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Tori in fuga e parole cercate. Una lettura ‘zoopoétique’ della poesia di Ivano Ferrari

 Di Davide Vago

 

In: Semicerchio LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 36-40. 

 

 

 

Ivano Ferrari in chiave ‘zoopoétique’

«La parola / si sente cercata dalla bestie, lei / sa dire che l’eterno dura / al massimo un giorno»: Iva- no Ferrari ha saputo dedicare agli animali pronti per la macellazione industriale, nello spazio apparentemente a-poetico del mattatoio, una poesia brutale, «sincopata» come giustamente l’ha definita Moresco, spesso scatologica, sprezzante ma a tratti stupita, i cui tratti di originalità rendono l’autore difficilmente catalogabile all’interno del panorama contemporaneo. Dal punto di vista della produzione poetica, due sono le sillogi che spiccano all’interno della parca produzione dell’autore mantovano: Macello (pubblicato nel 2004, benché la stesura dei testi risalga a trent’anni prima) e La morte moglie del 2013, la cui prima sezione, dal titolo emblematico «Le bestie imperfette», risale proprio all’epoca di Macello. Per Ferrari l’esperienza del contatto con la carne animale da macello è, in primis, un dato biografico: il poeta ha infatti lavorato per un certo periodo nel mattatoio vicino alla sua città.

È da notare come, in ambito ecocritico, la poesia di Ferrari abbia già suscitato alcune analisi abbastanza convincenti riguardanti il rapporto tra la sofferenza animale e quella umana, nonché l’anti-specismo. Mi pare che una luce ulteriore possa essere gettata considerando le raccolte poetiche di Ferrari in relazione agli studi di ‘zoopoétique’, che oltralpe si stanno diffondendo grazie alle ricerche di Anne Simon e altri studiosi che hanno saputo fornire alla rappresentazione letteraria, e quindi anche poetica, dell’animale, una solida base filosofica di stampo fenomenologico. In diversi contributi Simon ha sottolineato come il punto di partenza sia una considerazione dell’animale, del suo ‘milieu’ come direbbe Merleau-Ponty sulla scorta di von Uexküll, nella sua totale alterità rispetto all’uomo. La ‘zoopoétique’ indaga infatti quelle opere letterarie – siano esse in prosa o in poesia – in grado di lasciar trapelare, per mezzo della potenzialità insite nel linguaggio creativo stesso, affetti e percezioni ‘altre’: non umane, appunto. Paradossalmente, la complessità della letteratura – opera di un ingegno tutto umano – è in grado di esprimere la differenza radicale che separa la ‘bête’ dall’uomo. Mi pare che nello spazio, solo apparentemente sterile, del mattatoio, Ferrari riesca a tratti a far emergere l’orizzonte misterioso dell’animale, che sembra rivolgere all’uomo, che lo sta per trasformare in carne da consumare, una parola impossibile: la parola del poeta, dunque, che galleggia su deiezioni, rifiuti e liquidi biologici tenterà allora di restituire un punto di vista inedito e imprevisto sulla realtà, quello dell’animale, cogliendo «il reale di sorpresa».

 

1. L’ecosistema del mattatoio

Il mattatoio non è, di per sé, uno spazio poetico. Si tratta certamente di un ambiente ibrido, in cui l’animale e l’uomo entrano in contatto, ma in funzione della morte pianificata e regolamentata del primo a vantaggio del secondo. Nella letteratura italiana, Le meraviglie d’Italia di Gadda (pubblicato nel 1939) si apre con un testo dal titolo «Una mattinata ai macelli»: dal punto di vista topografico, i macelli di Gadda occupano la periferia della grande città (Milano), «ai limiti della campagna», ma accanto ad essi «sorgono case recenti, a sei piani: già cittadine e purtuttavia isolate». Si tratta dunque di un luogo, per sua natura, spurio, anche nel- la sua collocazione geografica.

Come Gadda, lo stesso Ferrari insiste spesso nelle sue poesie, con precisione quasi virtuosistica non scevra di causticità, nella descrizione del meccanismo industriale della macellazione animale: «Tutti in fila / nudi / appena sporchi di letame / attendono la perfezione / balbettando proteste». Il macello è un ecosistema totalmente sbilanciato a favore dell’elemento antropico: «Le carnivore gerarchie / si coprono col camice / nel deserto bianco / affettato da coltelli sdentati»: apparentemente sterile, il biancore che caratterizza il mattatoio («l’asettica retorica del pavimento ripulito») è reso ancora più nitido dalla sovrapposta immagine dei camici degli addetti alla macellazione. Ma si tratta, appunto, di «retorica»: la realtà del mattatoio è molto più complessa e stridente. Mauro Bersani, nella sua «Nota introduttiva» all’antologia einaudiana, sottolinea con ragione che la «provocazione lessicale» in Ferrari va di pari passo con il forte impatto visivo della sua parola poetica. Il nitore è solo apparente, in quanto i contrasti cromatici sono nettissimi nell’ecosistema del macello, e corrodono dunque la sua presunta sterilità: basti qui ricordare la carne «che svela con differenti colori / i suoi tagli prelibati», il «sacchetto di polmoni / rosa (striati di viola)» «il boia dalle orbite verdastre», «la pistola azzurra» del boia, gli innumerevoli escrementi animali e umani, perché macellazione e piacere sadico vanno insieme («era una goccia di sperma / cadutami nella vasca del sangue»), fino alla «farfalla gialla con righe nere» che, posatasi un istante sulla mano del carnefice, vola via «verso altri modi di morire». Tuttavia, sono sicuramente le deiezioni, ossessivamente descritte nelle due raccolte, pronte a invadere ogni spazio, a assurgere a simbolo dell’impossibile contatto dell’uomo con l’animale destinato a soccombere.

In questo spazio ambiguo è possibile, nonostante tutto, ridare, anche solo un attimo, un brandello d’identità all’animale, destinato all’abbattimento programmato dalla macchina capitalistica. Un fugace «sbaglio di natura» può allora mutare radicalmente l’essenza anonima dell’animale nel macello, grazie ad un afflato poetico che Ferrari è capace per lo meno di abbozzare quando «una vitella, stupita di essere viva / guarda noi che la ignoriamo»20. Il secondo verso mostra l’esistenza di un modo di intendere e interpretare il mondo ‘altro’, diverso da quello dell’uomo, in quanto proprio al ‘milieu’ dell’animale. In un attimo di sospensione della catena di montaggio della macellazione (difatti «non ci sono più paranchi / e le celle frigorifere sono colme», vv. 5-6), lo sguardo attonito dell’animale rimane tuttavia estraneo a una vera comunicazione con l’uomo: «se è pausa o tregua nessuno raccoglie» (v. 8). L’esistenza della vitella, qui solo intuita, si liquefa letteralmente quando l’uccisione programmata riprende inesorabile, diventando quasi udibile nell’allitterazione delle bilabiali dei versi finali: «piove plasma per un poco e finalmente / si libera un paranco». Ed è solo l’io lirico, smarrito saltimbanco o stralunato clown, che può scrivere, in un altro testo simile, che «dondolo aggrappato alla bestia» ormai appesa al suo gancio, mentre «una lingua di vacca sostituisce la luna». Nell’analogia della forma, un relitto animale può dunque diventare sigillo di poeticità financo nel meno poetico degli ecosistemi: nelle raccolte di Ferrari, «i profili, gli istanti, i residui evocati appaiono nella brevità luminosa di uno scorcio».

 

2. Verso una parola animale? Le bestie di Ferrari tra tentazione antropologica e esseri in fuga

Come già messo in evidenza da alcuni critici, il titolo Macello scelto per l’intera raccolta gioca sull’ambiguità e sulla polisemia del termine: macello non è soltanto un mattatoio per le bestie, ma altresì un riferimento metaforico ai molti massacri umani nel corso della storia, sia collettiva che individuale. La messa sullo stesso piano della sofferenza animale e del dolore umano è evidente nella bipartizione della raccolta La morte moglie: alla prima sezione intitolata «Le bestie imperfette», continuazione di Macello, segue simmetricamente una cospicua porzione dedicata all’agonia umana, ispirata dalla malattia della moglie dello stesso Ferrari. Le analogie tra le due sezioni sono molteplici, quasi a sottolineare come il dolore sia in grado di livellare la differenza tra le specie. Per quanto riguarda il trattamento del dolore animale, permane in Ferrari una tendenza a ricondurre quest’ultimo a un modello antropologico ben definito. Ne è un esempio la passione cristiana: ad un certo punto del processo della macellazione «[...] si ripete il sacrificio della crocifissione / compreso un S. Longino con pertica uncinata / che stabilizza il corpo per meglio tagliuzzare». Il riferimento al santo che trafisse il costato di Cristo, venerato tra l’altro nella città natale di Ferrari (nella basilica mantovana di Sant’Andrea), rende ancora più esplicito il fatto che, per rappresentare il ‘milieu’ dell’animale, il poeta necessiti di uno schema antropologico conosciuto e culturalmente condiviso. Un lapidario componimento di quattro versi conferma l’equivalenza anche nel movimento opposto: «Un giorno / che speravo fosse festa / io stesso gridavo / sono agnello anch’io». Tale ‘tentazione antropologica’ non è in grado tuttavia, a mio avviso, di rendere pienamente la diversità del punto di vista animale sul mondo: quest'ultimo trova la sua origine in una prospettiva totalmente altra rispetto a quella umana, ed è destinato a gettare una luce diversa sull’animale stesso, financo nei momenti che precedono il suo sacrificio. Saltuaria- mente ma costantemente, la scrittura poetica di Ferrari è in grado di dar risalto, in modo nitido, alla bestia come ‘être de fuite’, non ingabbiata nelle pur limitate coordinate umane, come in questo componimento:

 

Un segreto riempie le tempie pelose

 di una giovane manza

e gli occhi infantili lo custodiscono

 con qualche lacrima,

una piega rugosa nel suo sorriso

 prima di morire

ed è l’unica a non riempire di suoni 

lo spazio della morte.

Mi vede (segno il sesso sulla tabella) 

e confermo complice il messaggio.

 

 

Il mistero di un approccio al mondo inconsueto, di un linguaggio diverso dal linguaggio articolato, di una vita interiore basata su una forma seppur rudimentale di coscienza sembra emergere da questi versi: optando per soluzioni diverse dall’antropomorfismo, Ferrari sceglie di insistere sull’alterità della manza stessa. La complicità del poeta, che sa contemplare il reale da una prospettiva differente, si basa su pochi gesti: un cenno d’intesa, di comprensione, che non ha bisogno di emissioni vocali, messe tra parentesi, come la schedatura del sesso dell’animale che nel macello deve essere rendicontato e catalogato. Sebbene questo esemplare bovino non pretenda un nome proprio, l’attenzione del poeta porta al suo riconoscimento come coscienza a se stante. Nella raccolta La morte moglie il tema del ‘milieu’ animale, a cui l’uomo non può normalmente avere accesso, appare con maggiore frequenza, come quando Ferrari scrive «I vitelloni non si fanno toccare / neanche con la voce» o, ancora più distintamente, in un componimento come il seguente:

 

Il vento

scompiglia i peli delle bestie

è un tempo animale

saliamo sui camion

mettiamo le coperte sui gropponi 

con tenerezza aguzzina.

 

La stessa concezione umana del tempo (v. 3) viene scardinata qualora ci si ponga da un punto di vista della «bestia», qui nominata nella sua completa contrapposizione rispetto all’uomo (‘bestia’ versus ‘uomo’); ciononostante, l’ossimoro «tenerezza aguzzina» su cui si chiude amaramente il testo sembra ribadire il fato implacabile per cui il bestiame è destinato a essere ingranaggio del meccanismo industriale, voluto e creato dall’uomo stesso.

Vi è un testo emblematico in Macello su cui vale la pena soffermarsi. Protagonista è un toro che, ribellandosi al suo destino di macellando, fugge via, facendo deflagrare non solo il sistema ordinato del macello ma le coordinate, i punti di riferimento degli abitanti stessi della città:

 

È fuggito un toro nero

erra sul cavalcavia

impaurendo il traffico,

lo rincorriamo

impugnando coltelli

bastoni elettrici e birre

corre si ferma torna

arrivano i carabinieri coi mitra,

ora è steso su un velo d’erba

e sussurra qualcosa alle mosche.

 

L’animale fuggito scatena, come è ovvio, il panico perché costituisce un fattore di rischio, un dato non previsto nel ritmo cittadino: il toro è in cerca di un’identità che neghi l’«oggettivazione» costante dell’anima- le nel mattatoio. Nell’eterno indicativo presente della poesia di Ferrari, il suo profilo scuro che si staglia sul «cavalcavia» lo rende ancora più alieno; la sua fuga avviene in uno spazio a lui sconosciuto, come mostra la confusione dei movimenti veicolati da verbi quali «erra» (v. 2) seguiti da «corre si ferma torna» (v. 7), in rapido asindeto. Certo siamo lontani anni-luce da una caccia tradizionale, in un ambiente naturale incontaminato: quello per cui, in ambito francese, Maurice Genevoix poteva scrivere: «la chasse n’est rien si elle n’est d’abord poésie». Per i dipendenti del macello cittadino contemporaneo, la caccia all’evaso non si basa sull’interpretazione di un ‘sapere’ (tracce, impronte, escrementi) da tradurre come un libro scritto in lingua straniera: «coltelli / bastoni elettrici e birre» nonché «i carabinieri coi mitra» bastano per ripristinare l’ordine imploso, colmando il vuoto lavorativo con una dose di alcool. Eppure, in un attimo di tregua che Ferrari è attento a registrare, il toro fuggiasco trova un simulacro di natura («un velo d’erba»), e comunica qualcosa ad un insetto. L’uomo – il poeta in primis – non sa per quali canali sensoriali avvenga questa comunicazione: la parola della bestia da macello, che afferma un’ultima volta la sua propria esistenza, è letteralmente urlata nel sussurro che giunge alle orecchie del poeta.

 

3. Nel degrado, la postura poetica come attenzione empatica

La poesia di Ferrari manifesta dunque talvolta un dono particolare per ascoltare l’impercettibile voce di quegli esseri viventi – gli animali – che trascorrono accanto all’uomo, e in funzione di quest’ultimo, la loro esistenza. L’incontro con l’alterità animale, il suo riconoscimento come presenza nel mondo può avvenire, paradossalmente, anche nel luogo ove il degrado, umano e animale, raggiunge il parossismo. Forse proprio perché il registro è sovente volgare («la poesia in basso» di cui parla Bersani nell’introduzione alla raccolta einaudiana), il bisogno di aprirsi, di convocare l’altro, appare con più forza come segno di poeticità. Lo stesso Bersani concludeva la sua presentazione scrivendo: «il macabro [di Ferrari] è percorso da sensi di colpa e da un’implorazione di spiritualità». A mio avviso, il riconoscimento di una coscienza dell’animale pur nelle barbarie, la restituzione di un’identità di ‘bête’ non calcata su modelli antropocentrici rappresentano una forma di attenzione, di cura, che è in grado di controbilanciare, almeno in parte, un contenuto costruito per di più su «strazianti accelerazioni comiche giocate al limite estremo di umano-inumano». La poesia, specie quella della prima sezione de La morte moglie, diventa allora lo strumento per esprimere un cambiamento del punto di vista sulla realtà, basato sull’empatia.

Nell’illustrare la narrativa italiana contemporanea, Raffaele Donnarumma definisce l’‘ipermodernità’ come un periodo complesso che, non rinnegando completamente l’esperienza postmoderna ma a tratti sovrapponendosi a essa, si caratterizza per la continua alternanza tra euforia e disforia: «il sovraccarico è sempre pronto a capovolgersi in privazione, l’esaltazione in angoscia, la smania di dominio in smarrimento». L’ipermodernità si caratterizza tra l’altro per il ritorno, a livello narrativo, del dato esperienziale, colto soprattutto nel suo aspetto ostile o traumatico. Pur con le dovute cautele e distinzioni, quest’ultima tendenza che caratterizza la narrativa italiana contemporanea si ritrova anche nella poesia di Ferrari: proprio la minaccia non così remota di una fine (climatica, ambientale, alimentare) per l’uomo rende più urgente un verso che sappia affiorare da pertiche uncinate e grate di scolo.

Certamente la sua voce poetica è inconfondibile: evoluzione di stampo espressionista di una ‘poesia lombarda’ in re, le raccolte di Ferrari sono davvero «un diamante non ripulito dai liquami animali e dal sangue» come afferma Moresco. La fragilità dell’animale nello spazio ibrido del mattatoio rivela dunque la debolezza della specie umana. La goffaggine appartiene anche al poeta stesso, nel tentativo maldestro di comunicare con una macellanda, quando insieme al termometro infila nella vagina della bestia «un bigliettino / di versi scarabocchiati prima». Se Ferrari non disdegna soluzioni più tradizionali per ridurre la distanza tra uomo e animale, accanto ad altri temi che qui abbiamo solo accennato, più riusciti ci appaiono in conclusione quei componimenti che lasciano decantare il ‘milieu’ animale, liberandolo dalle scorie dell’antropomorfismo e dell’antropocentrismo, in una postura poetica per cui «les animaux conjuguent les verbes en silence».


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