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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) (scarica il pdf)

FRANCO BUFFONI, Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney, Montecassiano (MC), Vydia Editore 2020, pp. 426, € 18,00


L’aria si avvertiva già nelle Note come nei testi della Linea del cielo (2018). La conferma adesso Maestri e amici, uscito nel 2020, anticipando di pochi mesi un’altra raccolta di saggi, Silvia è un anagramma, edita per Marcos y Marcos. Non si tratta di testi archiviati e documentari: alcuni – ma la verifica è solo a campione – sono rivisti o tagliati per entrare in un volume che nelle sue tre sezioni – Sulle spalle dei giganti – Il NovecentoTra due secoli – rispecchia gli interessi di Buffoni as a scholar, oltre che poeta; benché non sia la struttura architettonica, nella sua neutralità, a comunicare il senso del libro. Né basta ricordare che non c’è quasi poeta che non abbia messo insieme una raccolta di saggi sulla poesia (o qualcuno l’abbia fatto per lui): da Montale, a Zanzotto, Bigongiari, Raboni, Caproni. Perché il senso dell’operazione va colto in un orizzonte più complesso. Risponde a un’istanza di riepilogo delle proprie matrici, o della propria genealogia, che però, se è un tratto comune a molti compagni di strada di Buffoni, in Buffoni acquista un valore fondativo e progettuale.
Di Anedda Buffoni recensisce il quaderno di traduzioni, Nomi distanti, 1998, e a proposito del modo in cui viene tradotto un testo di Loi osserva: «Il lettore si trova così proditoriamente immesso nella poetica stessa di Anedda, alle prese con un libro convincente, ambizioso, totale, capace di trascendere sia il ‘quaderno di traduzioni’ sia quello della raccolta di poesia dove confluiscono alcuni testi tradotti» (p. 331). Anedda non è meno riconoscibile nelle sue poesie – di cui Buffoni non fa cenno diretto – che nelle traduzioni poetiche: finiscono per essere la stessa cosa, in un processo di ritrascrizione e assimilazione in cui ciò che conta è il ‘testo finale’. Come per interposta persona, Buffoni esplora la fenomenologia di una consapevolezza di sé as a poet (e non soltanto) in cui tradurre ha un ruolo centrale: questa consapevolezza coincide con una nozione di lavoro poetico in dialogo con il lavoro degli altri, che rifiuta barriere e gerarchie, linguistiche come ideologiche (e di genere): una sorta di mantra in Maestri e amici. Tradurre è molto più che citare o rilevare affinità e genealogie: non è neppure una dichiarazione o una certificazione di appartenenza, ha a che fare con la sostanza concreta della scrittura poetica e della sua capacità di comunicare.
La centralità del tradurre, quasi il secondo mestiere di Buffoni, è il filo rosso che lega buona parte degli interventi. È una concezione che non si presta a equivoci e fa sistema con una visione aperta, libertaria, della letteratura. E in questo senso ulteriore non è affatto da sottovalutare. Non per nulla Buffoni non cita i traduttologi: se ricorda Mounin è per mostrare i limiti dello strutturalismo. Quando una riflessione teorica compare, anche solo per accenni fulminei, è partendo da Gadamer e Celan, Szondi, dalla traduzione come interpretazione, ricordando Praz «esempio di criticism by translation» (p. 149): ciò che lo stesso Buffoni pratica. O ancora con un attacco diretto al ‘demone della teoria’ attraverso le parole di Steiner: «Non esiste una teoria della letteratura; non esiste una teoria della critica» (p. 181). Per concludere – sempre nel saggio dedicato a George Steiner – che «gli strumenti della linguistica» possono servire «per affrontare la decodificazione di un testo tecnico, ma sono totalmente inadeguati alla restituzione della complessità del codice della poesia» (p. 180). Rilanciando così la palla nel campo dei poeti e sul loro lavoro concreto al confine fra lingue e poetiche (la propria e l’altrui).
In questo intreccio costante con la voce altrui Maestri e amici è dunque davvero l’altra faccia, o il doppio della Linea del cielo (vedi Semicerchio), visto come i due libri si implicano vicendevolmente. Oltre ad essere il titolo di un saggio, La cravatta di Sereni lo è anche di una sezione della raccolta e la poesia che vi compare – Sereni ballava benissimo – è la medesima che chiude il pezzo in Maestri e amici. E lo stesso vale per Auden e Isherwood, che entra sia nella Linea del cielo sia nel saggio Auden e «L’età dell’ansia». La dinamica funziona anche all’inverso, per antipatia: viscerale nei confronti di Montale, ‘impotente e forse omosessuale’, in Montale nonostante, dove compare Per Eugenio Montale, uno dei tre pezzi di Piove dentro, la sezione della Linea del cielo ironicamente intestata al poeta. E in gioco non è soltanto l’ultimo libro di Buffoni: Giovanni di El Greco consente è un pezzo di Suora carmelitana, 1997, che transita – anche se in generale dirimere la direzione dei transiti non è agevole – in Perché Buñuel?  
Maestri e amici
è quasi una biografia, in cui compaiono libri e uomini, le figure e gli incontri decisivi per la formazione intellettuale, umana e artistica di Buffoni: da Mario Praz a George Steiner, Emilio Mattioli, Luciano Anceschi, Allen Mandelbaum, Pietro Marchesani, Mario Mieli. Il catalogo sarebbe molto più ricco, ma anche così vi si riconosce una spinta – la si osserva in tutto il libro – a promuovere in primo piano, o quantomeno alla pari, figure lasciate spesso ai margini: Mario Mieli, e con lui gli anni Settanta, per fare un esempio significativo. È una spinta che sollecita a recuperi retroattivi sul lungo periodo – un eccentrico come Emanuel Carnevali, in parte ripubblicato da Adelphi –, ma che agisce anche rispetto alla contemporaneità, com’è ovvio. Buffoni si assume il rischio di segnalare nomi ignoti: portare i margini al centro non corrisponde ad un’istanza snobistica o a una reazione allergica. Anche alla lettura di pochi frammenti risulta evidente come la marginalità non coincida necessariamente con un deficit di «poesia-valore» (Fortini). Bensì rispecchi ragioni molto più materiali: dal cristallizzarsi della scena poetica in ortodossie e linee preferenziali a – aggiungeremmo – meccanismi editoriali e di mercato.

In Maestri e amici si costituisce invece una comunità priva di frontiere e senza gerarchie, intrinsecamente antiautoritaria. Facendo franare le rappresentazioni precostituite, Buffoni rimette in discussione prospettive storiografiche e canonizzazioni autoriali che certo conformismo ha fissato come gli assi portanti della poesia. Ciò che investe soprattutto il Novecento. La polemica feroce contro Montale non è solo il riflesso di un, peraltro supposto, mancato outing (per cui l’onestà di Saba è in linea di principio da privilegiare), ma ne contesta l’occupazione ‘militare’ dello spazio poetico. È un atteggiamento perfettamente analogo a quello con cui viene affrontato Eliot: T. S. Eliot e la terra guasta. Il giudizio, che isola The Waste Land – anche se poi appare «tenuta assieme con lo spago» (p. 149), con le parole di Praz e Montale – dal processo di automonumentalizzazione messo a segno nei Four Quartets, può suonare tranciante, ma trova la sua ragione nel rifiuto del ruolo totalitario assunto da Eliot nella poesia di lingua inglese, a discapito di voci non meno rilevanti: Pound senz’altro, e soprattutto Auden. Il rigetto delle costruzioni monumentalizzanti agisce per ridimensionare l’immagine prefabbricata di Eliot come per riaprire il discorso su Mario Luzi, con pagine di grande acutezza su Avvento notturno, sottratta all’«iniezione di segni cristiano salvifici» e riportata alla misura della «prepotenza musicale dei versi» (Era questa la vita di Mario Luzi?, p. 163). Sono solo alcuni esempi del metodo – malgrado l’accusa di mancanza di metodo, condivisa con Praz – costantemente applicato da Buffoni per mettere a nudo l’uso ricorrente della letteratura come ripiego normalizzante e occultamento di tensioni biografiche irrisolte. Al di là delle eventuali idiosincrasie, segnalare il non detto o il censurato (auto-censurato, spesso) nella poesia del Novecento, o comunque l’attivarsi di processi di normalizzazione indotti da fattori esterni, o per scelta di autocensura appunto, è un’indicazione operativa tutt’altro che banale; che può essere applicata con ottimi risultati a Fortini, Sereni, Pasolini. Per fare soltanto alcuni nomi.
Sottrarsi alle rappresentazioni istituzionalizzate della letteratura si salda in una riflessione che non è di bilancio bensì di riapertura: non è un caso se nella prima sezione, Sulle spalle dei giganti, l’attenzione va a Dante, non a Petrarca. Petrarca entra in gioco obliquamente, di riflesso a Chaucer, in Chaucer fra Boccaccio e Petrarca, per segnalarne l’operazione mistificatoria del De insigni oboedientia et fide uxoria. Nello scenario della contemporaneità in Italia riaprire la partita presuppone una liquidazione: «è oggi tramontata l’idea che al centro del nostro Novecento ci sia la linea ermetico avanguardista» (p. 337), ovvero «quella specie di koiné novecentesca, che è poi la lingua in cui si traducono Rilke e Valéry in italiano e Montale in francese» (p. 338). È chiaro come la questione vera non sia l’ermetismo: evocare provocatoriamente una «linea ermetico avanguardista» ha però un significato preciso per una generazione che ha nutrito profondo fastidio per la neoavanguardia e la sua pretesa di trasformarsi in monumento. Bisogna scorrere il saggio su Lamarque – La «quieta polvere» di Vivian Lamarque – per individuare l’orizzonte mobile e ‘ipotetico’ («se la lirica deve essere lirica», p. 337), a cui Buffoni guarda: Saba e Penna ma anche Betocchi, per ricordare un altro marginale. Benché la linea della chiarezza e dell’antisperimentalismo non rappresenti in astratto una scelta pregiudiziale. Le pagine su Cummings – E. E. Cummings e il genere disumano – sono centrate sullo sperimentalismo che ne limita il successo per la sua scarsa presa sul DNA della poesia americana.
a chiarezza diventa un fattore dirimente quando il discorso si fa generazionale, con De Angelis e Magrelli. Nel 1979 Nell’acqua degli occhi, la prima uscita in volume di Buffoni, nel fascicolo collettivo 54 dei «Quaderni della Fenice», è a metà strada fra Somiglianze e Ora serrata retinae. Proprio la traducibilità quale marca di chiarezza viene indicata come segno di durata e valore in Magrelli: «la poesia vive e resta soprattutto quando è nitida» (p. 322). Mentre il saggio su Somiglianze si apre con una lunga citazione da Auden che dà il là ad una prognosi piuttosto sfavorevole: «Sarebbe davvero uscito esile Somiglianze nel 1976 se De Angelis vi avesse incluso soltanto le poesie di cui era onestamente grato» (p. 315). Sarebbe un errore inferirne che i rapporti fra Buffoni e De Angelis siano inesistenti; almeno per De Angelis, che li riconosce apertamente, parlando dei versi giovanili ritrovati e del ruolo che ha avuto nella sua formazione «l’incontro con tre poeti importanti […]: Franco Buffoni, Michelangelo Coviello e Angelo Lumelli» (http://poesia.blog.rainews.it/2017/06/milo-de-angelis-tutte-le-poesie-1969-2015-con-una-notainedita/: 4/02/2021). Come è evidente, Maestri e amici non ambisce a restituire una prospettiva storiografica conclusa; il tratto militante resta sempre in vista, a maggior ragione per la contemporaneità.

di Stefano Giovanuzzi

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