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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 113-114 (scarica il pdf)

IVAN SCHIAVONE, Tavole e stanze, Salerno, Oèdipus 2019, pp. 54, € 16,00


Con un certo distacco, il titolo descrive il contenuto del libro in termini puramente formali: due sono le sue principali morfologie poetiche, la prima geometricamente squadrata, la seconda diffusa, libera, irregolare. Le cinque sezioni si distinguono a colpo d’occhio, per via della forma caratteristica condivisa dalle poesie che le compongono. La prima sezione, postulati e apostasie, conta quattro stanze di sei doppi endecasillabi sciolti, schiacciati quasi in fondo alla pagina, e descrive l’origine del mondo fino alla nascita del linguaggio e della scrittura. Scienza e teologia si compenetrano sin dal titolo della sezione, creando una dialettica tra certezze assunte e rimesse in discussione. «una sola legge» lega «l’infinitesimale e l’infinito» (p. 6), il moto inerte e perfetto in cui si inserisce l’elemento – inspiegato – della vita, del respiro, da cui, poi, il linguaggio. Esso è lo strumento che permette di creare rappresentazioni del reale suddividendolo in parti discrete, e così memorizzarlo e riscriverlo. L’agire nel mondo è in sé un’opera linguistica («la prima scrittura l’impronta impressa nella neve, sulla sabbia, sul fango», p. 7), così come il rapporto con le entità, che possono essere nominate, ma di cui la parola stessa è testimone dello scarto tra il nome e la cosa (p. 13, vv. 15-21). Le rappresentazioni linguistiche che tracciano «gli istmi e i margini» (p. 9) della realtà sono mappa inesatte e parziali del mondo.
Queste sono le geografie testuali che costituiscono le tavole da un atlante, la seconda sezione del libro e la più estesa. Indifferenti a restrizioni metriche, le diciotto tavole sembrano tracciare sulla pagina i confini di coste rocciose, irregolari, solcate dai canali scavati dai versi a gradino. La «lingua / che [fa] argine al nulla» (p. 22) segna il perimetro del conosciuto – o meglio, del rappresentabile –, il limite contro un mare, quello della pagina bianca, che testimonia l’assenza della realtà innominata e dunque sconosciuta, o meglio, inesistente. È un nulla a cui appartiene anche l’uomo, se non nell’«intermittenza d’esserci tra continuità di non essere» (p. 13), e il linguaggio stesso, che permette la rappresentazione d’individuo e alterità: «se il tempo di una luna durasse almeno il senso / di cui adorniamo il nulla / scambiando per il sole / ciò ch’è soltanto lingua» (p. 22). L’operazione di divisione del reale è riflessa nelle fratture del testo, spezzato di frequente dai tratti orizzontali che lasciano il senso sospeso e marcano l’inizio di un nuovo discorso, legato al precedente da un filo a momenti invisibile, quasi diversi strati di roccia sedimentaria affastellati nel testo, testimoni di ere differenti convogliate in uno stesso luogo («la lingua / che è qui che fu e non è / se non deiezione e rammendo», p. 26). Sono queste le «sequenze di pattern transcodific[ati] in stanze» (p. 26), le quali operano secondo una retorica sovversiva: «al simbolo e all’allegoria preferimmo il montaggio / l’irradiarsi concentrico del labirinto / degli anelli di retroazione semantica.» (p. 30). L’illuminazione del senso tramite i collegamenti tra frammenti assume qui lo statuto di figura retorica dominante. La forma è un tema centrale: l’opposizione tra natura e artificio, la stessa che separa questa sezione dalla precedente, è anche uno scontro fra configurazioni geometriche, in cui una fagocita l’altra. La «definizione geometrica dell’erba» (p. 19) lascia «l’eco franta di foreste» (p.19); «il mare si squadra in saline» (p. 23): è il prologo di una realtà antropizzata fino all’orlo dell’apocalisse. Le api che costruiscono celle creando linee pure come quelle ricercate da uno scultore (p. 17) o il bonsai, a cui si mozzano i rami per appagare il desiderio geometrico, «fanno impressione» (p. 19), posizionandosi nella fascia dell’uncanny che divide l’uomo da quello a cui si è progressivamente opposto. È difficile non leggere una condanna nelle immagini di desolazione («lungo il deserto indotto dalla storia / uniche scorie sono le gabbie», p. 25; «di spighe arse dal vento d’oriente / delle vacche scheletriche» p. 27) o di migrazione, non più evento ciclico e armonico ma letale («450 miglia a sud di Perth, in Australia / migliaia di uccelli sono caduti morti dal cielo» p. 17; «tra membra spiaggiate / per candore spicca un corpo acerbo», p. 18; «ultimo inverno dei migranti, o oceano atlante dell’ecatombe della tratta», p. 24). Posto di fronte a questi scenari, l’animo scosso dell’uomo non ne vince però l’inerzia: «non mi sembra essere il terrore / ciò che manca a questi giorni / quanto piuttosto la capacità di percepire il manifesto» (p. 19). La manifestazione del reale è ricorrente sotto forma di un moto ascensionale che accompagna il materializzarsi dell’invisibile: «per un Cristo dalla danza allo zenit / tessé un colombo in volo, tra gli oranti e l’incenso / il canto polifonico col pulviscolo e i raggi» (p. 27, cfr. anche pp. 15 e 27). La musica e l’odore di incenso prende forma nel pulviscolo intersecato dai raggi: la sinestesia che abbraccia tutti ambiti sensoriali descrive il momento epifanico in cui è possibile percepire il reale oltre la pura rappresentazione.
Continuando la lettura seguendo la metafora geografica suggerita dalle forme del libro, le poesie della terza sezione, variazioni artiche, sono iceberg – simili alle tavole che li precedono, ma stavolta compatti, brevi, senza tratti orizzontali che spezzino il discorso, fluttuanti a mezza altezza nella pagina. Dopo il caos semantico delle tavole, queste poesie sono immerse in una quiete siderale. I paesaggi spogli, le forme dei ghiacci, suoni e luci, «bramiti / di animali selvatici» (p. 36) sono gli oggetti poetici indisturbati della sezione, indifferenti alle rare intromissioni dell’uomo, qui in completo svantaggio. In cantico piano, tornano i doppi endecasillabi di postulati e apostasie, organizzati stavolta in quartine collocate poco sopra la metà della pagina. Torna il lessico scientifico mischiato a quello biblico («fu la luce, fu, dal cosmo all’atomo», p. 38), torna rinnovata una sintassi contorta dal metro e memore degli autori delle origini («già stando in giorno breve e grave d’ombra», p. 39) e ritrova dietro questi schermi formali ed esasperazioni sonore un rapporto diretto con il tu («donna d’ermi carmi tra scherni e schermi, donna di ferme forme e informi fermi» p. 41) e del cantico ricorda le similitudini dello sposo («tenera e dolce come selce […] / che in sé dilava asperità e purezza o come il liquido la tua durezza / solido più che carapace o mandorla», p. 42). L’ultima sezione, preliminari alla descrizione di una caccia, riprende le forme della seconda, ma in unità più brevi; le irregolarità e i tratti orizzontali stavolta non marcano cesure tra discorsi diversi, ma crepe tra frammenti accostati di un unico pensiero. Immagini di un sud-est asiatico calmo, sopravvissuto ai propri demoni e dimentico tra le rovine dei propri dèi («si affacciano dagli scafandri le vittime di Pol Pot», p. 51; «distante uno scafo arenato / cede in rivoli la ruggine al mare […] / decaduto il rito e la preghiera estinta resi dimentichi», p. 53) e delle periferie di New York non ancora del tutto inghiottite dall’uomo (pp. 50 e 52) sono le fotografie più nitide della sezione. La stasi sembra essere solo momentanea, se, come il titolo suggerisce, prelude alla caccia: «che cos’è nella bellezza / che ci induce a possederla?» (p. 48); l’istinto venatorio, l’attrazione insita nella bestia, porta necessariamente al movimento e al conflitto.
Un’esplorazione preliminare, come questa, può solo offrire frammenti di interpretazioni possibili: Tavole e stanze è infatti un libro difficile, e forse impossibile da decriptare nella sua interezza, rispecchiando così nella lingua la molteplicità di senso del reale.

di Stefano Milonia

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