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Una suggestione comparatista, seppur di valore marginale rispetto alle analisi tematiche già emerse dal fondamentale corpus di poesia medievale galego-portoghese a noi pervenuto, ci giunge dalla lettura di una cantiga de amor e di una cantiga de amigo collocate tra la prima e la seconda metà del XIII secolo, opere di poeti di corte regia le cui scarsissime notizie bibliografiche non permettono una ricostruzione dettagliata delle medesime. La specificità delle realizzazioni trovadoriche portoghesi non risiede unicamente nel dato evidente, più volte sottolineato (Sansone, 1990), della perfezione versificatoria e stilistica rispetto al modello provenzale, ma si ravvisa, nell’ottica di un approfondimento lusoitalianistico, anche in alcuni aspetti tematici presenti in area poetica toscana e già elaborati in ambito galego-portoghese con ricchezza di originalità autoctone.
La suggestione inizialmente intuita ci consente di ravvisare un minimo legame, sorta di idea anticipatrice, intercorrente tra la dantesca Vita Nova e le composizioni di João Garcia de Guilhade (o D. João de Guilhade) e João Airas de Santiago per quanto riguarda il marcante tema che dagli occhi, «li quali sono principio d’amore»(1), conduce al concetto di visione, immagine, sogno come causa, fonti e mezzi attraverso cui si esplicita la potenza amorosa. Pur non potendo fissare con esattezza la data di composizione di tale poesia iberica, ma supponendo valido il dato di una sua precedenza cronologica rispetto agli anni di creazione dell’opera dantesca (1292-1293), e non potendo congetturare, inoltre, una significativa e massiccia ricezione in ambiente toscano della produzione poetica in galego (o galaico) portoghese, lingua mista e di cultura per tutta la penisola iberica almeno fino al XV secolo (anche tenendo conto delle giuste riflessioni di Roncaglia sulla presenza di Cavalcanti in Galizia in occasione del pellegrinaggio verso Santiago(2)), è quanto meno possibile ritenere comuni e simili le costruzioni di immagini e concetti che si realizzano tanto nei versi della poesia trovadorica iberica quanto nel prosimetrum dantesco, composizioni che attingono entrambe, lo abbiamo accennato, al grande calderone innovativo rappresentato dalla poesia provenzale (allineandoci in questo all’opinione espressa da Formisano circa la non incontrovertibilità dell’esclusiva influenza galego-portoghese sugli stilnovisti(3)), realizzata, nel primo caso, soprattutto con esattezza compositiva, nel secondo, con originalità ricreativa.
Ciò che nel Dante della Vita Nova reiteratamente viene ribadito come conoscenza diretta d’Amore, il «tremare de li occhi»(4), il passaggio attraverso gli occhi con cui si «riduce in acto questa potentia»(5) d’amore, poiché il primo contatto con l’amata avviene esclusivamente attraverso gli occhi («quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente»(6)), reso dal poeta fiorentino con un’insistenza al limite dell’ossessività stilistica nel coinvolgimento di tutta una gamma lessicale particolarmente densa d’implicazioni semantiche, e ciò che, inoltre, nel poeta del sì mira essenzialmente a sottolineare la funzione del vedere la donna amata nel riflesso della sua bellezza interiore esplicita nella perfezione di portamenti e lineamenti il cui apice è nei versi di «Tanto gentile e tanto onesta pare»(7), compare nelle composizioni iberiche qui in esame in modo sorprendentemente evidente e, lo si avverte immediatamente, con caratteristiche di somiglianza e deviazione dalla norma originali rispetti ai moduli danteschi. Ciò che qui si vuole sottolineare è come il senso di quel ‘parere’ ed ‘apparire’ che tanta parte ha nella poesia dantesca nel suo significato manifesto di prova certa imposta agli occhi, evidenza irrefutabile che pur non lesina la sorpresa, la meraviglia per la stessa certezza schiacciante della bellezza del nostro oggetto d’amore, compaia in una poesia di ciclo alfonsino (1253-1284) del Guilhade, attraverso il costante utilizzo del verbo sostantivato ‘parecer’ (l’apparire, l’aspetto) e legandosi strettamente e conseguentemente al concetto cardine dell’evidenza, a quel ‘ver’ (vedere) proposto sin dall’incipit e ribadito in costruzione invertita, ma a guisa di ripresa e quindi fulcro di tutta la tensione poetica e significativa del testo, nell’ottavo e centrale verso («Vi oj’ eu» ? «que eu vi») della seguente composizione:


Vi oj’ eu donas mui ben parecer
e de mui bon prez e de mui bon sen
e muit’amigas son de todo ben,
mais d’u moça vos quero dizer:
de parecer venceu quantas achou
ua moça que x’agora chegou.

Cuidava-m’ eu que não aviam par  
de parecer as donas que eu vi,
atan ben me parecian ali,
mais, poi’ la moça filhou seu logar,
de parecer venceu quantas achou 
ua moça que x’agora chegou.                                                                                                          Que feramente as todas venceu
a mocelinha en pouca sazon! 
De parecer todas vençudas son! 
Mais, poi’ la moça i pareceu, 
de parecer venceu quantas achou 
ua moça que x’agora chegou(8).


Vidi oggi io donne di gran bell’aspetto 

e di molto buon merito e di molto buon senno

e molte amiche son di grande beltà,

ma d’una fanciulla vi voglio dire:

nell’aspetto vinse quante ne trovò 

una fanciulla che testè arrivò.

 

Credevo io che non avean pari

nell’aspetto le donne ch’io vidi, 

di tanta beltà mi parevano lì,

ùma, allorché la fanciulla prese il suo posto,

nell’aspetto vinse quante ne trovò 

una fanciulla che testè arrivò.

 

Che dignitosamente le vinse tutte

fanciulletta in poco tempo!

Nell’aspetto tutte vinte sono!

Ma, allorché la fanciulla ivi apparve,

nell’aspetto vinse quante ne trovò

una fanciulla che testè arrivò.

(Traduzione letterale dell’autrice)




La bellezza di Beatrice che in Dante è rappresentazione e mezzo attraverso cui s’infonde negli uomini gentili la virtù e nei cuori onesti la dolcezza, è nel Guilhade esclusivo riferimento estetico, termine di gara e comparazione, mostra. Ecco allora che acquistano pregnanza termini come «venceu», «non aviam par», «vençudas», termini di una competizione estetica che in questa cantiga de amor (è il poeta a parlare dell’amata) insistono sulla visione e sulla contemplazione delle fattezze esteriori della donna, a tal punto che un verbo come ‘parecer’, incluse le sue variazioni flessionali, arriva a presentare ben otto occorrenze in un totale di diciotto versi. Bisogna inoltre sottolineare che la moça cantata dal Guilhade sembra quasi sfilare presentemente alla narrazione poetica, particolare del resto denunciato dall’avverbio di refrain («x’agora») e dai due deittici spaziali («ali», «i»), contrariamente a ciò che avviene nel verso dantesco, giocato tutto sul filo dei ricordi. Per quanto riguarda la cantiga de amigo (è la donna a parlare dell’amato) di João Airas, probabilmente successiva alla composizione del Guilhade, quello che qui ci preme evidenziare è, oltre al ritorno dei temi del ‘parecer’ e del ‘ver’, la rivelazione di una sorta di risposta o controcanto alla precedente composizione poetica, la sottile vena ironica di colei che, cosciente della propria avvenenza, non solo non fa mistero di tale consapevolezza con un che di altero e sprezzante, ma tiene ad esprimere in toni canzonatori un giudizio di ovvietà e banalità nei riguardi di un ruolo, quello del poeta che declama in versi la bellezza femminile, denigrato e ridotto ad attività inconsistente e, in fondo, non richiesta. Anche in questo caso il vedere la bellezza nella sua percezione concreta non attinge mai, a differenza della lezione dantesca, la contemplazione astratta di un riflesso negli occhi della mente, rimanendo sempre ancorata ad una conoscenza diretta e tangibile, ad un evidente presentarsi alla vista che, tuttavia, appare privo della sorpresa e della meraviglia tipici del ‘parer’ dantesco, insistendo invece sul concetto espresso a più riprese della coscienza della bellezza della donna e della conseguente inutilità della sua lode in versi:

Diz meu amigo tanto ben de mi        

quant’ el mais pod’, e de meu parecer,         

e os que saben que o diz assi

teen que ei eu que lhi gradecer:                     

en quant’ el diz non lhi gradesc’ eu ren,       

ca mi sei eu que mi paresco ben.       

 

Diz-mi fremosa e diz-mi senhor,       

e fremosa mi dirá quem mi vir,                     

e teen que mi faz mui grand’amor     

e que ei eu muito que lhi gracir:        

en quant’ el diz non lhi gradesc’ eu ren,       

ca mi sei eu que mi paresco ben.       

 

Diz muito ben de min en seu trobar  

con gran dereit’, e al vos eu direi:     

teen ben quantos mi lh’ oen loar       

que eu muito que lhi gradecer ei:      

en quant’ el diz non lhi gradesc’ eu ren,       

ca mi sei eu que mi paresco ben.       

 

Ca, se eu non parecesse mui ben,      

de quanto el diz non diria ren(9).  

 

L’amico mio dice bene di me

quanto più può e della mia beltà,

e quelli che sanno che dice codesto

pensan ch’io debba mostrami a lui grata:

per nulla lo sono di quello che dice,

perché so bene d’aver bell’aspetto.

 

Mi dice avvenente, mi chiama signora

ma che son bella al vedermi è già detto;

pensan però che mi dà grand’amore

e che io debba a lui esser grata:

per nulla lo sono di quello che dice,

perché so bene d’avere bell’aspetto.

 

Gran lode egli nei canti mi fa,

ben giustamente; e più vi dirò:

pensando quelli che l’odon lodarmi

che debba grata essergli molto:

per nulla lo sono di quello che dice,

perché so bene d’avere bell’aspetto.

 

Se io non avessi aspetto sì bello,

di quel che dice più nulla direbbe.

[Diorama lusitano. Poesie d’amore e di scherno dei trovatori galero-portoghesi, a cura di Giuseppe E. Sansone, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990, p. 175]


Questo componimento capdenal per la struttura anaforica insistita a inizio strofa («diz meu», «diz-mi», «diz muito») e per il ricorrere in ben dodici occasioni del verbo ‘dizer’ (dire), se accostato al dato delle cinque occorrenze del concetto del ‘parecer’, della sua specificazione ‘parecer (mui) ben’ e dell’aggettivo ‘fremosa’, tutti gradi in crescendo di una descrizione meramente esteriore della bellezza femminile, trova il suo perno fondamentale in quell’ottavo verso («e fremosa mi dirá quem mi vir») che contiene in sé la chiave di senso di tutta la cantiga, il racconto della visione della bel- lezza come necessità incontenibile per il poeta, così come sarà anche nella scrittura dantesca:

«come io ymagino la sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne un desiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge nella mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei»(10).

Ma se nel poeta toscano il cantare la bellezza si lega indissolubilmente al concetto di un venir meno di facoltà intellettive adeguate all’alto scopo (tanto «ch’ogne lingua deven tremando muta»(11) e quella grazia era così «piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no·llo sapeano»(12)), nell’ultimo testo galego-portoghese il concetto dell’ineffabilità della bellezza beatificante della Beatrice dantesca è del tutto assente, tanto che quel «che sono bella nel vedermi è già detto» non sembra concedere alla visione della grazia femminile i contorni di una divina rappresentazione quale strumento della grazia e della sublimazione nell’an- gelico che in Dante ha tanta parte. Una lezione che, al contrario, verrà ripresa in una cantiga de amor inclusa nel Cancioneiro de Baena, il cui autore, Alfonso Alvares de Villasandino (collocato tra 1340/50 e 1428), proponendoci un componimento dotato di tutti gli elementi classici della coita d’amor, la sofferenza per la lontananza della donna amata, attua uno spostamento di senso dal concetto per così dire terreno del fascino fisico a quello di una bellezza più eterea, rarefatta, vissuta nel ricordo o nell’immagine. In altre parole, laddove il concetto di bellezza si collega ai termini della visione e della sua gamma lessicale e semantica di riferimento, com’è in Dante, il concetto di avvenenza riesce ad elevarsi dal suo stato corporeo di evidenza concreta per sublimarsi nella sofferenza tutta psicologica della lontananza come impossibilità di realizzare presentemente la visione dell’amata. In questo senso, la poesia di Villasandino presenta una densità di riferimenti esattamente espressa dalla prima strofa che lega la sofferenza d’amore all’impossibilità della visione («pois non vos posso ver, / non sei que seja de mim.»):

 

Dês que de vós me parti,        

lume destes olhos meus,        

por la fé que devo a Deus,     

já mais prazer nunca vi;         

tan graves cuitas sofri,           

sofr’ e atendo sofrer   

que, pois non vos posso ver,              

non sei que seja de mim.

Choran con gran soedade       

estes meus olhos cativos;       

mortos son, pero andam vivos,          

manteendo lealdade;  

senhora, gran crueldade         

fazedes en olvidar      

a quen non lhe praz mirar      

se non vossa gran beldade.

            

Meus olhos andam mirando              

noite e dia a todas partes,       

buscando por muitas artes      

como non moira penando,      

mais meu coraçon pensando  

non lhes quer dar prazer;        

por vos sempre obedecer       

eles non cessan chorando(13).


Da quando da voi mi partii,

luce di questi miei occhi,

per la fede che devo a Dio,

giammai maggior piacere vidi;

tanto gravi dolori sofrii,

soffro e attendo di soffrire

che, per non potervi vedere,

non so che sarà di me.

Piangono con gran nostalgia

questi miei occhi prigionieri;

morti sono, ma procedono vivi,

restando fedeli;

signora, grande crudeltà

fate nel dimenticare

colui che non ama guardare

se non la vostra grande beltà.

 

I miei occhi vanno guardano

notte e giorno in ogni parte,

cercando con molte arti

come non morir penando,

ma il mio cuore meditando

non vuol darvi piacere;

per obbedirvi sempre

essi non cessano di piangere.

(Traduzione letterale mia)

Da Villasandino, quindi, le influenze tematiche riprendono la direzione del loro cammino da oriente a occidente. Vi ritroviamo infatti il senso di espressioni dantesche quali «Beato, anima bella, chi te vede!»(14) o «Oi anima bellissima, com’è beato colui che ti vede!»(15), ma troviamo soprattutto il legame che dalla luce degli occhi, dall’illuminazione dell’anima e della coscienza umane («vede una donna che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira»(16)), che erano già in Guinizzelli («più che stella diana splende e pare»(17)) e in Cavalcanti («che fa tremar di chiaritate l’âre»(18)), attraverso l’oculum quale sede di senso estetico e quindi morale, arriva al pianto, prodotto e ferita degli occhi così com’è nello stesso significato etimologico del plangere e della plaga, termini che ci permettono di comparare le lacrime che rigano il volto a tracce di piaghe e ferite fisiche d’amore. Il planctum che è fuoriuscita, che è versare, emettere e rendere tangibile il dentro della coita nel fuori della lacrima, implica allora un movimento incessante e una dinamicità dello sguardo oltre che della lacrima che troviamo anche nei verbi dell’«andar mirando» e del «buscar», i quali in questo modo attribuiscono alla vista e agli occhi caratteristiche del movimento come l’instabilità, il girovagare continuo alla ricerca dell’amore e il desiderio d’attenuazione della sofferenza che anche in Dante passano attraverso i verbi del ‘volgere’ («volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso»(19)), del tremare, del ‘movere’ («Degli occhi suoi, come ch’ella li mova»(20)) e del ‘levare’ («levai gli occhi per vedere se altri mi vedesse»(21)). Il testo di Villa- sandino è, insomma, calco di quel sonetto che Dante dedica alla donna della finestra, colei che risuscita nel poeta il ricordo dell’amata e della di lei bellezza, e in cui anche l’autore toscano descrive quell’«andare per vedere»(22) e quelle «lagrime fuori delli [...] occhi»(23) a cui abbiamo accennato:

 

Color d’amore e di pietà sembianti 

non preser mai così mirabilmente 

viso di donna, per vedere sovente 

occhi gentili o dolorosi pianti, 

come lo vostro, qualora davanti 

vedetevi la mia labbia dolente;

sì che per voi mi ven cosa a la mente, 

ch’io temo forte non lo cor si schianti. 

Eo non posso tener li occhi distrutti 

che non reguardin voi spesse fiate, 

per desiderio di pianger ch’elli hanno:

e voi crescete sì lor volontate,

che de la voglia si consuman tutti;

ma lagrimar dinanzi a voi non sanno(24).

 

Temi che saranno ancora più evidenti e, per così dire, assodati in via definita nello stilnovista portoghese Sá de Miranda (1481-1558), laddove il tema del mutamento, del movimento che presiede all’attività della vista si ricollega for- temente al concetto di sogno e mostra vana, a quello della luce e dello splendore che acceca, presenti ancora nella Vita Nova ogni qual volta Dante racconta di immagini e visioni vissute nel sonno e nel sogno («E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, nel quale m’apparve una maravigliosa visione»(25)), o nel descrivere i mirabili effetti scaturiti dagli occhi di lei in termini di fuoriuscita di «spirti d’amore inflammati; / che fèron gli occhi a qual che allor la guati»(26):

Nada do que vês é assi 

trás os olhos não te abales; 

tudo é «mudem-me daqui, 

matem-me nessoutros vales.» 

Posto que al te assi pareça 

deste sonho e mostra vã, 

por de fora resplandece, 

dentro não há cousa sã. 

Corri montes, corri vales, 

cuidado cego após ti; 

deixa-me morrer já assi, 

não me mandes ver mais males(27). 

Nulla di ciò che vedi è così,

dietro gli occhi non ti scuotere;

tutto è «portatemi via da qui,

uccidetemi in altre valli.»

Posto che altro ciò ti appaia

di questo sogno e mostra vana,

dal di fuori risplende,

dentro non v’è cosa sana.

Corsi per monti, corsi per valli,

occupazione cieca dopo di te;

lasciami ormai morir così,

non farmi vedere altri mali.

 

Tuttavia, mentre in Dante la ricerca della visione beatificata della donna amata è accolta positivamente, in Sá de Miranda taleapparire, il quale ha una portata più esistenziale che inerente all’esperienza amorosa, denuncia la disillusione d’ogni vanità, la rivelazione del caduco e del falso. Il sogno diviene allora vacuo monstrum e semplice evocazione della realtà e quel pháinein che è la stessa fantasia delle visioni dantesche («Allor lasciai la nova fantasia, / chiamando il nome della donna mia»(28)), le «cose dubitose»(29), il «vano ymaginare»(30) in Sá de Miranda diventano un voler credere di vedere, una cecità come assenza d’illuminazione razionale, salvo poi arrendersi in altro sonetto all’evidenza di una forma d’amore che sovrasta la ragione stessa e annega l’uomo in quel mare dell’incertezza, in quel piacevole smarrimento dei sensi che prendeva in Dante la forma di un vero e proprio deliquio fisico: 

Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai gli occhi, e mirando le donne, vidi tra·lloro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì distructi li miei spiriti per la forza che Amore prese vergognandosi in tanta propinquitade alla gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso(31). 

Anche se, a differenza della rima dantesca in cui il deliquio fisico era sempre espressione del mirabile e del miracolo, in Sá de Miranda il perdersi dei sensi si traduce nell’expavere dell’«espanto» e dello stupore, nel temere molto, nel dubitare non solo del sogno, ma soprattutto della vista, della certezza irrefutabile, di ciò che i sensi e la ragione insieme mai potrebbero negare:

Quando eu, senhora, em vós os olhos ponho, 

e vejo o que não vi nunca, nem cri 

que houvesse cá, recolhe-se a alma a si 

e vou tresvaliando, como em sonho.

 

Isto passado, quando me desponho,

e me quero afirmar se foi assi, 

pasmado e duvidoso do que vi,

m’espanto às vezes, outras m’avergonho.

 

Que, tornando ante vós, senhora, tal, 

quando m’era mister tant’outr’ajuda, 

de que me valerei, se alma não val? 

 

Esperando por ela que me acuda, 

e não me acode, e está cuidando em al, 

afronta o coração, a lingua é muda(32).


Quando io, signora, in voi gli occhi pongo,

e vedo ciò che non vidi mai, né credetti

che vi fosse qua, si raccoglie l’anima in sé

e vado delirando, come in sogno.

 

Passato ciò, quando mi rimetto,

e voglio accertarmi se fu così,

stupito e dubbioso di ciò che vidi,

mi spavento a volte, altre mi vergogno.

 

Che, tornando davanti a voi, signora, tale,

quando m’era d’uopo tutt’altro aiuto,

di che mi varrò, se l’anima non vale?

 

Attendendo ch’ella mi soccorra,

e non mi soccorre, e va occupandosi d’altro,

oltraggia il cuore, la lingua è muta.

 

(Traduzione letterale mia)


1 Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di Luca Carlo Rossi, Mi- lano, Mondadori 1999, p. 95.

2 Aurelio Roncaglia, «Ecci venuto Guido ‘n Compostello? Cavalcanti e la Galizia», in O cantar dos trobadores, Actas do Congresso celebrado en Santiago de Compostela entre os días 26 e 29 de abril de 1993, Xunta de Galicia, 1993, pp. 11-29.

3 Luciano Formisano, «Cavalcanti e la pastorella», in Cri- tica del testo, IV/1, 2001, «Alle origini dell’Io lirico. Cavalcanti o dell’interiorità», Roma, Viella 2001, pp. 245-262.

2 Id., p. 48.

3 Id., p. 105.

4 Id., p. 8.

7 Id., p. 142.

8 Poesia e Prosa medievais, selecção, introdução e notas por

M. E. Tarracha Ferreira, Lisboa, Ulisseia 1981 (19983), p. 53.

9 Id., pp. 71-72.

10 Dante Alighieri, op. cit., p. 71.

11 Id., p. 143.

12 Id., p. 142.

13 Poesia e Prosa medievais, op. cit., p. 107.

14 Dante Alighieri, op. cit., p. 124.

15 Id., p. 118.

16 Id., p. 218.

17 Guido Guinizzelli, Rime, a cura di Luciano Rossi, Torino, Einaudi, p. 52.

18 Guido Cavalcanti, Rime, a cura di Giulio Cattaneo, Torino, Einaudi 1967, p. 23.

19 Dante Alighieri, op. cit., p. 14.

20 Id., p. 92.

21 Id. p. 183.

22 Id., p. 187.

23 Id., pp. 187-188.

24 Id., pp. 188-189.

25 Id., p. 15.

26 Id., p. 92.

27 Sá de Miranda, Poesia e Teatro, selecção, introdução e notas por S. A. Benedito, Lisboa, Ulisseia 1988, pp. 58-59.

28 Dante Alighieri, op. cit., p. 120.

29 Id., p. 122.

30 Ibidem.

31 Id., pp. 64-65.

32 Sá de Miranda, op. cit., p. 163.


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