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Immagini postume? Il sonetto tedesco degli anni ’90
Di Paolo Scotini

 

 

Uno studio pubblicato nel 1999 sul sonetto contemporaneo tedesco segnala l’uscita, tra il 1993 e il 1997, di ben 33 volumi di poesia in prima edizione che si autodefiniscono raccolte di sonetti. Il dato, comunque impressionante, potrebbe in teoria avere un valore meramente documentario, non esprimendo valutazioni qualitative, né fornendoci indicazioni sulla ricezione di tali opere; ma la vitalità di questa forma metrica in ambito tedesco è confermata dalla presenza di numerosi sonetti in raccolte di poeti ormai affermati, nonché dal fatto che due autorevoli riviste letterarie abbiano dedicato nel 1999-2000 uno spazio al sonetto contemporaneo. Le ragioni di una tale rinascita sono molteplici e non riconducibili a linee di tendenza ben definite. Se l’utilizzo della forma-sonetto nella poesia contemporanea implica necessariamente la volontà di richiamarsi alla tradizione, nel caso della poesia tedesca occorre chiedersi in primo luogo a quale tradizione ci si riferisca, dato che il sonetto in ambito germanofono ha una storia complessa e non uniforme, anche nell’accezione specificatamente metrica: dal sonetto in alessandrini del barocco al sonetto romantico, arrivando alle singolari opere espressioniste passando per il sonetto politico dell’ottocento, fino all’importante ciclo rilkiano degli ‘eterodossi’ Sonette an Orpheus, e ai – pur quantitativamente marginali – sonetti brechtiani. Da un lato naturalmente il sonetto è stato, negli ultimi cinquanta anni di poesia tedesca, la cifra di un equilibrio formale, sinonimo di una struttura perfetta dalla proprietà ordinatrice. È a questa sua qualità che si riferivano, nel grande successo di questa forma al termine della seconda guerra mondiale, i poeti che – ad est come ad ovest seppure da posizioni ideologiche diverse – cercavano proprio nell’ordine istituito dalla forma-sonetto un’alternativa al disordine bellico: «salvezza dal caos», come recita un paradigmatico sonetto poetologico di Johannes R. Becher, pubblicato nel 1947. Rovesciato di segno, il sonetto come sinonimo di perfezione e ordine formale è quindi ritornato nelle avanguardie degli anni ’60 – Wiener Gruppe, poesia concreta – dove è stato sottoposto ad una demistificazione che passava in primo luogo per una messa a nudo di questo ordine. Il sonett di Gerhard Rühm del 1970, emblematico in questo senso, svuota la struttura del poema, ridotto a una impalcatura senza edificio:

 sonett

erste strophe erste zeile
erste strophe zweite zeile
erste strophe dritte zeile
erste strophe vierte zeile
zweite strophe erste zeile [...]

 

 e così via fino alla fine dei quattordici versi. La linea ironico-demistificante, di derivazione avanguardistica, trova una continuazione negli anni ’70 e ’80, sebbene la riflessione linguistica e formale, elemento centrale delle avanguardie viennesi e ‘concrete’, sia lentamente passata in secondo piano rispetto al momento puramente ludico (con eccezione del lavoro, anche con la forma-sonetto, di Oskar Pastior). Tra le ultime prove ‘sonettistiche’ di questa tendenza è da segnalare, oltre ai lavori di Ernst Jandl nelle raccolte Idyllen (1989) e peter und die kuh (1996), l’opera di Ludwig Harig, anch’egli proveniente dalle avanguardie, il cui confronto con la forma-sonetto risale già agli anni ’60. La sua opera sonettistica è continuata poi in misura imponente negli anni ‘90 con una serie di poesie dove la forma è usata con valenza esplicitamente ironica, a segnare, proprio nella sua perfezione, lo stacco dal contenuto basso delle liriche stesse. Gli ultimissimi sonetti di Harig documentano a loro modo recenti eventi calcistici, insistendo quindi su un argomento, il calcio, che per la sua importanza contemporanea quale fenomeno di massa ha da sempre interessato lo scrittore. Citiamo esemplificativamente la terzina finale del sonetto in alessandrini Ins Nichts (‘Nel nulla’) sulla eliminazione della Germania ai campionati del mondo di Francia del 1998, commentata con un enfatico tono ottocentesco:

 

Für uns ist es vorbei. Ganz Deutschland fällt in Trance.
Doch, Freunde, aufgewacht! Jetzt kommt die Tour de France:
Jan Ullrich siegt, es sei, er landet auch im Graben. 

 Accanto a questo approccio al sonetto quale forma ‘classica’ par exellence – anche, naturalmente, nella sua negazione – è possibile trovare numerosi esempi di un suo uso più ‘occasionale’, che si fonda proprio sulla certezza della convenzionalità del mezzo per far risaltare i contenuti dell’opera. È il caso del sonetto politico, che in Germania affonda le proprie radici nei sonetti delle guerre antinapoleoniche di primo ottocento e continua, passando per la poesia impegnata degli anni ’60, fino ad oggi. A questa categoria potrebbe essere ascritto il ciclo di sonetti di Günter Grass Novemberland (Terra di novembre) del 1993, un volume singolare nell’opera di un autore che nelle sue numerosissime liriche ancora non aveva mai utilizzato tale forma. Ma proprio la singolarità della scelta formale viene a sottolineare il carattere eccezionale di questo ciclo di tredici sonetti, il cui titolo già ne indica esplicitamente la natura politica: il ‘novembre’ richiama infatti immediatamente alcuni momenti cardine della storia tedesca del novecento, tra cui la Kristallnacht, nel 1938, e la caduta del muro, nel 1989. Il ciclo nasce infatti dall’immediata impressione per l’ondata neonazista che ha fatto seguito alla riunificazione tedesca, avvenimenti che Grass intende leggere nel loro complesso rapporto. In questo senso il ricorso al sonetto rappresenta per il Grass amante della letteratura barocca anche un evidente richiamo ai sonetti di Andreas Gryphius, formando un ponte con le Tränen des Vaterlandes. Anno 1636, le «lacrime della patria» versate dal poeta per le atrocità della guerra dei trent’anni. Un caso a parte è rappresentato dalla fortuna del sonetto nella Germania orientale. Il fatto che il rappresentante istituzionale più importante della letteratura tedesca orientale, il ministro della cultura Johannes R. Becher, ponesse il sonetto come forma principe della nuova estetica socialista non basta a spiegare la presenza costante di tale forma nella poesia della DDR. Una tradizione, questa, che sembra proseguire anche dopo la riunificazione: è infatti possibile incontrare sonetti anche nelle raccolte degli anni ’90 delle ultime generazioni di poeti che si sono formati all’interno della Germania orientale come Uwe Kolbe, Kurt Drawert, Kerstin Hensel, Thomas Rosenlöcher. Questa predilezione per il sonetto – ma il discorso potrebbe valere per altre forme metriche tradizionali – va inquadrata nel contesto di una letteratura che, anche in alcune nelle sue forme più critiche, non ha interrotto un rapporto dialettico con i codici politici e letterari dello stato socialista. In questo senso il sonetto, al di là di una sua presenza più contingente o casuale, è stato soprattutto lo specchio di una complessa e talvolta contraddittoria relazione tra ‘ordine’ poetico e sociale, l’espressione di un conflitto interno che caratterizza le poesie di alcuni tra i più importanti autori degli anni ’60 e ’70 – da Stephan Hermlin e Georg Maurer a Volker Braun, Karl Mickel e Rainer Kirsch. È possibile percepire una eco di questa tradizione tedesco-orientale anche nei sonetti di Durs Grünbein, un ciclo di soli nove componimenti, «Nachbilder. Sonette», che meritano però di essere osservati con attenzione, sia per il ruolo di primo piano che il poeta di Dresda occupa nel panorama letterario tedesco, sia per la loro presenza non episodica o casuale all’interno del volume Nach den Satiren, edito nel 1999. L’indicazione metrica presente nel titolo segnala la volontà esplicita di confrontarsi con la forma del sonetto: pur senza presentare uno schema rigido la struttura metrica è in effetti chiaramente riconoscibile. Tutte le nove poesie hanno quattordici versi, strutturati attraverso la rima: i primi due sonetti presentano il modello shakespeariano di una successione di tre quartine seguite da un distico finale, gli altri hanno una divisione rimica evidente in quartine, sempre in rima alternata, e terzine, più variate strutturalmente (EFG/ EFG, EFG/ FEG, EFG/ EGF ecc.). A indebolire lo schema metrico interviene però la lunghezza irregolare dei versi, dalle dieci alle tredici sillabe, che pur mantenendosi all’interno delle misure tradizionali dei versi del sonetto tedesco (endecasillabo o alessandrino), ne rendono più sfumati i contorni, relativizzando la forza strutturante del sonetto stesso. D’altronde la debole impalcatura metrica è già svuotata all’interno da una impostazione sintattico-semantica che ignora i confini posti da versi e strofe per svolgersi spesso in maniera asistematica, con una presenza costante dell’enjambement. Un sonetto ‘evanescente’ quello di Grünbein, che sembra riflettere proprio in questa peculiarità la linea fondamentale della sua poetica. Il ciclo «Nachbilder» varia, una volta di più, alcuni concetti chiave su cui si sviluppa la poesia di Grünbein, in una edizione moderna della vanitas barocca nel rapporto tra aspirazione all’alto e caducità della carne nell’uomo metropolitano e mondializzato, ma ancora immerso nella propria preistoria:

I

 Dann wirst du müde, und dein Mund bricht ein
In ein Gebiet, das Greinen nicht erreicht.
Schlaf sucht die Wege, die du tags allein
Nicht finden konntest. Durch die Venen schleicht
Der das Gewebe besser kennt. Dein Parasit
Trennt dich von innen auf (den schweren Atlas
Von Osteuropa). Aus den Schlitzen sieht
Ein Anderer nach draußen. Aderlaß
Sind seine Blicke, die dir nicht mehr gelten,
Seit du verlernt hast, wie man sich versteckt
In dieser besten aller schlechten Welten.
in Mensch, der höflich seine Zähne bleckt,
Gewöhnt an Städte, Blutgerinnsel, Staus
Das bist du, und kein Traum hält dich heraus.

 Nachbilder sono le immagini, o meglio gli stimoli sensoriali visivi, che restano nella retina per alcuni secondi dopo aver osservato una scena. Ma la traduzione italiana del termine, immagini postume, esplicita ancor più il tema del ciclo: alla luce della inevitabile morte – e Grünbein intende qui la morte materiale del singolo – il poeta sembra rileggere la condizione dell’uomo contemporaneo, che appare appunto, come un’immagine postuma, ‘sfocato’, incerto, dove invece vorrebbe affermare la propria presenza. Il sonetto sembra svolgere qui la funzione della retina a raccogliere in un ricordo visivo, per quanto possibile, quanto dell’individuo è – ovvero resterà post mortem. Ma è proprio a questa immagine residua che il poeta si affida. Se la strada diventa per la vittima di un incidente nel sonetto VIII «cloaca maxima per ogni sogno», pure nelle poesie di Grünbein è sempre percepibile, al di là del momento sarcastico, l’accettazione di quel poco che l’uomo è realmente, in una sorta di moderna pietas, come nella scena dei due scheletri uniti in un «abbraccio postcoitale» che chiude il ciclo:

 

 [...] Im Marmor (bald nach Christus) kann man sehn, 
Wie auch Skelette noch umschlungen liegen
Vom Beischlaf, - wie der Totenkopf
Im Kuß ein Lächeln zeigt und ein Verstehen.

 Il confronto di Grünbein con il sonetto è quindi di natura ambivalente, sebbene non riconducibile né a posizioni di indifferenza alla questione formale, nella continuazione ‘fiduciosa’ della tradizione che possiamo osservare nei sonetti, pur così diversi, di Ulla Hahn, Peter Maiwald o Robert Gernhardt, né a un citazionismo postmoderno. La struttura evanescente delle poesie di Grünbein sembra piuttosto essere un ricordo di forma, da cui il poeta né può né realmente vuole prendere definitivamente congedo. Nella sua qualità di autore tra est – è nato a Dresda nel 1961 – e ovest, Grünbein viene così a trovarsi in bilico anche poeticamente tra una forma ‘ereditata’ che ancora ha ambizioni strutturanti e una sfiducia formale che corrisponde ad un atteggiamento malinconicamente scettico. Ma non a caso Grünbein ha affermato, marcando una differenza con altri giovani autori della Germania occidentale, di essere «più sentimentale» di essi, di avere «un punto sentimentale» che lo lega alla scomparsa DDR. Significativamente Thomas Kling, in apertura di un’antologia poetica di tendenza da lui curata, tendenza di diversa direzione rispetto all’opera di Grünbein, ha parlato della «unsentimentale» (distaccata, fredda) bellezza della poesia degli anni ’90. Tra gli autori antologizzati spicca – nell’ottica della nostra ricognizione sul sonetto contemporaneo – la presenza di Franz Joseph Czernin, poeta austriaco nato nel 1951 che ha movimentato il dibattito letterario tedesco proprio con un articolo di dura critica nei confronti dell’opera di Grünbein. Il sonetto è la struttura fondamentale dell’opera poetica di Czernin, una struttura trattata come una sorta di astratto modello-base, una forma primaria su cui egli sviluppa il proprio discorso di ricerca. Attorno al sonetto Czernin ha costruito il proprio lavoro die kunst des sonetts – l’arte del sonetto, appunto – pubblicato in due volumi nel 1985 e 1993, e gran parte del progetto, ancora in corso di elaborazione, die kunst des dichtens (l’arte del poetare). In una lunga serie di componimenti che formano le tre parti della Kunst des Sonetts – parti che l’autore invita a leggere come «catene potenziate di sonetti» o come «un’unica poesia» – Czernin sviscera molteplici possibilità che la forma-sonetto può offrire partendo da alcune serie limitate di vocaboli, legati al mondo quotidiano (abiti, casa ecc.), naturale (piante, corpo umano) o poetologico (strofe, metro ecc.). Il risultato può apparire talvolta il frutto di un gioco combinatorio che produce testi sintatticamente sconnessi, con un effetto immediatamente comico. Ma la sconnessione sintattica si rivela essere poi progettata per condurre il testo a un punto di estrema dissoluzione e quindi moltiplicazione semantica – sempre limitata comunque a brevissime unità linguistiche, a singoli sintagmi –, resa ancor più complessa da richiami musicali, grammaticali e idiomatici che rendono arduo se non impossibile qualsiasi tentativo di traduzione che non voglia essere una versione completamente libera delle liriche. Queste le due quartine di ein apfel (‘una mela’), che preferiamo appunto lasciare non tradotte:

 

dann hätten wurzeln von den wipfeln nichts
gezweigt,
wenn aus der wurzel stammten zweige, äste;
- so wie der ast, der zweig nur einen wipfel hätte,
wenn vom verzweigten wär der stamm nicht weit.
es war verwurzelt in den stamm der wipfel dann,
wenn aus dem ast der zweige würde so der stamm
des astes, der auch die wurzel wär den ästen,
die wipfel hier verwurzeln, welche zweige hätten.

 La poesia è costruita su sostantivi del lessico vegetale-arboreo – wurzel, radice; zweig, rametto, ramoscello; ast, ramo; stamm, tronco; wipfel, vetta – e su verbi che pur condividendo la stessa radice dei sostantivi, e una comune etimologia, hanno poi dei significati propri e non sempre riconducibili all’ambito vegetale: sich verzweigen, diramarsi, ramificarsi; stammen, derivare, provenire; verwurzeln, essere radicato; sich verästeln, ramificarsi. Il processo di proliferazione verbale si estende poi in modo quasi epidemico a generare neologismi come zweigen o verwipfeln nelle terzine finali, dove assistiamo ad una sorta di divertita apologia del prefisso ver-, avente il valore generale, come è noto, di un cambiamento di stato, di una mutazione:

 

dann hätten wurzeln, wipfel einen stamm,
wenn das verwurzelte wär nicht so weit
vom wipfel des verästelns, stammens dann,
wenn sich die wurzel des verwurzelns so verzweigt,
als hätten auch die wipfel des verwipfelns äste
des verästelns, das den stamm des stammens hätte. 

A rendere ancor più complesso il gioco di richiami grammaticali e semantici intervengono poi rimandi a locuzioni idiomatiche: l’ultimo verso della prima quartina accenna infatti molto chiaramente – considerato anche il titolo del sonetto – al proverbio «der Apfel fällt nicht weit vom Stamm», letteralmente «la mela non cade distante dal tronco», traducibile approssimativamente con il nostro «tale padre, tale figlio». Il contesto lessicale familiare subisce quindi un processo di straniamento, da cui si generano soluzioni linguistiche originali. Un’operazione identica viene poi compiuta nella sfera grammaticale. Il sonetto citato è ad esempio costruito interamente sulla struttura del periodo ipotetico, che però, svuotata di significato, viene ad assumere un valore analogo a quello della forma-sonetto, o degli ambiti lessicali di cui si è detto: contenitori vuoti, ma che proprio per la loro funzione strutturante interagiscono tra loro a creare inattese dimensioni linguistiche e poetiche. Ma è evidente che tale meccanismo risalti con ancor maggiore evidenza nella lettura complessiva dei cicli di sonetti. La successione piuttosto meccanica delle varianti ci consegna un ordinatissimo caos, che ricorda le composizioni seriali dell’avanguardia degli anni ’50, o almeno sembra condividerne l’esigenza di fondo, quella di costruzione di una lingua poetica inedita, a partire dalla sistematica e quindi organizzata decostruzione dei codici esistenti. Due tra i lavori più interessanti degli ultimi anni sulla forma-sonetto sembrano così portarci su strade poetiche divergenti. Il dubbio formulato da Czernin riguardo all’opera di Grünbein, ovvero se la poesia possa limitarsi a registrare passivamente la propria impotenza, o la propria subordinazione ad altri istituti della società contemporanea, apre uno spazio interessante di riflessione. Dall’altro lato, per quanto riguarda l’autore austriaco istituti sembra volersi completamente autonomizzare, andando incontro al rischio dell’autoreferenzialità. Ma proprio la presenza di questa problematica è l’interessante indice di una poesia che sembra aver recuperato, assieme al sonetto, la necessità di interrogarsi sulla propria forma.


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