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pubblicato SC 62, 2020/1


LORENZO MARI, Querencia, Salerno, Oèdipus, 2019 (‘Croma K’), pp. 45, € 11,00.

 

         Il recupero del mito tragico della corrida dai magazzini profondi del Novecento corrisponde nel piccolo libro, estremamente coeso, di Lorenzo Mari, a una sorprendente ed efficace resa plastica del grande combattimento ingaggiato con la lingua. La corrida, come rito, è un universo di segni interpretabili all’interno di un sistema di significati culturali, antropologici e letterari. Si incarica di ricordarcelo una classica citazione, a inizio libro, da Michel Leiris. Attento ai significati, Mari aggancia testi e spezzoni di testo sulla tauromachia alla memoria di altri luoghi ed educazioni: i segni di preistoriche corride nei graffiti rupestri; una partita di tennis «nello spazio di Wimbledon» (doppio sociologico della corrida nell’arena dell’alta società); frammenti di un’educazione cattolica che il lettore non sa bene come legare alla storia principale se non pensandola come una mala educación o comunque come risposta del tutto insufficiente alle forze pagane suscitate dalla corrida. Il montaggio per immagini di questi strati di storie, mescolati verticalmente tutti insieme («rinascendo prete tennista / torero»), è spinto volentieri fino al limite (pure novecentesco e forse con un occhio a Buñuel) del surrealismo. È l’orrore disturbante dell’incubo gastronomico della «lingua di toro, servita nel piatto al vegetariano – un salmì restato candente». È la preghiera obliqua che deve proteggere da un ‘corno’ che è tanto quello del Maligno che del toro: «(il quaderno del prete, abbandonato nell’androne, è pieno di ghirigori senza senso, e di osceni, tutti uguali, disegnati dai compagni) – noi per esempio, che di noi diciamo: santifica la traccia, pur abbandonandoci, perché allora si potrà perdonare, restare uniti in qualche forma: noi stiamo attenti al corno e tu a quel punto, come sempre, ma ancor di più in quel punto pur abbandonandoci non abbandonarci – ». Ma anche un semplice nome, come la psicanalisi ci insegna, può bastare a innescare il corto circuito: la grotta di Chauvet si sovrappone al pamphlet manzoniano complice l’omonimia con il destinatario del medesimo: «la lettera è alla porta di chauvet come l’unità / e il tempo della tragedia che sono alla porta». Un gioco di parole si fissa in un altro: «et après, c’est Daguerre comme à Daguerre», che è la resa argentica del triviale «à la guerre comme à la guerre».

         Il secondo aspetto rituale sfruttato da Mari porta direttamente a una riflessione sulla lingua della poesia proprio dove la lingua si sfuoca. Come arena in cui si affrontano, tra sport e liturgia, funzioni mitiche e dove il singolo si misura con le forze dell’inconscio, la corrida è un insieme regolato di gesti e di voci, una metrica di significanti («Cambiare il rito dice, al microfono, perché si finisce comunque, una volta ogni sette sillabe, per impazzire»). Dalle pareti rupestri dell’inconscio emerge una lingua data, lacanianamente, come lallazione, lalangue (lingua materna, pre-lingua significante): «dici che nasce una lingua potente, ovvero / potente poiché debole potente poiché nulla / poiché ai tempi, al passo senza passo restando / chi lalla è di sconcerto e dici che chi lalla / non sposta niente invece interi muri intere / caverne si sono viste e lunghissime opere / di bisonti (senza le corna poi con le corna) / semplicemente lallando di un lallare diverso / e allora dici: lalla, lalla che poi si parla». Lacanianamente queste lallazioni sono puns e 'tics' anagrammatici (« [...]se è epilettico muoversi quinci, se è dialettico o se è /// lallà») che ritmano la danza di un’uscita dalle caverne tanto rituale quanto soprattutto comico/sgangherata: «dalla caverna uscire usciremo: lallando / contro ogni paura contro ogni lallazione ovvero: / contro ogni eco lallallà lalallallà – lallallà / lalallallallà e poi lallà per tornare alla luce / del fuoco dentro a visitare il suo bisonte / millenario il toro con la pelliccia l’arte / o anche soltanto un osso rinato osso di corno / lalallallallà uscire usciremo: lallando, sì che».

Il bilancio linguistico della corrida rivisitata da Mari non si colloca però sulla traccia di un’avanguardia asemantica o vitalistica di un Novecento primitivista che guarda addirittura alla preistoria. Certo, come già per Leiris, la corrida permette di fare i conti con ogni tentazione di classicismo, quest’ultimo sommessamente (e seduttivamente) presente in uno dei testi dove si affaccia l’autore stesso del libretto: «si alza di notte e vaga e vorrebbe riscrivere / qualche poesia della grande tradizione / italiana per il catechismo dei fanciulli / invece riscrive holan e guardando la neve / che cade bianca e nera passa dalla stanza / alla cucina alla sagrestia alla chiesa / all’arena: illumina tutto, con le porte». Ma soprattutto, con approccio razionalista/illuminista, il toro di Mari riveste la stessa funzione della ‘bestia’ nella grande caccia messa in scena nel Conte di Kevenhüller caproniano. Il toro/lingua sfugge sempre alla rappresentazione della funzione linguaggio, non ammette la subordinazione a un significato: «Predica a lungo. Predica niente. Predica vuoto. Non predica toro». Possiamo dire cos’è la grammatica della corrida, non cosa è il toro. Si tratta di un discorrere per ‘via negativa’ che incontra (anzi, cita) l’universo caproniano rinviando perfino a una ‘teologia negativa’: «come tutto all’aura disperso noi chiameremo / dio ma in un altro posto». E la presenza di Caproni emerge nella clausola rimico/filosofica (pure nascosta nella prosa) di: «Nessuno, nemmeno lui, o lei, dalla sua posizione, vede lo spazio restante come spazio cambiato: non è libero, e poi non è nuovo. È tutto, dalla prima all’ultima lettera impredicato» (corsivo nostro). Ma, contrariamente al finale aperto della caccia caproniana, la fine del toro è scritta (e questo nonostante la querencia del titolo, termine tecnico della tauromachia, rinvii a uno spazio dell’arena in cui il toro è temporaneamente al riparo dalle armi dei toreadores): «verso lo lascia su alba pratalia la bestia fumante sull’erba, la bestia che fuma, nell’arena, sì che lascia due righe ancora, di vuoto, forse di bianco, in basso». Ucciso il toro/lingua, qui sotto le spoglie del toro/scrittura dell’indovinello veronese (genere, l’indovinello, perfettamente lacaniano), sparisce però anche il torero. Il toro è nemico e sodale («esiste una pietà anche al toro / anche al torero») e il senso della corrida di tempi e linguaggi, elaborato da Mari, è disforico. La vitalità e la forza della corrida che potevano toccare ancora Leiris, per quanto già in postura decostruttivista, sono un ricordo letterario; la messa a morte del toro «è semplicemente per una svista del padrone, noi restando servi»; non trasforma, insomma, lo scrivente in matador. Non per questo però la corrida di Mari è un piatto vegetariano: è anzi un ottimo esempio di come l’esercizio di smontaggio di un mito letterario liberi altri miti, immagini ed elementi di linguaggio. Che questi si avvantaggino dell’incandescente forza dell’originale, dipende anche dalla buona dose di ‘ricercare’ (come ricorda il risvolto di copertina) e, naturalmente, di suscitare forti affetti, in armonia con il querer che si trova alla radice della Querencia evocata dal titolo.

 (Fabio Zinelli)

 

 

 



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