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in stampa Semicerchio 64, 2021/1

LUCIANO MAZZIOTTA, Posti a sedere
, Livorno, Valigie Rosse, 2019, p. 94, €12.

 

Senza delineare un progetto compiutamente allegorico – tali progetti, peraltro, hanno sempre più spesso una funzione consolatoria, proponendosi come una tra le tante strategie retoriche a disposizione di chi scrive e offrendosi, così, senza il peso benjaminiano delle macerie della storia – il terzo libro di Luciano Mazziotta trova già in limine la sua ragion d’essere: Posti a sedere, infatti, non è soltanto sostantivo, ma anche participio passato; il suo portato semantico, di conseguenza, si trova a fluttuare, in modo costante e indefinito, tra vari possibili approdi. Tra questi, spiccano il binarismo vuoto/pieno, nonché la violenza con la quale si è “posti a sedere” da qualcuno o qualcos’altro: al “posto a sedere” come denominazione metaforica del segnaposto linguistico – in quanto evidenza, di marca post-strutturalista, di quello svuotamento che colpisce non soltanto il cosiddetto “io lirico”, ma anche tutte le altre realtà pronominali – si somma sempre la manifestazione di una potente violenza materiale, chiaramente incardinata nella storia e nell’economia politica del nostro tempo.
Apparentemente diverse, se non antitetiche, queste due tendenze si configurano invece, nella poesia di Mazziotta, come due lembi di uno stesso tessuto, che si possono anche ri-annodare tra di loro. Uno tra i tanti possibili nodi può essere allora rintracciato nell’idea di non-abitabilità degli spazi domestici, che si rivela essere pervasiva, manifestandosi tanto nella citazione in esergo (da Cemento di Thomas Bernhard: “La casa non era vuota, era morta. È una cripta, pensavo”) quanto in quella di chiusura (da “Afterwards”, poesia di Philip Schultz: “The present remains uninhabitable”). Inoltre, “il male è nella casa”: i riferimenti alla Medea di Euripide abbondano nel libro, sia come portato della formazione classicista dell’autore, sia, forse in modo più cogente, come monito contro ogni celebrazione – variamente nazionalista, xenofoba, o anche solo ingenuamente intimista – della dimensione domestica. In questo modo, si aggirano alcuni cliché di quella poesia contemporanea che si gioca interamente sulla tematizzazione della casa, come ad esempio l’ossificazione della topica della crepa, presente nella poesia italiana a partire almeno dal libro Da una crepa (Einaudi, 2014) di Elisa Biagini – con l’eccezione, tuttavia, di alcune scritture poetiche che ne mantengono viva la ferita fondamentale, come Casa rotta (Arcipelago Itaca, 2017) di Valentina Maini.
Per Mazziotta, in ogni caso, questa non sembra essere soltanto una questione di domesticità vera o presunta (e della sua variante più chiaramente legata a relazioni di potere, ovvero “l’addomesticamento”), ma anche del fallimento nella ricerca di una posizione dalla quale si possa, effettivamente, parlare. Inabitabilità e crisi della posizionalità intellettuale che l’essere “posti a sedere” non concilia, semmai aggrava: di cruciale importanza, all’interno del libro, sembrano allora essere i tre testi della prima sezione, “Questo posto” che terminano con tre versi di sicuro impatto – rispettivamente, “noi non siamo all’interno di un futuro” (p. 13), “noi non siamo all’interno di un presente” (p. 16) e “noi non siamo all’interno di un passato” (p. 19). Quello che ci si presenta come svuotato è un “noi” in prima battuta generazionale – Roberto Batisti, nella recensione apparsa sulla rivista online La Balena Bianca il 6 settembre 2019, ha giustamente parlato di “classicismo del disagio contemporaneo”, a proposito della poesia di Mazziotta – ma che si può estendere e universalizzare, nella sua condizione di impossibile abitazione del tempo (nonché, probabilmente, dello spazio).
Si tratta, inoltre, di tre testi che illustrano in maniera esemplare la qualità “d’ordine metrico, o per meglio dire percussivo” della poesia di Mazziotta, così come la descrive Paolo Maccari nel denso eppure sempre puntuale risvolto di copertina del libro. Batisti, ancora una volta, ha correttamente individuato i moduli ternari sui quali sono costruiti i testi come base per la creazione di una “ossessiva cadenza anfibrachica”, ma sembra opportuno sottolineare anche il fatto che i versi appena citati appaiono sempre all’interno di un distico completato da invocazioni pseudo-magiche della lingua: “lingua ametista malachite corallo:” (p. 13), “liquida lingua di ghiaccio di neve:” (p. 16) e “lingua di quarzo antracite cristallo” (p. 19). Senza farsi ridondante dichiarazione di poetica, l’invocazione della lingua poetica passa dalla liquidità del canto alla più frequente produzione di dure concrezioni minerali – rinviando, con ogni probabilità, anche alla “petrosità” di dantesca memoria – e trovando, infine, un punto di mediazione nell’effetto ossessivo generato dall’iterazione dei moduli ternari.
Un altro nodo che è possibile tornare a stringere unendo i lembi offerti dall’opera di Mazziotta riguarda la pratica poetica dell’ecfrasi falsa o impossibile. È lo stesso autore a condurci su questa pista, nelle note in appendice al testo: a proposito della sezione “Case museo”, infatti, Mazziotta dichiara che “[i] vari testi che compongono questa sezione sono dunque delle ekphraseis false o quasi false. E questo l’ho scoperto, lucidamente, ex-post” (p. 84). Non si tratta soltanto di ammettere la possibilità del lapsus memoriae – definizione che non per caso rinvia al libro precedente dell’autore, Previsioni e lapsus (Zona, 2014) – e di mantenerne comunque la validità poetica, ma anche di costruire una serie di ecfrasi false o impossibili, secondo una tradizione ormai consolidata in ambito angloamericano (a partire, almeno, dal 1975, con Self-Portrait in a Convex Mirror di John Ashbery, recentemente ripubblicato in italiano nella traduzione di Damiano Abeni, per i tipi di Bompiani) e italiano (i modelli, in questo caso, esplicitamente convocati da Mazziotta in alcune interviste disponibili in rete, sono Pitture nere su carta di Mario Benedetti e Commiato da Andromeda di Andrea Inglese). A questa tradizione bisogna poi aggiungere, con ogni probabilità, i Complete Films (1983) di Corrado Costa, il cui magistero sembra evocato dalle fotografie impossibili che costellano l’ultima sezione di Posti a sedere – il cui titolo è, peraltro, una indicazione più specificamente cinematografica: “Piano sequenza” – e che risultano ripetutamente introdotte dalla formula “Questo è un buon soggetto per una fotografia” (pp. 67, 71, 75).
La parentela tra fotografia e cinema – colti entrambi nell’impossibilità dell’immagine, in luogo della sua proliferazione, dalla quale siamo ormai quotidianamente soverchiati – è accentuata dal tema della falsa ecfrasi di “Case museo”, ossia l’affresco denominato Trionfo della morte, di autore ignoto e risalente alla metà del XIV secolo, ubicato presso il Palazzo Abatellis di Palermo, ovvero nel cuore della città natale di Mazziotta. Oltre a essere stato analizzato esaustivamente come Un’allegoria della modernità nell’omonimo saggio di Michele Cometa (Quodlibet, 2017), il Trionfo della morte ha infatti un ruolo decisivo in un film come Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders. In questo film, vi è almeno una scena particolarmente significativa se accostata al libro di Mazziotta, ed è quella in cui la Morte, interpretata da Dennis Hopper, prende in carico questa notevole battuta: “La morte al lavoro. È così che la maggior parte delle fotografie dovrebbe essere chiamata. La vita immortalata”.
È anche grazie a questi rimandi intertestuali, mai esibiti, e a questi squarci visivi, svincolati dal dominio mortifero dell’immagine-cliché, che Posti a sedere si offre come un’epica dello svuotamento del soggetto (della poesia, ma anche della fotografia o del cinema) che non si limita a constatare tautologicamente sé stessa ma riparte, costantemente, alla ricerca di una nuova visione, delle parole come delle cose.
 
(Lorenzo Mari)

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