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Intervista a Gozo Yoshimasu
a cura di Hideyuki Doi e Marco Mazzi


È possibile individuare un mandato sociale del poeta di oggi?

 

Avrei risposto a questa domanda in modo diverso 10 anni fa, o anche meno, 6 anni fa [ndr. stiamo parlando il giorno dopo il quinto anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle]. Ne sono molto cosciente ora. Si crede spesso che il ruolo sociale del poeta sia stato annullato, ma per me personalmente, piuttosto, si sta intravedendo di nuovo una strada verso il mandato sociale del poeta con la quale poter presentare al mondo – potrei dire, «esprimere minutamente» – una visione (anche se questa espressione è ormai fuori moda…). Allo stesso modo del mandato sociale, la visione e la via per raggiungerla stanno emergendo gradualmente. Inizierei così la mia risposta. Diversamente dall’Italia, paesi come la Corea, Okinawa e il Giappone, insomma una parte dell’Asia orientale, si sottopone a un velo, e cioè alla protezione nucleare da parte degli Stati Uniti. Non consideriamo questo fatto dal punto di vista politico o sociale (anche se sarà inevitabile farlo), dobbiamo prima ricordare che siamo in una situazione critica nella quale rimaniamo con il cielo invisibile, deprivato. Ciascuno di noi, quindi, ha dovuto fondare una propria visione non sul cielo, bensì in altre profondità. Nel mio caso, i miei 67 anni sono tremendamente sofferti. Personalmente, nella mia adolescenza, mi trovai vicino alla base americana di Yokota, la più grande dell’Estremo Oriente. C’era anche la Strada della Vergogna. Fui sbigottito dal contatto diretto con gli americani, e sono cresciuto con gli occhi fissi al muro di cinta. Certo, dopo sono stato in America, ho ricevuto grande influenza da parte della cultura americana. Ben 50 anni sono passati da allora. La causa diretta del cambiamento può essere stata l’11 settembre 2001, esattamente cinque anni fa. Da quel preciso momento, sta crescendo uno stato in cui non solo il cielo è coperto o perduto, ma anche il fondamento su cui stiamo in piedi ha iniziato a creparsi. Mi guardo ancora una volta sotto i piedi. Come Dante scendo negli Inferi, e questo significa immaginare le mie origini e le mie radici attraverso il filtro del folclore. Via via, conoscendo la Corea e Okinawa, ho scoperto un mondo sotterraneo, una civiltà dell’acqua, che può fare eco alla Venezia sull’Adriatico. È un mondo lasciato in oblio, quasi irrecuperabile. Quel mondo cerco di palparlo come fossi cieco, imitando tangibilmente la percezione dei pesci. Finalmente sono pronto a restituire la visione del mondo sotterraneo. Perciò il bambino che è cresciuto con il topos particolare della base, scopre ora sotto la pista degli aerei caricati delle bombe nucleari qualcosa come la Torre di Babele, o il Maelstrom di Poe, il santuario utaki di Okinawa, il Castello di Kafka. È arrivato il momento di mettere per scritto quel mondo di fantasia. Ben venga la fantasia! Non poteva dire niente di fronte all’engagement sartriano, ma attraverso un processo lungo questo bambino ha trovato sotto i pallidi fili spinati l’ingresso verso un mondo tremendamente fantastico. Scrivendo versi o recando il corpo nudo in diversi poeti per farsi «tatuare», così mi vesto odori particolari di ogni terra. E torno di nuovo alla mia base per poi immaginare quel sotterraneo. In questi anni il tempo è maturato: posso dire di portare il mio corpo tatuato e vago per inserirlo nei simili mondi sotterranei in America o in Europa. Alla fine, anche se non è l’impegno, ho trovato per così dire un modo per aprire la bocca alla società.

 La perdita di comunicabilità del linguaggio poetico è conseguenza della perdita di rappresentatività e di rilevanza sociale del poeta?

Ho una chiara risposta alle domande di questo tipo. Quelli che sono nati e cresciuti in Giappone hanno un grande peccato nei confronti dei paesi dell’Asia orientale; hanno anche subito una sconfitta totale con le bombe atomiche americane. Nella mia sensazione quel popolo non ha più il nucleo, la parte centrale si è estinta, sciolta. Per loro la poesia è già morta. La morte della poesia – da qualsiasi angolo non possiamo mai vedere che esista la poesia o il poeta. Forse questo non accade solo in Giappone. Ma nel caso del Giappone gli ultimi poeti sono quelli della generazione dell’anteguerra. Tornando a noi, bisogna chiedersi se nasca un nuovo tipo di poesia, magari cercata nel nulla, capovolgendo la gravità del buco sciolto – come il Buco Nero – quasi come far scivolare una goccia d’acqua sul palmo. Ad un bambino cresciuto vicino alla base americana e alla Strada della Vergogna, sono costati 60 anni prima di poter aprir bocca. Finalmente percepisco il gorgoglio d’acqua sulla fessura secca della poesia. Non intendo considerare un contesto particolare, quello del paese che si trova alle estremità dell’Asia. Ma trovo doveroso denunciare quella ferita ambivalente, quel coltello – simile al caso di Baudelaire. Devo aprir bocca anche nei paesi americani ed europei.

Quanto influisce oggi la poesia sul rinnovamento del linguaggio comune o del linguaggio della cultura? È possibile riconoscere alla canzone la rappresentatività sociale che è stato a lungo esercitata dalla poesia?

In apparenza, secondo il visibile, ci vorrà il tempo, prima che si diffondano le gesta della poesia, le voci strane e originali del poeta, quelle voci di coloro che hanno varcato i confini. Non dipende dal genere, né dalla concretezza dello stampato. I poeti sono individui carichi di gesta, di azioni, di parole. Finché loro esistono nella società, ci saranno spazi per il loro pudore, per la loro sofferenza, per le loro ferite – ma meglio chiamarle gesta diverse dai consueti segni artistici. Loro possono ignorare i confini, si avvicinano alla bocca del mondo; subendo la traduzione creano uno strato per ottenere una gravità. Ci vorrà tempo, per non parlare di Dante. 


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