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Ogni mattina verso quest’ora salgo una scalinata con molti gradini, spesso sudici per via dei ragazzi che tendono, la notte, a radunarsi qui. Arrivo in cima senza fiato, il sudore mi scorre lungo la schiena.

Continuo in salita lungo una strada curva, panoramica. Attraverso un parco ombreggiato pieno di statue, busti di marmo. Non riconosco i poeti, gli eroi. Ignoro la storia di questo paese.

Cammino fino a quando non raggiungo un faro. Mi pare inutile, visto che sotto non si trova il mare, solo palazzi, alberi, rovine, monumenti. Montagne in lontananza, il sinuoso fiume marrone che spacca la città. Eppure il panorama mi fa pensare all’oceano, una distesa altrettanto profonda, impenetrabile.

Se riesco ad arrivare prima che sorga il sole la veduta ha un aspetto grigio, caliginoso. Gli edifici sembrano fatti di fumo. Si vedono appena le montagne, sono quasi trasparenti. Oggi, siccome sono un po’ in ritardo, la città già luccica.

I particolari di questa città non mi toccano, ne ho viste parecchie. Io e mio marito abbiamo vagato insieme per molte terre prima di sbarcare qui.

Ciò che mi colpisce ogni volta che ci vengo è il cielo: immenso, puro, senza fine. Non riesco a vedere questo cielo quando sono in attesa dell’autobus, quando cammino per strada. Solo qui guardo le formazioni delle nuvole che si trasformano e si spostano in continuazione. Vedo un paio di gabbiani che volano senza muovere le ali, senza meta. Vedo un vuoto.

Nel contemplare questo vuoto riesco di tanto in tanto a sentirmi più vicino a mio figlio. Nonostante la distanza credo che il cielo ci unisca. Ovunque si vada gli elementi del firmamento restano invariabili: luna, sole, stelle, vento, pioggia. Anche mio figlio, volendo, riesce a vederli.

È nato qui sette anni fa. Aveva due anni quando mio marito si ammalò e morì. Senza mio marito non mi era possibile, in questo posto, tirarlo su. L’ho portato al nostro paese e l’ho lasciato con mia madre. Poi sono tornata a questa città, dove avevo già un buon lavoro.

Ci resto per mantenere mio figlio, per dargli un futuro. Qui bado a due figli la cui madre lavora in ufficio tutto il giorno. Vivo con loro, li porto a scuola, faccio da mangiare. Sono carini, gli voglio bene. Li conosco meglio di quanto conosca mio figlio. Questa è la mia condanna.

Si dice che mio padre indovinava il futuro. Leggeva le mani ai nostri vicini di casa, ai nostri parenti. Prevedeva cosa stava per accadere, prima che si rovinasse la vista.

Se ci fosse stato ancora mio padre, che cosa gli avrei chiesto di dirmi?

Nulla. So già che, quando un giorno tornerò a trovare mio figlio e lo abbraccerò, lui mi accuserà, mi respingerà. Mi troverà brutta, invecchiata.

Ecco perché l’avvenire è presente, mentre il presente mi elude. È questo il momento davanti al quale resto cieca. Come sta mio figlio adesso, mentre ci penso? Cosa sta facendo a scuola, vestito in divisa, seduto in aula, o in mensa? Come risponde quando la maestra gli fa una domanda? Cosa dice sottovoce a un suo compagno di classe? Perché ride?

Tutto si svolge al di là dell’orizzonte, senza che io Io sappia. Tutto ignoto.

Tra un mese arriva l’inverno umido, il freddo che penetra le ossa. Le cime delle montagne coperte di neve. Così passa un altro anno, cosi trascorre la mia solitudine.

Esco dal parco. Vedo altre persone sedute qua e là che non hanno da fare, che possono restare qui per godersi la veduta fino a quando, al tramonto, il paesaggio si arrossa. Per un certo tempo tutto diventa nitido, preciso, fino a quando non sparisce la luce.

Inizio a scendere la scalinata. Sebbene sia più faticoso preferirei salire. Ad un certo punto mi gira la testa, mi siedo.

Anni fa, qui, la domenica, quando la città si svuotava, nella stagione in cui sembra che ci siano più cicale che persone, io e mio marito venivamo spesso. A mezzogiorno, seduti sulla scalinata, pranzavamo all’aperto. Mangiavamo con le dita, seguendo l’abitudine del nostro paese, senza fare caso ai passanti che ci guardavano. Eravamo giovani, qui da poco tempo. Non pensavo al futuro allora, e nemmeno al passato. Bastava un’ora per mangiare insieme a lui, all’aperto, in una nuova città da scoprire, e nulla di più.

 

Every morning, around this hour, I climb a long flight of steps. They tend to be filthy with litter from the young people who gather there at night. By the time I reach the top I’m out of breath and sweat runs down my back.

I continue up a curved road with a view. I cross a shaded park filled with statues, marble busts. I don’t recognize the poets and heroes. I know nothing of the history of this country.

I walk until I reach lighthouse, which seems useless since there is no ocean here, just buildings, trees, ruins, monuments. Mountains in the distance, and the brown, winding river that cuts through the city. And yet, the view makes me think of the sea, an expanse just as deep, impenetrable.

If I make it before sunrise the view has a grey, hazy quality. The buildings seem to be made of smoke. The mountains are barely visible, almost transparent. Today I’m a little late, and the city already glistens.

The particulars of this city don’t interest me. I’ve seen many. My husband and I traveled together through many countries before landing here.

What does astound me, every time I come here, is the sky immense, pure, endless. I can’t see it as I wait for the bus or walk along the streets. It’s only here that I can watch the shapes of the clouds as they continually reform and drift. I see a pair of gulls fly without moving their wings, without set direction. I see emptiness. 

In contemplating the empty sky I manage, from time to time, to feel close to my son. The sky unites us, despite the distance. Wherever one goes, the elements of the firmament remain unchanged: moon, sun, stars, wind and rain. My son, when he wants, sees them, too.

He was born here seven years ago. He was two when my husband grew ill and died. Without my husband, I couldn't raise him in this place, or keep him with me. I took him back to our country and left him with my mother. Then I returned to this city, where I have a good job.

I stay on to earn money for him, to give him a future. I care, here, for two children whose mother works all day in an office. I live with them. I take them to school. I feed them. They're sweet. I love them. I know them better than I know my own child. This is my punish- ment.

They say my father could see the future. Before he lost his sight he read the palms of neighbors and relatives. He predicted what was to come.

If he were still alive, what would I ask him?

Nothing. I know already. When I return one day to find and embrace my son, he will accuse me, reject me. I see how I will appear to him: ugly, old.

This is why the future is clear, while the present escapes me. It’s the here and now to which I am blind.

How is my son at this very moment, as I think of him? What is he doing in school, dressed in his uniform, sitting in class or in the cafeteria? How does he answer his teachers’ questions? What does he whisper to a classmate? What makes him laugh?

It all happens beyond the horizon, without my knowing, all of it unknown.

In a month the winter rains will arrive. The cold will creep into the bones. The mountain tops will be covered in snow. Another year passes. This is how my solitude is spent.

I leave the park. I spot other people who have nothing to do, who can stay to enjoy the view until sunset, when the landscape reddens. For a few moments everything becomes clear, precise, until the light fades.

I head down the steps. Even though climbing up is more tiring, I prefer it. At a certain moment, I feel my head spin. I sit down.

Years ago, on Sundays, when the city would empty, in the season when there seem to be more cicadas than people, my husband and I often came here. We would eat our midday meal, in the open air, on these steps. We ate with our fingers, as is the custom of our land, without minding the passers-by who would stare. We were young, recently arrived. We didn’t think of the future then, or of the past. It was enough, for an hour, to eat next to him, in the open, in a city yet to be discovered. And nothing more.

[Translated by Alberto Vourvoulias]


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