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EMILIO VILLA, Proverbi e Cantico. Traduzioni dalla Bibbia, a cura di Cecilia Bello Minciacchi, Napoli, Bibliopolis 2004, pp. 224, € 25,00.
«La Bibbia è la storia del dolore e della miseria di un popolo come smarrito nelle aule della propria memoria immaginaria, resistente in una proiezione di attesa senza fine, di confusa speranza di liberazione». A partire da questa convinzione, che esclude nettamente la Rivelazione divina, Emilio Villa ha trascorso anni e anni tra il ’40 e il ’50 nel difficile tentativo di produrre una nuova traduzione del testo biblico. Mosso da quella che lui stesso definisce una «intenzione obiettiva», finalizzata a «recuperare il testo attivo», ha tentato di restituire la complessità dei testi, mostrarne la ricchezza di riferimenti alle devozioni popolari, ad altri riti e miti, specialmente di derivazione egiziana, che in essa sono assorbiti e rielaborati.
Probabilmente uno dei principali motivi della mancata pubblicazione fino ad oggi di tale opera è proprio l’approccio dichiaratamente laico e filologico, attento a restituire la trama dei diversi generi letterari che hanno dato origine ai libri e a precisare la lettera del testo (ricostruito attraverso un puntuale confronto con le traduzioni più diffuse e un approfondito studio di fonti, etimologie, varianti, riportate minuziosamente in un ricco apparato di note).
Non si può dunque che rendere grazie a Cecilia Bello Minciacchi, che ha dato alle stampe una piccola ma preziosa parte dell’opera – Cantico e Proverbi, a cura della casa editrice Bibliopolis – corredando traduzione e note d’autore con un’ampia prefazione, una dettagliata nota ai testi e varie appendici.
Nei Proverbi, all’«approccio materico alla parola», come lo definisce la curatrice, Villa unisce il desiderio di mostrare la concretezza che animava i popoli antichi. Non sono infatti incisi sulla «tavola del cuore» come vuole l’esegesi tradizionale, bensì su «bende di ornamento» che si portavano al collo, ai polsi e alla testa (Prov. 1.9; 3.21; 4.9; 7.33); in essi la vita, secondo una concezione magica del mondo inscindibilmente intrecciata con quella etico-psicologica, è percepita quale strenua lotta della Scienza, sempre personificata, contro le forze del male («il demone mgn» – Prov 6.11, «il feroce messaggero» – 17.11, «il testimonio di Beliele», 19.28). Con la stessa icasticità è rappresentato l’amore nella traduzione del Cantico, che l’autore fa risalire ad un testo di origine ammonea, poi integrato nella pratica liturgica ebraica e inserito dall’epica giudaico-ellenistica tra i testi sacri. Descrizione di una liturgia dedicata a nozze sacre, esso sarebbe legato al culto delle divinità della primavera rinascente, Adone / Shalma e Tanit / Shulmit. Una dea, quest’ultima, non «bruna» (traduzione corrente), bensì «innamorata, presa di voglia» (Ct 1. 5-6), che canta: «Egli mi farà entrare nella casa dell’ebbrezza / e la sua virilità su di me sarà amore»(2.4), che esulta di gioia quando il dio resuscita dall’inferno sottraendosi a Lilith, il mostro infernale, cantando le lodi di lei: «Ecco, sei bella, amica mia! Ecco, bella tu!» (4.1). Dal confronto con le traduzioni più note emergono inoltre le doti del Villa poeta. Inversioni, anafore ellissi ed attente scelte lessicali impreziosiscono il testo in diversi punti, di cui qui si può offrire appena qualche esemplificazione: «Stillicidio che non lascia dormire / in giorno di pioggia a rovescio / molto assomiglia a donna rissosa»(Prov 27.15); «Che dirti, figlio mio? / che dirti, figlio del mio ventre? / che dirti, figlio dei miei voti?» (Prov 31.2); «Gigli le sue labbra / che stillano mirra liquefatta. / Le sue mani anelli d’oro / adorni di gemme» (Ct 5, 12). Da queste poche suggestioni apparirà chiaro pertanto che è proprio grazie all’umanità, alla profonda responsabilità nutrita nei confronti del testo e al dettato poetico che Villa ci restituisce una Bibbia con un volto nuovo, disseminata di interessanti varianti e fonte di rinnovata riflessione per esegeti e biblisti.
Manuela Lucianaz

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11 settembre 2023
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