sia perché i curatori, che dichiarano interessi specificamente storico-teologici, forniscono comunque nelle introduzioni alle singole parti e nel ricchissimo commento “en fin d’ouvrage” un’ampia documentazione che lo studioso letterario potrà rielaborare e portare a frutto in ulteriori ricerche.
Dopo tanto sovraccarico intellettuale il lettore si aspetterebbe un testo pesante e poco piacevole, a destinazione iperspecialistica fin dalla concezione e quasi impossibile da comunicare in un linguaggio moderno. Invece l’esametro di Gerson è meno legnoso e arido di quello che si potrebbe temere, la sua sintassi è mossa e spezzata e conferisce vivacità all’andamento del testo, che usa una lingua molto mobile e ricercata e varia fra registri molti diversi mantenendo una tonalità media perfettamente trasferita nella traduzione. Il prologo espone la contrapposizione fra muse profane e ispirazione cristiana, tornata di moda dopo le “rinascite” classiciste del XII e ancor più del XIV secolo, ma in forma qui apparentemente immune dalla sofisticata discussione che aveva coinvolto Albertino Mussato, Giovanni Dominici, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Coluccio Salutati e molti altri. Al monte Parnaso si contrappone un “altro monte”, ossia quello della Sorbona (non specificato, ma allusivo a Sainte Généviève), come si chiarisce nell’elogio successivo di Parigi studiorum mater, superiore ad Atene e all’Egitto: il sapere che essa produce si contrappone allo scenum nocens (v. 36 pura nec errorum sceno permixta nocenti), che qui il commento chiarisce correttamente come riferimento alle scenicae meretriculae che nella Consolatio boeziana rappresentano la cultura (classica) dello spettacolo, senza però preoccuparsi della singolarità linguistica del termine sc(a)enum, che sembra un’invenzione di Gerson per scaena, a meno che non nasconda un problema di trasmissione. Il Prologo contrappone alle muse campestri (la rinascente bucolica, che perfino Gerson aveva praticato) la poesia della Sorgente di vita, scaturita nella luce che oscura lo sguardo della civetta e che consente la distinzione delle cose come attraversando un berillo, una poesia che affronta enigmi e allegorie usando, come i Quattro esseri viventi che Ezechiele descrive nella sua visione, i quattro sensi della Scrittura (qui riassunti nel celebre distico attribuito a Nicola di Lyra Littera gesta docet, quid credas allegoria, / Moralis quid agasquo tendas anagogia, vv. 26-27). Il poeta, come prodotto della scuola parigina, si autodefinisce theosophus, termine che secondo i commentatori è probabilmente attinto al commento di Giovanni Scoto Eriugena alla Gerarchia Celeste dello pseudo-Dionigi, che in effetti lo usa spesso: ma potremmo aggiungere altre attestazioni come la traduzione del medesimo pseudo-Dionigi fatta da Ilduino di Saint-Denis o Ugo di Flavigny o, più verosimilmente, i commenti allo pseudo-Dionigi di Ugo di San Vittore e di Guglielmo di Lucca, cronologicamente più vicini a Gerson, che lo usano decine di volte. Questo “teosofo”, giocando sui significati etimologici del suo nome (dall’ebraico G[u]er, “straniero”) si auto-descrive, con precisione realistica di dettagli di abbigliamento, come un pellegrino che si riposa in un locus amoenus protetto dall’angelo custode (una figura il cui culto Gerson aveva contribuito a diffondere), per poi scoprire che questo luogo è Costanza, sede del Concilio, dove una sera da una fonte si innalza una voce che lo invita a comporre un poema sull’Incarnazione di Dio in Maria e sulla sua fuga in Egitto con Giuseppe, fuga che rispecchia in qualche modo l’esilio del pellegrino (la cui immagine, con tanto di blasone allegorico, è stata incisa nell’editio princeps di von Kaysersberg del 1488 e spiegata da Gerson stesso in una lettera del 1417 al fratello Giovanni). Egli sente allora la voce di Sapienza (Fronesis) servita da quattro ancelle, ciascuna col proprio linguaggio, ma in armonia con le altre, nuovamente in riferimento ai quattro livelli di interpretazione delle Scritture. Il Pellegrino inizia allora a pregare, rivolgendosi a Giuseppe e Maria e Gesù, tre membri di una stessa famiglia (forse con riferimento alle Chiese riunite in concilio) perché lo aiutino a far sì che, nel canto, la pietà sia concorde con la Musa servendo la fede (ancillans fidei) senza pregiudicare la verità e usando la probabilità come strumento di persuasione ma senza estremismi, per elevare al cielo il proprio cuore. Un prologo narrativo che è insieme manifesto poetico e autoallegoria, ma non riesce astratto perché passa continuamente da un piano all’altro, dalla denotazione alla connotazione, e soprattutto usa una lingua non banale, che armonizza formule tradizionali e hapax filosofici, alternando versi coincidenti con le frasi ed enjambement disinvolti, grecismi e giochi di parole, riferimenti alla situazione biografica reale e personaggi-schermo resi vivaci dalla presenza di oggetti e colori. Un impasto molto diverso da quanto ci saremmo aspettati in base alla lettura di sermoni e lunghi trattati di dialettica esegetica. E l’introduzione al Prologo, anche sulla base delle attenzioni magistrali ricevute da Antonio Placanica in un articolo del 1995, specifica e valorizza ognuno di questi elementi, soprattutto quelli contenutistici, con ricchezza strabordante di rinvii. Talvolta il desiderio di collegare a tutti i costi ciò che Gerson scrive in poesia con ciò che dice in prosa può portare a forzature o ridondanze, ma offre comunque al lettore un bagaglio di possibilità da utilizzare - o scartare - per una corretta interpretazione (o sovrainterpretazione). In questi casi una guida sicura è la precisione dei riferimenti testuali: quando ci sono almeno due o più parole che coincidono, il richiamo può essere chiamato in discussione, in altri casi rimane ipotetico. Su questo piano i ricercatori avranno molto da lavorare nell’integrare i passi teorici qui generosamente addotti con passi della tradizione poetica, di cui qui si tengono presenti quasi solo i classici augustei e pochi autori tardo-antichi, con rare eccezioni medievali come Alano di Lille. Ad esempio l’uso dell’aggettivo orbicularis (v. 47) è assente nei classici e attestato in poesia solo da Alessandro Neckham (Laud. 4,618 e 5, 755), da Egidio di Corbeil (Viaticus, 385 e 748) e pochi altri testi, tutti dal XII secolo in poi e potrebbe aiutarci a individuare letture non banali di Gerson e a caratterizzare il suo linguaggio poetico. Analoga ricerca sarebbe da fare, sempre per limitarci ai primi versi, all’uso poetico di Fronesis, che in poesia si trova nell’Ecloga Theoduli (dove appunto si contrappongono le verità pagane e quelle cristiane) e poi solo nel basso medioevo, compreso Giovanni di Salisbury.
Dal punto di vista intertestuale e linguistico dunque resta aperto un vasto campo di indagine sui versi di Gerson. Ma sul piano delle tecniche esegetiche e dell’argomentazione teologica il commento copre straordinariamente le esigenze: in questa sub-introduzione al Prologo, ad esempio, è molto utile l’illustrazione del dibattito sui quattro sensi della Bibbia nel XIV e XV secolo, in particolare sull’accezione di senso letterale, che sviluppando le tendenze dell’esegesi tardo-medievale Gerson distingue in sensus litteralis, cioè l’intenzione dell’autore, soggetta alle norme della retorica, e sensus logicalis, cioè significato grammaticale, sottoposto alle regole della logica. Questioni tecniche solo in apparenza, dato che proprio su questo punto si era giocata la difesa del “tirannicidio” (l’assassinio del fratello del re) da parte di Jean Petit e del partito Borgognone avversato da Gerson. Secondo la commentatrice, Gerson subordina l’interpretazione allegorica nelle sue varie accezioni al significato del senso letterale come emerge da un’analisi retorica. Su questo doppio livello, a sua volta sfrangiato in sottolivelli concentrici, si innesta la tradizione esegetica dei Padri, primo riferimento autoritativo per il senso teologico della Bibbia e tutela contro interpretazioni innovative basate su una lettura “ingenua” e diretta del testo, come avveniva nei commentari della chiesa hussita e in altre correnti del protestantesimo emergente. Ma i confini fra una posizione e l’altra restano sempre estremamente fluidi e variabili da un’opera all’altra, come sappiamo tutti dalla lettura dei quattro volumi di Exégése médièvale di Henri de Lubac, il riferimento principe sull’argomento, qui non utilizzato e assente anche dalla bibliografia. 
Dopo tanta teologia e un prologo così programmaticamente impegnato ci aspetteremmo un’esegesi in versi sistematica come quella di Aratore o Ildeberto di Lavardin o Alessandro di Ashby, e invece assaporiamo una narrazione agile e ben drammatizzata nei frequenti dialoghi, lirica all’occasione e intensificata da continue mozioni degli affetti: basti ad esempio il saluto di Giuseppe e Maria a Nazareth all’inizio della fuga con cui si apre la prima distinctio (165-176): Sat procul exierant a Nazareth haud sine muto / Continuoque metu neu qui sentiret euntes / Sive pedum strepitu, seu flentis ad ubera matris / Vagitu pueri, vel ab occursu vigilantum, / Aut asini ruditu latratuve canino. / Vertice monticuli faciem conversa retorsit / Virgo suam, simul ipse Joseph, devotus uterque / Subsistit, inde domum, villam Templumque salutant. / Nuncia iam solis rutilans aurora decorum / Spirabat lumen, virgo doctissima legis / Humano partim studio partimque superno / Largius affatu dedid has, fas credere, voces: et q.s., che Ouy-Iribarren traducono efficacemente con “Nazareth s’éloignait déjà, mais sans relâche / la peur les tenaillait, qu’on n’entendit leurs pas / ou les cris de l’enfant dans le sein de sa mère, / ou le braiement de l’âne, ou l’aboiement d’un chien, ou qu’un garde surgit. Quand la Vierge eut gagné le sommet des collines, / elle se retourna, Joseph fit de même; / s’arrêtant un instant, de loin, tous deux ils dirent / adieu à leur foyer, à leur ville, à leur temple. // L’aurore rougeoyait déjà, annonçant le soleil, / Lorsque la Vierge, bien instruite de la Loi, / moins par l’enseignement humain que par l’Esprit divin [in realtà nel latino le due cose sono sullo stesso piano], / prononça – il nous est permis de le croire – ces paroles”; [segue la parafrasi del Magnificat, anch’essa ben studiata da Placanica]. Una scena comparabile con altri celebri “saluti” alla città che i protagonisti stanno abbandonando, come quello magistrale di Galswintha da Toledo nel bellissimo carme VI 5 di Venanzio Fortunato. AI lettori italiani non può non tornare in mente l’addio ai monti della Lucia manzoniana. Nel caso di Giuseppe la scena è giocata, invece che sulla nostalgia, sulle reazioni psicologiche dei personaggi e sui dettagli realistici delle fonti di rumore che avrebbero potuto far scoprire la fuga. La parte esegetica comincia solo al verso 243, ma – sorpresa! – contiene anzitutto notazioni emotive, come il richiamo alle sofferenze dei viaggiatori, l’esaltazione del canto (di Maria e di ogni cristiano), della tenerezza di Giuseppe, della partecipazione del creato poi riprodotta in passi evangelici, per finire con uno dei vari sogni di Giuseppe, che Maria – cui la tradizione del Libellus de nativitate sanctae Mariae attribuiva una formazione dottrinale al Tempio - gli spiega al risveglio con argomenti più riflessivi e meditativi che teologici (o meglio: esposti in forma più emozionale e colloquiale che dialettica), mentre negli ultimi versi (395- 406) il poeta chiude la distinctio con il tramonto di quella prima giornata, e una giustificazione dei tanti temi omessi e un nuovo elogio delle scuole di Parigi, dove quelle conoscenze familiari alla Maria della Josephina sono studiate nel modo migliore. Questa tonalità di memoria storica e insieme di conversazione spirituale diluita e “affettivizzata” in discorsi dei personaggi permane nelle distinctiones successive. Certamente le ragioni contingenti della politica ecclesiastica e quelle didattiche di una finalità teologica avranno influito sul testo e forse perfino favorito la sua genesi, ma anche alla lettura diretta e “sine glossa” il poema mostra un piacere di raccontare e un gusto quasi “borghese” della meditazione privata, che nasce sempre da un dubbio personale, da un sentimento esistenziale – attribuito a qualcuno dei personaggi – che sorprendono e invitano alla scoperta di questo poema ora finalmente reso accessibile dalle cure e dalle competenze eccezionali di Roccati, Ouy e Iribarren, cui va la nostra ammirata gratitudine. 

di Francesco Stella (una versione di questa recensione è uscita in "Studi Medievali" LXII, 2021)

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