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Pregiudizi e miti sulla musica medievale, fra oblii e riscoperte


di Cecilia Panti





In the context of postwar culture, the Middle Ages could no longer be said to exist as they had for the Enlighteners and the Romantics. [...] In suggesting that after World War II the Middle Ages, as a set of subjective attitudes toward the past, had lost the greater part of their raison d’être, one is only adding a conclusion to what was considered logical thinking for three centuries. The Renaissance invented the Middle Ages in order to define itself; the Enligthement perpetuated them in order to admire itself; and the Romantics revived them in order to escape from themselves. In their widest ramifications “The Middle Ages” thus constitute one of the most prevalent cultural myths of the modern world1 .

Questo studio si propone di gettare uno sguardo retrospettivo sul giudizio negativo e l’oscuramento culturale subiti dalla musica medievale nei secoli passati, fino al suo graduale recupero e riscoperta dall’età tardo-romantica agli esordi del Novecento. I contesti d’indagine saranno i tre più significativi ambiti storici di critica: umanista, illuminista e positivista. L’intento è di offrire una panoramica che inquadri l’oblio e la ‘riscoperta’ di questo patrimonio artistico, puntando a delineare come alcuni radicati pregiudizi abbiano tanto oscurato quanto contribuito a far rinascere l’interesse per il mondo sonoro dell’Età di Mezzo.

Solo agli inizi del Novecento cominciò a maturare l’idea che la musica medievale costituisse un contesto di repertori specifici nell’ambito più generale di musiche del passato comunemente etichettate come ‘musica antica’, o early music, un’espressione che indica ancora oggi la musica occidentale fino all’età barocca, cioè un arco di secoli non ben definito e una produzione molto vasta ed eterogenea, riferita all’insieme delle musiche di cui si era interrotta da secoli la tradizione esecutiva. Ciò che distingue la ‘musica antica’ dall’ambito della ‘musica classica’ è il fatto che la sua esecuzione debba ricorrere all’impiego di strumenti musicali ‘d’epoca’ e ad una ricerca musicologica che attinge direttamente alle fonti originali, interpretandone il sistema di notazione. Il recupero di questi repertori dimenticati, la sperimentazione di specifiche prassi esecutive elaborate da diverse generazioni di musicisti di aree geografiche e culturali differenti, lo sviluppo accademico delle discipline musicologiche e storico-musicali, l’evoluzione dei gusti del pubblico, l’industria discografica e molto altro ancora hanno fatto sì che i repertori, monodici e polifonici, dell’età medievale siano oggi divenuti oggetto d’insegnamento nelle sedi accademiche, di processi specifici di formazione musicale nei conservatori e di distinti approcci interpretativi che presentano elementi peculiari e riconoscibili2 .


1. L’oblio della musica medievale e il mito della musica ‘barbara’

Se la riscoperta della musica medievale si delineò come recupero di specifici repertori del passato e di consuetudini performative atte a farli rivivere appropriatamente, è pur vero che i compositori medievali non maturarono affatto l’idea di ‘tradizione interpretativa’ o di ‘repertorio’ riferito alle loro stesse musiche, né collocarono la loro produzione nella prospettiva di uno sviluppo storico e artistico che potesse riferirsi al loro ‘passato’. Anche se generi e forme musicali diversi si svilupparono e si consolidarono in archi di tempo e contesti geografico-culturali ben definibili, alla loro fruizione non si accompagnava una riflessione storico-critica su ‘come’ o ‘da cosa’ fossero provenuti. Al declinare d’interesse verso un genere musicale seguiva il ‘naturale’ oblio, ed il sorgere di nuovi generi e forme di più recente sviluppo. Stando alle testimonianze d’età medievale è quindi difficile ricostruire un interesse concreto per le specificità di prodotti musicali del ‘passato’ rispetto al ‘presente’, o dell’‘antico’ rispetto al ‘nuovo’. Un esempio significativo è la nota querelle fra i sostenitori dell’ars antiqua e dell’ars nova, sorta all’avvio del secolo XIV nell’ambiente intellettuale francese, e che coinvolse maestri dell’università parigina e letterati della curia avignonese: la diatriba, che pure opponeva antichi e moderni compositori ed esecutori di polifonia, ebbe come obiettivo quello di legittimare una maniera specifica di concepire e rappresentare graficamente il discanto nella sua dimensione ritmica. Il senso del contendere fu perciò determinato anzitutto dalla scrittura della musica, argomento di specifica competenza dei teorici. Come afferma il sostenitore dell’ars antiqua, Giacomo di Liegi:

Io appartengo al numero degli antichi che alcuni di costoro chiamano rozzi […] Ci sono anche ai nostri tempi molti buoni e valenti musici, cantori e discantori che sanno discantare non solo per uso ma per arte [...] ma usano un nuovo modo di cantare e abbandonano l’antico, fanno un uso eccessivo delle misure imperfette, si dilettano di note semibrevi che chiamano minime e respingono le composizioni antiche: organa, conducti, motteti hoqueti a due e tre voci [...] compongono discanti sottili e difficili da cantare e da misurare; e costoro come si distinguono dagli antichi Franco, Aristotele nel modo di cantare così se ne distinguono nel modo di notare le proprie composizioni misurate3 .

Fu in età umanistica che venne a porsi in modo più consapevole il problema del progresso della musica e che i prodotti di quest’arte iniziarono ad essere concepiti in prospettiva storica. Di conseguenza, il topos tradizionale del sorgere dell’arte musicale nell’antichità biblica, nei miti dell’antica Grecia e nelle opere di teoria musicale greche e latine, che era elemento costantemente ripetuto nella trattatistica musicale medievale, cominciò ad essere letto in chiave di una distinzione di ‘tecniche’ compositive passate e presenti, e nei termini di diversità di repertorio musicale. È stato sottolineato che l’approccio storico nell’ambito delle produzioni musicali si sviluppò, nel Quattrocento, rispondendo ad una duplice esigenza: da una parte, per ribadire il riconoscimento che la creazione artistica si inquadrava in una rete di riferimenti storicogeografici definiti e conosciuti; dall’altra, per evidenziare la distinzione fra discorso normativo e discorso storico, fra ‘metodo’ della scienza acustica e studio delle opere realizzate nel passato, secondo i principi dell’analisi testuale definita dagli stessi umanisti4 . In tale quadro concettuale, i letterati e musici del Quattrocento individuavano i più alti musicisti proprio nei loro contemporanei, i grandi polifonisti fiamminghi.

Un riflesso di questa presa di coscienza lo troviamo, ad esempio, nel quarto libro del celebre Champion des dames (1441) del poeta Martin Le Franc:

Dagli antichi noi abbiamo ricevuto l’arte, l’esperienza, le dimostrazioni e troviamo quindi le cose più facilmente. Così non c’è da meravigliarsi se sappiamo più cose e più rapidamente di quante ne sapessero loro [...] Al tempo del malvagio Caino, quando Jubal inventò la pratica ascoltando Tubalcain accordare i suoni della musica, l’arte non era così autorevole come è al tempo attuale [...] Non è molto tempo che Tapissier, Carmen, Cesaris cantavano così bene che meravigliavano tutta Parigi [...] eppure [...] mai fecero polifonie con canti di tale qualità come G. Dufay e Binchois. Poiché questi ultimi hanno una diversa pratica e fanno nuove concordanze nell’alta e nella bassa musica, nella musica ficta, nelle pause, nelle mutazioni e hanno preso della maniera inglese e seguito Dunstable, per cui una meravigliosa piacevolezza rende il loro canto gioioso e pieno d’attenzione5 .

In modo concorde si esprime anche uno dei maggiori teorici e musicisti della fine del secolo, il fiammingo Giovanni Tinctoris, nella prefazione del suo Proportionale musices (1474 circa) dedicato al re Ferdinando d’Aragona:

Benché, o sapientissimo re, dal tempo del primo musicista Jubal [...] moltissimi celebri personaggi come Daniele, Tolomeo, Epaminonda, [...] Zoroaste, Pitagora, Lino di Tebe, Zeto, Amfione, Orfeo, Museo, Socrate, Platone, Aristotele, Aristosseno, Timoteo si siano occupati così intensamente dell’arte musicale ancora ingenua [...] tuttavia su come abbiano eseguito o composto a noi resta pochissimo per iscritto [...] E quando venne la pienezza dei tempi in cui il sommo musico Gesù Cristo, nostra pace, applicando la proportio dupla, fece una sola cosa delle due nature umana e divina, mirabili musicisti fiorirono nella sua Chiesa, come Gregorio, Ambrogio, Agostino, Ilario, Boezio, Marziano, Guido, Giovanni de Muris; tra costoro alcuni stabilirono nella stessa salutifera Chiesa l’uso del canto, altri composero a questo scopo numerosi cantici e inni, altri trasmisero ai posteri la teorica, altri la pratica di quest’arte (i codici sono ormai nelle mani di tutti). Finalmente i principi della cristianità, tra i quali [...] tu sei di gran lunga il primo, [...] istituirono le cappelle musicali [...] e poiché i cantori dei principi [...] godono di onori, gloria e ricchezze, molti si dedicano oggi con grande fervore agli studi musicali. Per cui avviene che in quest’epoca la facoltà della nostra musica ha ricevuto così mirabile incremento da sembrare un’arte nuova; e di questa [...] la fonte e l’origine si dice sia stata presso gli Inglesi, il cui principale rappresentante fu Dunstable. Contemporanei di costui furono in Francia Dufay e Binchois, ai quali succedettero immediatamente i compositori attuali Ockeghem, Busnois, Regis e Caron, i più eccellenti nel comporre tra quanti ho ascoltato6 .

Tinctoris, che fu cantor nella cappella di Ferdinando, individua il progresso dell’arte della musica nell’istituzione delle cappelle musicali che, creando ipso facto la figura del cantore di professione, determinarono una categoria di ‘lavoratori’ professionisti sia del canto che della composizione7 . È interessante che tanto Le Franc quanto Tinctoris indichino nell’inglese John Dunstable (+1453) il primo professionista della musica, colui che offrì il nuovo corso all’arte, trasformando la concezione stessa del comporre. Tale predilezione ha una ragione specifica: fu infatti la produzione mottettistica del celebre musicista, poeta e astronomo, a sviluppare presso i musicisti fiamminghi, trapiantatisi nelle cappelle italiane, la predilezione verso un’armonia basata sugli intervalli di terza e sesta, piuttosto che di quinta e quarta, invalsa fino ad allora. Il nuovo modo di comporre, che dona piacevolezza e dolcezza al canto polifonico, segna quindi il distacco storico dal passato e, insieme, il quadro normativo dell’arte musicale.

Se nel ’400 il ‘passato’ musicale, pur riconoscendo i nomi venerabili dei padri fondatori della disciplina dei suoni, fu considerato l’età ingenua di un comporre di cui non restava pressoché alcuna traccia scritta, come afferma Le Franc, il ’500 è permeato invece di ideologia classicistica e di dichiarazioni d’intenti circa il restauro di poetiche e pratiche di canto provenienti appunto dal ‘passato’. Ma, adesso, l’antichità non è più un concetto che ingloba tutta la musica che non c’è più: il passato da venerare e far rivivere è solo quello remoto, l’epoca classica greca e romana, dal quale il passato prossimo viene risolutamente escluso. Il Medioevo esce dall’orizzonte del patrimonio culturale rinascimentale e diviene l’età barbara anche per la musica, la cui fondamentale colpa fu l’aver dimenticato l’originario legame con la poesia, cifra stilistica dell’estetica e della poetica dei ‘classici’.

Prima, però, che il recupero della musica greca antica venisse idealizzato nel primato della monodia sulla polifonia, gli intellettuali del Rinascimento non mancarono di riconoscere, come gli Umanisti che li precedettero, la superiorità della polifonia dei fiamminghi. I rappresentanti quattrocenteschi di questa scuola continuavano ad essere considerati gli unici padri e grandi predecessori, come ribadisce ancora il fiorentino Cosimo Bartoli, nei suoi Ragionamenti accademici (1567), nei quali offre uno spaccato dell’attività musicale nell’Italia del ’500. Nel terzo Ragionamento, intitolato Antinoro, è presentato un dialogo fra Lorenzo Antinori, Pietro Ricasoli e Pierfrancesco Giambullati, nel quale Lorenzo propone un parallelo fra l’arte della musica e le arti figurative. Il precursore, stavolta individuato in Iohannes Ockeghem (1410 circa-1497), è il Donatello dell’arte polifonica, di cui l’allievo, il grande Josquin Des Prez (1440 circa-1521), è l’insuperato Michelangelo:

Deh, ditemi per vostra fede chi sono stati quegli, che voi avete conosciuti per tanto eccellenti quanto voi mi dite, e potete lasciar da parte quelli che sono stati avanti a tempi nostri, per che sarebbe un numero infinito, che io so bene che Ocghem fu quasi il primo che in questi tempi ritrovasse la Musica quasi che spenta del tutto: non altrimenti che Donatello ne suoi ritrovò la scultura; e che Josquino discepolo di Ocghem si può ben dire che quello alla musica fusse un monstro della natura, sì come è stato nella Architettura Pittura e Scultura il nostro Michielagnolo Buonarroti; perché siccome Josquino non ha però ancora avuto alcuno che lo arrivi nelle composizioni, così Michielagnolo ancora [...] è solo e senza compagno [...]. Né crediate che io non sappia che doppo Josquino ci sono stati molti valenti uomini in questo esercizio, come fu un Giovan Monton, Brumel, Isac, Andrea de Silva, Giovanni Agricola, Marchetto Da Mantova e molti altri, che seguendo dietro alle pedate di Josquino, hanno insegnato al mondo come si ha a comporre di Musica8 .

Il colpo di coda che eclissò la musica medievale, trascinando nell’oblio anche la polifonia dei fiamminghi, fu il vivace dibattito accademico della Camerata che negli ultimi decenni del ’500 si radunò a Firenze presso l’abitazione del conte Giovanni Bardi. L’ispirazione ideologica del grecista Girolamo Mei spinse infatti gli intellettuali e i musicisti del cenacolo, fra cui Iacopo Peri, Piero Strozzi e il capofila Vincenzo Galilei, a trasformare il ripetuto richiamo umanistico alla classicità in un recupero (ideale, benché percepito come reale) dell’antica tradizione monodica del canto accompagnato. In tal modo, il tornare agli antichi mirava a stabilire il primato della musica ‘antica’ (in realtà di nuova concezione) sulla ‘moderna’ polifonia. La prima era infatti l’unica tipologia di canto capace di esaltare il predominio della parola che esprime l’affetto, assecondando così il canone poetico e il dettato filosofico del cenacolo. In tal modo, come evidenzia il manifesto intellettuale della Camerata, il Dialogo della musica antica e della moderna (1581) di Vincenzo Galilei, la storia della musica è inquadrata nel processo dialettico di sviluppo, oblio e riscoperta:

La musica è stata da gli Antichi annoverata, fra le arti che son dette liberali [...] et meritatamente appresso i Greci, Maestri et inventori di essa [...] fu sempre in molta estima [...] Ma insieme con l’Imperio [...] perderono i Greci la Musica [...] I Romani hebbero di essa cognitione, prendendola da’ Greci [...] et occupandosi continuamente delle guerre, non molto à quella ancora attesero, et così facilmente la dimenticarono. Havendo poi la Italia [...] patite grandi inondationi di Barbari, s’era spento ogni lume di scienza [...] gli huomini vivevano senz’alcuno desiderio di sapere; et della Musica si havevano quella istessa contezza che dell’Indie Occidentali: et in tale cecità perseverarono, fin’a che il Gafurio prima et appresso il Glareano et poscia il Zarlino [...] cominciarono ad investigare quello che essa fusse [...] né che habbiano conseguito di essa la vera et perfetta notitia: il che può forse havere cagionato la rozzezza de’ tempi, la difficultà del soggetto, et la scarsità de’ buoni interpreti: nulla di meno questi scrittori meritano summa lode [...] per haver dato occasione à molti di maggiormente affaticarsi in essa, per vedere di ridurla nella sua perfettione, il che (quanto però attiene alla Teorica) pare che à tempi nostri habbia conseguito Girolamo Mei [...] et appresso nella nostra Città lo Illustrissimo Signor Giovanni Bardi9 .

Alla certezza della riscoperta della competenza teorica antica (iniziata con l’opera dei teorici moderni Franchino Gaffurio, Enrico Glareno e Gioseffo Zarlino) segue quindi la consapevolezza che l’arte musicale può essere recuperata nel suo originario prestigio, saltando il buio vuoto dell’età barbara, del Medioevo, appunto. Ma, al di là degli intenti e dei proclami, quando nel 1605 Claudio Monteverdi affermava che «il moderno Compositore fabbrica sopra li fondamenti della verità», è ormai chiaro che tale ‘verità’ musicale, come ribadisce Strohm, non era certo «un estremo barlume dell’antica ‘essenza’ della musica, ma l’obiettivo strategico di un nuovo programma d’arte»10 . Con il Seicento, infatti, prende avvio il periodo che nell’ambito della musica è definito ‘tonale’, in contrapposizione alla precedente concezione ‘modale’ del comporre. Di fatto, le nuove consuetudini compositive, come la pratica del basso continuo11 , l’utilizzazione dei due soli modi maggiore e minore e l’organizzazione armonica secondo i principi base della cadenza e della modulazione resero autonoma la ricerca musicale dalla necessità di contrapporre antico e moderno. La diversità fra passato e presente fu ridotta allora a questione di stile: lo stile contrappuntistico cinquecentesco è quello ‘antico’, alla Palestrina, lo stile recitativo è quello monodico del melodramma ‘moderno’, inventato in casa Bardi, mentre lo stile concertato concerne la nascente musica strumentale, quello che potremmo definire il ‘futuro’ della musica.

La questione della distinzione antico/moderno si risolse dunque in una distinzione di gusti, di estetica e di poetica funzionale alle circostanze per le quali la musica era prodotta e fruita. Naturalmente, il Medioevo come tale è ormai scomparso dall’orizzonte, giacché l’‘antico’ si identifica, da adesso in poi, proprio con lo stile contrappuntistico cinquecentesco che il Galilei chiamava ‘moderno’: nella fattispecie, lo stylus antiquus era quello della musica sacra cattolica, la più vincolata ad un rispetto (almeno formale) della tradizione ‘a cappella’ o ‘alla Palestrina’. Lo stile dei ‘classici’ della musica divenne perciò la polifonia sacra dei romani del Cinquecento, come ad esempio sottolinea Marco Scacchi, maestro di cappella dei re di Polonia, nel suo trattato Cribrum musicum ad triticum syferticum12 . Ugualmente, Angelo Berardi nei suoi Ragionamenti musicali (1681) distinse uno stylus ecclesiasticus, specifico di Josquin Des Prez, Palestrina e Willaert, da uno stylus cubicularis, che si differenziava a sua volta in ulteriori sottostili a cappella, come quello praticato dai madrigalisti Marenzio, Monteverdi, Carissimi ecc, quello con basso continuo o con strumenti solisti e altri ancora; e, infine, individuava uno stylus theatralis, ovvero il canto accompagnato, alla maniera di Peri, Monteverdi e Caccini13 .


2. Il ritorno alle fonti teoriche

Nel corso del Settecento il bisogno culturale di riallacciarsi all’antico divenne una questione di vasta portata sociale e politica, che si materializzò in una lunghissima diatriba letteraria, la nota querelle des ancients et des modernes. La consapevolezza del senso storico si raffinava, ponendo le cesure e, insieme, gli elementi di filiazione con il passato. Dal punto di vista strettamente musicale, possiamo fissare una data significativa nella presa d’atto di queste problematiche nel 1726, quando fu costituita a Londra la Academy of Ancient Music, il cui scopo era quello di coltivare lo studio del repertorio polifonico del secolo XVI. Dunque, come nel secolo precedente, anche nell’età dei Lumi vale il principio che la musica antica si identifica nella polifonia sacra rinascimentale. Ovviamente, nel concetto di ‘antico’ approda ora anche la musica del Seicento: la stessa Accademia mantenne infatti in repertorio le opere dei maggiori compositori barocchi, come Händel, Corelli e Pergolesi.

L’interpretazione in termini di stile compositivo della distinzione fra musica ‘antica’ e ‘moderna’, già ampiamente articolata nel secolo precedente, è adesso arricchita dalle dispute letterarie sugli ‘antichi’ e ‘moderni’ sorte in Francia e sviluppatesi in tutta Europa, sfociando in un vasto dibattito culturale, musicale e filosofico. Il melodramma, emblema della musica ‘moderna’, resta al centro della discussione, che si concentra adesso sul piano dei fondamenti del linguaggio musicale. Da una parte, si individua nella melodia, frutto di libera invenzione e di fantasia, l’origine stessa della musica e la ragione del suo differenziarsi da popolo a popolo, tesi che (con molti distinguo su cui non è il caso di addentrarci) funge da sostegno alle idee musicali degli Illuministi; dall’altra, si invoca il fondamento dell’universalità del linguaggio musicale nell’armonia, stabilita sul principio naturale degli armonici, traducibile in termini matematici, quindi assoluti e scientifici14 . Il contesto storico che emerge dalle riflessioni musicali non è, perciò, riferito ad uno sviluppo della musica in senso cronologico, ma, potremmo dire, ‘sociologico’: la tesi rousseauiana dell’«inflessione musicale e insieme poetica dell’espressione primitiva rispetto a quella convenzionale e razionale delle civiltà più evolute»15 oppone il ‘primordiale’ – definito dal sentimento e dalla naturale espressività musicale del linguaggio verbale – alla ‘classicità’ dell’armonia di Rameau, fondata sull’equilibrio, la razionalità matematica e l’‘universalità’ del linguaggio musicale articolato sulla scala naturale dei suoni. Questa e altre querelle musicali ebbero il merito di allargare il dibattito sulla musica, rivendicando all’arte dei suoni una natura espressiva fondata su un linguaggio specifico, di cui si volevano comprendere e ricostruire le origini. Non è quindi per caso che proprio in questo secolo sorse anche la storiografia musicale. Quest’ultima si concretizzò nelle vaste opere storiche di collezionisti, bibliofili ed eruditi come Padre Martini, la cui Storia della musica fu elaborata fra il 1757 e il 1781, John Hawkins, che pubblicò nel 1776 la sua A General History of the Science and Practice of Music in competizione con l’uscita del primo volume della History di Charles Burney, e ancora Jean-Benjamin de Laborde, col suo Essai sur la musique ancienne et moderne (1780), e Nikolaus Forkel, il quale pubblica fra il 1788 e il 1801 la Allgemeine Geschichte der Musik. In tutte queste ricostruzioni, l’attenzione verso il passato medievale è essenzialmente definito dalla dimensione teorica della musica, il cui recupero filologico si appoggiava anzitutto all’imponente opera intrapresa da Padre Martin Gerbert, pervenendo alla fondamentale raccolta Scriptores ecclesiastici de musica sacra potissimum (1784). L’oggetto dell’interesse del prelato tedesco era, infatti, proprio la musica sacra del Medioevo, che egli cercò di recuperare e rendere nota delineando una storia medievale della liturgia e della teoria della musica. La sua riscoperta passò attraverso il fenomeno del revival della musi ca di Palestrina, che proprio allora stava iniziando: al grande romano si cominciò infatti a riconoscere di essere l’approdo più alto di una tradizione musicale che aveva le sue radici nella musica vocale del Medioevo, di cui, avendo perduto la capacità di interpretazione delle scritture neumatiche, si tornava ad apprezzare l’opera dei grandi teorici e pedagoghi, come, appunto, Guido d’Arezzo, che aveva ‘normalizzato’ la scrittura della musica.

Possiamo quindi concludere che nel Settecento «le origini della musica e la storia della musica [...] delimitano rispettivamente il territorio dei filosofi e quello degli eruditi»16 : né i primi né i secondi, tuttavia, sembrano dimostrare concreto interesse per il recupero esecutivo della musica medievale. In effetti, possiamo individuare alcune voci in controtendenza, pur parziali e limitate, che cercavano di unire alla riscoperta della musica ‘antica’ anche una pionieristica attenzione alle questioni dell’interpretatazione della musica stessa. Cominciano infatti ad emergere timide ‘ricostruzioni’ di repertori, frutto per lo più di trascrizioni compiute da bibliofili e collezionisti, come accade nel quarto libro dell’Essai di Laborde, che dedica tre capitoli alla musica dei trovieri, di cui l’aristocratico letterato compila un censimento, proponendo anche alcune trascrizioni di chansons di Chatelain de Coucy17 . Ma l’esperienza più interessante da ricordare nell’ambito di questa ‘proto-archeologia’ musicale, soprattutto per lo spirito con cui fu promossa, fu il ‘viaggio musicale’ di Charles Burney compiuto in Italia e Francia dal giugno al dicembre del 1770 e raccontato come un diario nel volume The Present State of Music in France and Italy (1771), le cui osservazioni, insieme a quelle del successivo viaggio in Europa centrale (The Present State of Music in Germany, the Netherlands and United Provinces, pubblicato nel 1773) confluirono nella successiva General History of Music from the Earliest Ages to the Present Period (edita negli anni 1776-1789).

Il viaggio di Burney fu realizzato allo scopo di osservare e raccontare ciò che non era mai stato descritto prima di allora, ovvero il patrimonio musicale occidentale, partendo dall’Italia, culla e centro della cultura europea18 . Nella sua esplorazione musicale Burney individua nella melica classica greca il retroterra ‘remoto’ della vocalità italiana, che, per lui, esprimeva al massimo grado l’essenza della musica. Benché il suo interesse primario fosse la musica dei suoi tempi, Burney si pose l’interrogativo del maggior valore della musicalità latina partendo da due tradizioni del Medioevo: il canto gregoriano e la musica dei trovatori. Il gregoriano costituiva infatti l’unico repertorio medievale di cui allora si poteva idealmente rintracciare una ‘tradizione’ esecutiva, che Burney incontrò nella sua prima tappa musicale, a Lille, sollecitandolo ad alcune riflessioni sul modo in cui il canto della comunità cattolica era reso nelle parrocchie e nelle chiese di Francia19 . Quanto invece alle liriche provenzali, egli si aspettava di trovare nella Biblioteca Vaticana i manoscritti con le antiche notazioni, ma rimase in certo modo frustrato, sia perché riuscì a individuare soprattutto musica dei trovieri, in francese antico, sia perché la notazione stessa indicava solo points and accents20 . La ricognizione di Burney nel passato musicale medievale si arresta quindi a queste minime osservazioni: poche altre riguardano la storia della teoria, che egli cominciò a esplorare, come gli storici suoi contemporanei, consultando i codici delle maggiori biblioteche italiane, quali l’Ambrosiana, la Vaticana, la ricchissima biblioteca bolognese di Padre Martini, che proprio nello stesso periodo, come già ricordato, si dedicava alla stesura della sua storia della musica. Questi aspetti teorici della musica, però, non interessavano Burney in modo specifico, giacché ciò che egli si proponeva di trarre dal suo viaggio lo dichiara esplicitamente in apertura: «di udire con le mie orecchie, e di vedere con i miei occhi: e, se possibile, di non udire e vedere che musica»21 . Gli appunti più significativi che Burney lascia nelle sue memorie sono quindi quelli relativi all’esecuzione della musica, valutata attraverso l’ascolto e il dialogo con chi praticava e studiava quest’arte ai suoi tempi. Questo è l’aspetto che rese i viaggi e la seguente History del medico e musicista inglese qualcosa di peculiare rispetto alle altre ‘storie’ contemporanee della musica.


3. La musica religiosa, il canto gregoriano e il mito della purezza

Se il tardo ’700 restituì alla cultura europea la dimensione teorica della musica medievale, è solo nell’800 che il mondo sonoro dell’Età di mezzo cominciò concretamente a riemergere nella prassi esecutiva. Il secolo del Romanticismo, con l’affermarsi del senso della storia e dei grandi ritorni dello spirito alle lontananze del passato, nel campo della musica inaugurò, fra le molte altre cose, anche la riproposizione di tradizioni esecutive perdute ad un pubblico più vasto delle selezionate accademie settecentesche. Il primo luogo di diffusione di queste novità furono le chiese, sia cattoliche che luterane, e il contesto culturale che fece da background alla ripresa esecutiva fu, in entrambi i contesti, il movimento di restaurazione della musica sacra, che era stata relegata ad un rango subordinato con l’affermarsi romantico della musica assoluta strumentale e con la supremazia dell’opera. Sullo sfondo, ma ben presente soprattutto in Francia, vi fu anche la reazione culturale e intellettuale contro il laicismo rivoluzionario, e poi napoleonico, che aveva voluto cancellare le istituzioni religiose insieme alle consuetudini devozionali. Il fermento religioso europeo fu di ampissima portata, radicato nella visione spirituale romantica di opere letterarie come il Génie du Christianisme di Chateaubriand e rafforzato dall’affermarsi del neotomismo in ambito filosofico. Da questi vasti movimenti culturali scaturì, quindi, anche il bisogno di una riforma complessiva della musica sacra, che condusse a riproposizioni dell’ ‘antico’ stile contrappuntistico della musica vocale a cappella, ma anche alla ricerca di novità22 .

In terra tedesca l’interesse verso l’‘antico’ si era orientato, già dalla fine del secolo XVIII, soprattutto alla ripresa della musica sacra rinascimentale. Il saggio Cäcilia (1793) di Johann Gottfried Herder può essere preso come punto di riferimento per sottolineare i motivi di tali sollecitazioni: l’elevazione spirituale della musica sacra era determinata dalla purezza, dalla solennità, dalla semplicità dello stile ‘alla Palestrina’. Il perfezionamento della musica corale doveva quindi passare dal recupero dei suoi mottetti e di quelli dei grandi polifonisti del ’500, che cominciarono ad essere cantati nelle chiese luterane. Justus Thibaut ed Heinrich Bellermann furono i due nomi più noti che determinarono il successo di questo revival, che ebbe in Berlino il suo centro propulsore. In tal senso, la famosa prima esecuzione moderna della Passione secondo Matteo di Bach, nel 1829, sotto la direzione di Felix Mendelssohn, fu un evento di recupero del ‘passato’ musicale che aveva messo radici in un retroterra culturale già ben consolidato. Questa e altre esperienze ebbero un impatto considerevole, aprendo le chiese e le sale da concerto alla diffusione di un repertorio sacro eterogeneo e sempre più ampio. Fu proprio in questo contesto che un allievo di Bellermann, Gustav Jacobsthal, cominciò ad occuparsi con maggiore sistematicità dei precursori di Palestrina, studiando la notazione del secolo XIII ed accostandosi alle fonti manoscritte della polifonia sacra medievale. Con Jacobsthal e soprattutto col suo più famoso allievo, Friedrich Ludwig (1872-1930), sul quale mi soffermo oltre, si può effettivamente parlare di un vero e proprio recupero specifico della polifonia medievale e di una sua ripresa esecutiva, benché limitata.<!-

Come i luterani tedeschi riuscirono a trovare in Palestrina la sorgente della loro cultura musicale religiosa, così anche il mondo cattolico del secolo XIX non si lasciò sfuggire l’importanza del ritorno alle antiche melodie della Chiesa per rinnovare spiritualmente il culto e indirizzarlo ad una prassi unitaria. Fra le molte iniziative che si possono segnalare, ricordiamo che nel 1825 fu fondata a Parigi, ad opera di Alexander Choron, l’Institution Royale de Musique Classique et Religieuse, destinata a formare cantori ed organisti che la Rivoluzione aveva reso assai scarsi: la promozione didattica passava attraverso pubblici concerti che riproponevano, anche qui, la polifonia di Palestrina. L’esperienza di questa scuola, chiusa nel 1830 da Luigi Filippo, fu ripresa una decina d’anni dopo da Joseph-Napoleon Ney, che spinse il recupero degli antichi repertori fino alla polifonia dei maestri del Quattrocento, come Ockeghem23 . Sul finire del secolo, la Schola Cantorum fondata, tra gli altri, da Vincent d’Indy, propose un modello didattico basato rigidamente sul canto fermo e la polifonia cinquecentesca, divenendo aperta concorrente del Conservatorio di Parigi, frequentata dai compositori più creativi del tempo: Isaac Albéniz, Erik Satie, Edgar Varèse, Claude Debussy24 . Ma il fenomeno senz’altro più interessante che dalla metà dell’800 esplose nella Francia post-illuminista fu il ritorno al canto gregoriano antico, inteso sia come strumento di restaurazione del senso religioso sia come forma di reazione all’anticlericalismo. In ciò, la benedettina abbazia di Saint-Pierre di Solesmes fu l’indiscussa protagonista.

Nel 1833 l’abbazia, in grave stato di abbandono, venne acquistata dal sacerdote Prosper Guéranger (1805-1875), il quale, aiutato da alcuni confratelli, ripristinò la comunità benedettina di cui divenne abate. Solesmes si trasformò in pochi anni in un centro attivissimo del movimento di restaurazione liturgica e del ritorno al canto gregoriano originario, che, pur essendo rimasto nei secoli il canto ufficiale della chiesa cattolica, si era totalmente allontanato dalla tradizione interpretativa primitiva. Già nel contesto della Controriforma si era infatti cercato di recuperarne la purezza e di sfrondarlo di tutte le aggiunte e rielaborazioni che fin dall’età medievale lo avevano incrostato, pervenendo alla cosiddetta edizione ‘medicea’ (1614), che fu erroneamente – ma non per caso – attribuita a Palestrina, pur essendo ben lontana dal repertorio delle origini. Inoltre, fu proprio dal secolo XVI ad imporsi la pratica di eseguirlo in scansione ritmica, aggiungendo abbellimenti o addirittura l’accompagnamento strumentale. Ciò che volevano fare i monaci di Solesmes era quindi ristabilirne l’antica dimensione di canto monodico non misurato, facendo rivivere il gregoriano partendo dai codici più antichi che ne trasmettevano i neumi, la cui interpretazione era l’unica strada attraverso la quale la sonorità originaria potesse essere recuperata. L’opera di restaurazione fu iniziata da Dom Prosper Guéranger e successivamente, sulla base di rigorose analisi filologiche, il confratello Dom Mocquerau mise a punto il laboratorio di paléographie musicale per la decifrazione delle notazioni pre-guidoniane, i cui risultati confluirono via via nella monumentale rivista omonima. La restaurazione portò alla pubblicazione del Liber Usualis del 1903 e del Graduale romanum del 1908, approdando infine al Graduale Triplex del 1979.

Enormi e fondamentali iniziative accompagnarono il recupero del canto ufficiale della Chiesa dalla metà dell’800 e per tutto il secolo scorso, arrivando ad un importante momento di verifica in Italia, con il Congresso gregoriano svoltosi ad Arezzo nel 1882. Nel nostro paese, in realtà, il movimento di adesione alla riforma della musica sacra avvenne solo attorno agli anni ’80, dunque un po’ in ritardo rispetto alla Francia e alla Germania. Le sue caratteristiche furono però sostanzialmente analoghe, puntando ancora alla riscoperta sia del canto gregoriano sia della polifonia sacra rinascimentale. In particolare queste iniziative furono espresse dal movimento ceciliano, sorto in area germanica (il maggiore promotore fu Franz Xavier Witt), che accompagnava alla riforma della liturgia il culto del Medioevo come età di fede, di razionalità cristiana e di vera pietà religiosa: il canto gregoriano ne era l’espressione musicale più alta mentre il pensiero di Tommaso d’Aquino ne costituiva la philosophia perennis25 .

L’avallo ufficiale della chiesa al progetto del recupero del gregoriano fu l’enciclica Motu proprio (1903) di papa Pio X, che, animato e ispirato dagli ideali ceciliani, ratificò l’impresa dei monaci benedettini di Solesmes favorendone l’iniziativa editoriale e l’impiego liturgico:

La musica sacra deve [...] possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità [...]. Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici [...] che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza26 .

Il fervore culturale e religioso che accompagnò il nuovo approccio a questo repertorio fu significativo ed entusiastico, soprattutto perché l’apprezzamento del gregoriano non si fondava sui trattati teorici, ma sull’esame diretto e l’esecuzione delle melodie restaurate. L’‘oggetto’ musicale restituito dal passato era, infine, una ‘partitura’, la cui corretta interpretazione vocale determinava la valutazione estetica della stessa. Nella prefazione ad un famoso volume del 1937, l’Estetica gregoriana di Padre Paolo Ferretti, leggiamo:

L’Estetica o la Teoria delle forme musicali proprie del canto gregoriano è del tutto moderna [...] Non era infatti possibile formare una scienza qualsiasi gregoriana finché si avevano fra le mani le famose edizioni accorciate nelle quali le tradizionali melodie della Chiesa erano orribilmente sfigurate e irriconoscibili [...] ben poca luce si poteva avere dai teorici e dai manuali della musica ellenica [...] Quanto ai teorici gregoriani del Medioevo dobbiamo confessare che essi [...] trascurarono del tutto la parte relativa alle forme musicali [...]. Tutta l’Estetica musicale gregoriana è quindi frutto esclusivo dell’esame intrinseco e diretto fatto sulle melodie stesse tradizionali; e perciò, come si è detto, essa è una scienza del tutto moderna27 .

La teoria estetica di Ferretti poneva quindi i criteri di giudizio sulla bellezza del canto della Chiesa nell’interpretazione e nell’ascolto diretto delle melodie, recuperate secondo le indicazioni dei neumi ‘originari’ nelle quali furono scritte. L’interpretazione, per Ferretti, veniva ad essere supportata da due contesti interagenti: da una parte, dalla competenza relativa alle diverse forme musicali, che, sotto l’influenza della Formenlehre ottocentesca, vengono raggruppate in melodiche, modali e ritmiche; dall’altra, dall’atteggiamento spirituale e devoto che deve accompagnare l’esperienza di canto e di ascolto del canto, che è esperienza di preghiera. Quanto al primo contesto, la bellezza del gregoriano sta nella purezza della melodia contro l’artificiosità dell’armonia, nell’universalità dei modi diatonici contro i particolarismi delle scale cromatiche, nell’unità del tempo ritmico contro alla passionalità dei «ritmi celeri della musica moderna»: tutti questi elementi, continua Ferretti, sono «fonte di quella religiosa compostezza che è indispensabile a un canto che deve accompagnare la preghiera liturgica»28 . Il recupero del gregoriano antico non era quindi una mera operazione paleografica, né aveva interessi finalizzati esclusivamente alla storia della musica, ma perseguiva un obiettivo anzitutto spirituale: apprezzare il gregoriano significa ritrovare nelle melopee della liturgia ‘originaria’ il genio e la fonte pura e prima dell’arte musicale e, insieme, della spiritualità cristiana. Infatti, una «melodia geniale è sempre fresca, giovane ed eterna», e per questo «il canto gregoriano è piaciuto, piace e piacerà sempre a tutti», perché è un monumento «dell’antica arte musicale d’occidente», che «preparò e quasi creò la classica polifonia, che è impossibile comprendere senza una perfetta conoscenza del medesimo, e perciò, la melodia gregoriana, casta e verginale, appartiene a un genere di musica che raccoglie invece che distrarre l’anima, e che insinuandosi dolcemente nel cuore dei fedeli, vi suscita pii e santi sentimenti, lo solleva al Cielo per unirlo con Dio»29 .

L’estetica del canto gregoriano sviluppata a Solesmes e poi diffusa nella pratica liturgica della chiesa cattolica è quindi esempio di convergenza fra uno spirito filologico di impronta positivista, che attraverso metodi statistici perveniva alla cosiddetta ‘melodia originale’, e un retroterra culturale di impostazione romantica, collegato all’idea di un Medioevo mitico, emblema dell’età della fede. Il risultato a livello di impatto su un pubblico più vasto del ristretto gruppo di monaci promotori dell’iniziativa fu appunto il ‘recupero’ – in realtà ‘reinvenzione’ – di una prassi esecutiva che perdura ancora oggi, essendosi impressa come tratto distintivo della ‘bellezza’, della ‘purezza’ e, insieme, della ‘spiritualità’ del gregoriano: voci tendenzialmente acute e dal timbro incolore, fraseggio legato, ritmo libero orientato dalla frase verbale e dal ‘peso’ della parola, mancanza di ornamentazione30 .

Credo sia interessante sottolineare che il ‘ritmo libero’ che i monaci di Solesmes avevano fatto riscoprire e apprezzare fu direttamente collegato alla forma musicale del recitativo, sentita come espressione di ‘libertà’ artistica, il cui valore era individuato nella qualità intrinsecamente poetica della declamazione, mentre le fioriture melismatiche, sobrie e misurate, vennero riallacciate a certe espressioni di canto orientale e popolare. Sentiamo ad esempio cosa afferma Ottorino Respighi in un volumetto scritto a quattro mani con Sebastiano Luciani dal titolo Orpheus, pubblicato nel 1925:

Quasi tutto il canto gregoriano, il cui testo è in massima parte in prosa, è basato su questo ritmo più ideale che formale. [...] Questo ritmo oratorio, fondato sulla declamazione, è quello che si incontra in certi recitativi obbligati dell’opera in musica, da Monteverdi a Debussy, in cui la parola o meglio il pensiero poetico si tramuta insensibilmente in canto. [...] Infine un ritmo non sottomesso alle leggi della danza o della prosodia è dato dai melismi, nei quali la voce sembra librarsi in alto, con una vibrazione contenuta ma più intensa che nel canto solito sillabico. È questo un procedimento comune nella musica orientale e passato da questa al gregoriano. I cantori nei Cantica, dice sant’Agostino, esultavano di letizia, e, incapaci di esprimere con parole la loro immensa gioia, cessavano di cantare il testo ed emettevano grida di giubilo. Questo procedimento è rimasto altresì in alcune musiche popolari, come quelle sarde, in cui è ancora visibile l’influenza orientale. [...] Ma nell’arte moderna ogni genere di melisma, svuotato di contenuto spirituale e diventato virtuosismo tecnico in tutta la pratica del bel canto, si riduce alle forme limitate delle note di abbellimento31 .

Tanto il ritmo libero del ‘declamato’ quanto le sezioni melismatiche e fiorite del gregoriano vengono riconosciute come qualità positive e ‘pure’, scevre del virtuosismo vocale che è invece ritrovato nella musica d’arte occidentale e contro il quale Respighi non esita ad invocare presunte tradizioni ininterrotte che collegherebbero gli esordi (più o meno mitici) del giubilo di agostiniana memoria a repertori ancora più antichi di culture orientali, e il loro riversarsi sulla musica di tradizione popolare.

Altro esempio significativo del senso di filiazione che la cultura musicale occidentale post-romantica sentiva col passato gregoriano è nel primato del melos che le esperienze atonali e dodecafoniche consentivano di riscoprire. Come afferma Josef Matthias Hauer, il quale contese a Schönberg il primato nell’ideazione e nell’applicazione del metodo dodecafonico: «la melodia atonale si muove su quel fondo musicale originario (Urboden), di cui, sopravvivendo a tanti fraintendimenti, si è conservato ai nostri giorni il canto gregoriano»32 .

La riscoperta del gregoriano fu quindi un fenomeno di vastissima portata, che abituò a sonorità nuove ma non percepite come estranee. Inoltre, il canto gregoriano esercitò un peso considerevole anche nel recupero di altri repertori monodici del Medioevo, in particolare fu determinante nella ripresa della lirica cortese, della laude e del dramma liturgico.

Quanto al movimento oratoriale e laudistico, esso aveva avuto un’importanza fondamentale in Italia anche come strumento pedagogico nel contesto della Controriforma – si pensi a Filippo Neri –, determinando tradizioni ininterrotte di canto ben radicate nella cultura popolare. L’interesse verso l’oratorio e la laude si delineò quindi proprio in Italia, agli esordi del Novecento, andando a convergere sia con il movimento religioso sia con quello di riscoperta del patrimonio nazionale. In questo quadro si spiega l’interesse verso il genere ‘rinnovato’ dell’oratorio, reso celebre al pubblico più vasto grazie all’opera dell’abate Lorenzo Perosi, uno degli esponenti più in vista del movimento ceciliano. Questo attivissimo sacerdote e musicista riscosse nei primi decenni del secolo un enorme successo di pubblico: nei suoi oratori, ma anche nelle messe polifoniche e nella sua vasta produzione di liriche religiose ‘popolari’ le soluzioni melodiche, pur iscritte nella musica tonale, sapevano unire insieme il ritmo libero e la struttura modale del canto gregoriano alle melodie più accessibili delle sequenze e delle laude medievali, elaborate in forma di ‘corale’, secondo il modello palestriniano. Il linguaggio di Perosi, insomma, riusciva ad esprimere con naturalezza il senso ‘originario’ e ‘puro’ del canto della chiesa, tradotto in un contesto accessibile all’orecchio di allora.

Guido Pasquetti, nel suo L’Oratorio musicale in Italia, del 1906, dopo aver ricordato e lodato l’esperienza di Perosi, sul quale ferve «il plauso della folla e la discussione dei critici» esordisce col principio che «né gli italiani né i tedeschi seppero darci un concetto storicamente esatto e ben definito dell’oratorio. [...] Esso restava sempre il grande colosso dell’arte nostra inesplorato e non ancora dissotterrato dal misterioso seno del Rinascimento Italiano»33 . Quello stesso seno non era però, per Pasquetti, l’origine, bensì il primo sviluppo di quest’arte, giacché i primi elementi dell’oratorio vengono rintracciati proprio nella laude e nei drammi liturgici medievali. Questi ultimi, in particolare, sono considerati quale «genere proprio d’una età rozza, ma poderosa nella forza della fede e dell’arte», tanto che proprio in essi «l’oratorio ritrova [...] sebbene in uno stato rozzo e inadeguato, i suoi più antichi elementi»34 . Della laude, invece, nata «in un tramezzo di paure e rivolgimenti», Pasquetti annota l’indole «un po’ rivoluzionaria», data dalla lingua volgare e dall’affiliazione con la ballata popolare, e la pone come antecedente dello stile narrativo e dell’organizzazione scenica dell’oratorio: né in chiesa, né in teatro, ma in luoghi ‘laici’ preposti alla preghiera e alla devozione, come appunto i ritrovi delle confraternite e, in seguito, gli oratori35 .

Per quanto riguarda invece il repertorio profano, e in particolare la lirica trobadorica, che per prima suscitò interesse musicologico, il problema principale che rendeva assai arduo trascrivere e rendere accessibili le melodie fu quello di ricostruirne la natura ritmica, che, come per il gregoriano, non era presente nella notazione dei codici più antichi che trasmettevano, coi testi, anche la linea del canto36 . L’ipotesi che riscosse maggior credito, dalla fine del secolo XIX, fu che la ritmica fosse fondata sulla durata proporzionale dei singoli suoni e su metri definiti aritmeticamente, come accade nella musica tonale e nella polifonia medievale più tarda. Tutta la musica medievale, ad eccezione del canto liturgico, era pensata in termini di ritmica metrica. La questione della ritmica divenne campo di scontri filologici accesissimi e addirittura fisici, come accadde agli inizi del Novecento fra Pierre Aubry e Johann Baptist Beck, che si sfidarono a duello per la paternità dell’applicazione alla trascrizione delle melodie trobadoriche della ritmica modale (che alcuni trattati teorici della seconda metà del 1200 attribuivano agli organa di Notre Dame della fine del secolo XII): il primo perse la vita mentre si preparava allo scontro, il secondo fu costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti37 . Anche nella lirica cortese, però, la ricerca filologica promosse gradualmente l’adozione del ritmo libero, equiparabile a quello che i monaci di Solesmes applicavano al gregoriano. Fu questa la strada segui ta, ad esempio, da Ugo Sesini (1899-1945), paleografo e filologo musicale che trascrisse il canzoniere provenzale col sistema messo a punto per il gregoriano38 . Negli anni ’30 del ’900 Carl Appel propose una trascrizione non mensurale delle melodie di Bernart de Ventadorn, ma solo nella seconda metà del ’900 Hendrik Van der Werf applicò alle melodie trobadoriche il ritmo ‘libero’: sia le soluzioni metriche che quelle libere sono state utilizzate nelle interpretazioni e nelle registrazioni della seconda metà del ’900.

Le accese discussioni musicologiche sulla natura ritmica dei repertori monodici non rese però un buon servizio alla loro ripresa esecutiva: come sottolineava Friedrich Ludwig, la veste musicale di queste liriche non era tramandata nei manoscritti «nella pura forma dell’originale», ma in versioni considerate ‘deteriorate’. Una sorte che la lirica cortese condivideva, secondo Ludwig, anche coi Minnelieder e con le laude39 . La riproposizione al pubblico di questi repertori poetico-musicali fu perciò assai più sporadica del revival del gregoriano, rimanendo a lungo un fenomeno ‘di nicchia’, che fu capace di suscitare entusiasmi soprattutto nei circoli intellettuali più raffinati. È il caso, ad esempio, dell’interesse di Gabriele D’Annunzio verso il repertorio trobadorico, «la soave musica antica» che amava ascoltare nell’interpretazione di una ‘inesperta’ compagna dell’amico musicologo e musicista Arnold Dolmetsch, che l’accompagnava al liuto ricreando ambientazioni raffinate. Da una pagina del Notturno:

Mi riapparisce Arnold Dolmetsch, e quella sua piccola compagna [...] chiamata Melodia. A Zurigo, andavamo in un’abetina solitaria rischiarata dalla luce delle navate gotiche. Arnoldo portava seco un suo liuto [...]. Col liuto accompagnava il canto della sua compagna graziosa, dopo aver detto: “Non sa cantare. È il suo più gran merito” [...]. Cantava le vecchie canzoni dei trovatori, come quella di Tibaldo di Sciampagna re di Navarra che dice “Amors me fait commencier” come quell’altra che incomincia “L’autrier par la matinée”, e come quella che s’intona “J’aloie l’autrier errant sans compagnon”40 .


4. Dalla cacofonia armonica alle vette corali degli organa di Notre Dame: il recupero della polifonia medievale in prospettiva positivista, fra Otto e Novecento

Se il recupero del canto gregoriano, per le ragioni sopra sintetizzate, andava di pari passo con l’elaborazione di una nuova estetica, tesa a valutare positivamente quel canto che si poneva come l’origine stessa del senso religioso cattolico, il parallelo recupero filologico di altri repertori musicali medievali non condusse così automaticamente ad una valutazione positiva dell’arte che veniva riscoperta. Lo abbiamo già visto con la laude e il dramma liturgico medievale, considerati forme artistiche embrionali, d’una età che continuava ad essere percepita forte nella fede, ma rozza nell’espressione. La musica tonale, che fra ’800 e ’900 costituiva ancora il contesto di riferimento estetico, rendeva arduo apprezzare le melodie medievali, che, nonostante la costruzione modale condivisa col gregoriano, risultavano prive di un centro di gravità e per giunta, come già sottolineato, difficilmente ricostruibili nella linea melodica ‘originale’ che si riteneva essere esistita al momento della loro composizione.

La difficoltà maggiore nell’apprezzamento della musica medievale riguardava però soprattutto la polifonia, che i compositori del Medioevo, dall’antico organum di Notre Dame ai complessi mottetti isoritmici dell’ars nova, costruivano secondo principi che non aborrivano affatto, anzi prediligevano, le successioni di consonanze perfette, procedenti per moto parallelo, mentre consideravano le dissonanze come meri momenti di passaggio. Inoltre, il Medioevo non conobbe il concetto di accordo triadico, e gli amalgami armonici erano fondamentalmente derivati dall’incontro di due o più voci in discanto. L’idea che una successione di consonanze perfette sia cacofonica è un principio stabilito dalla teoria dell’armonia tonale, in base al quale il raggiungimento di un accordo consonante, e soprattutto del ritorno all’accordo fondamentale sulla tonica della scala, deve essere preparato musicalmente da una dissonanza. Le successioni di quinte e ottave parallele che occorrono nella polifonia medievale davano quindi a coloro che per primi andarono a riscoprirle un’impressione di ‘estraneità’, di vuoto e di ‘incompiutezza’: un ‘effetto Medioevo’, potremmo dire, che in parte continuiamo ad avvertire anche oggi, senza però che ci risulti così sgradevole. Le variegate esperienze musicali del Novecento hanno infatti ri-abituato l’orecchio occidentale ad apprezzare soluzioni armoniche assai più vaste di quelle specifiche del sistema tonale. Il suono ‘vuoto’ delle armonie medievali non rese quindi particolarmente entusiasmanti i primi approcci ai repertori polifonici, iniziati già dalla metà dell’Ottocento. E, in conseguenza, ciò non ne promosse la ripresa esecutiva.

Una voce autorevole nello screditare la qualità della polifonia liturgica medievale fu, ad esempio, quella del belga François-Joseph Fétis (1784-1871), insegnante, compositore, bibliotecario del Conservatorio di Parigi e poi di Bruxelles, instancabile divulgatore musicale e fondatore dell’influente Revue musicale. Sua è la monumentale Biographie universelle des musiciens, vera miniera di notizie storiche e di aneddoti, fra i quali spicca la seguente impietosa ricostruzione degli esordi della polifonia sacra:

I monaci Ubaldo di Saint-Amand e Oddone di Cluny, che scrivevano nel secolo X, furono i primi a parlare di diafonia o organo. Pian piano la gente si fece più spavalda nell’armonizzare con tre o quattro voci, che fu chiamata trifonia e tetrafonia, ma per Dio, che armonia! Tutti sanno che le successioni di due quinte o ottave parallele sono proibite oggi per l’effetto duro che producono. Le orecchie dei nostri antenati francesi erano però più rustiche delle nostre, perché le loro tetrafonie consistevano in successioni di quinte, quarte e ottave che erano ripetute per tutta la durata di un’antifona o una litania. E per giunta, erano così orgogliosi di questa cacofonia che quelli che chiedevano messe di suffragio consentivano volentieri di pagare i cantori sei denari per avere il piacere di ascoltarla, invece di due soli denari che bastavano per il gregoriano41 .

Similmente, anche François-Louis Perne (1772- 1832), studioso della polifonia di Guillaume de Machaut, il cui repertorio ci è giunto per intero e – caso quasi unico nella musica medievale – completo di attribuzione42 , diceva della celeberrima Missa de Notre Dame:

Non si può negare che questa Messa non è affatto elegante per un orecchio allenato. L’effetto che fa è duro e aspro; il suono è costantemente percorso da false relazioni, quinte e ottave parallele [...] che il risultato è un assemblaggio bizzarro. E anche il ritmo non è più degno dell’armonia. E così i moderni hanno a giudicare queste mostruosità. Ma se guardiamo al tempo in cui fu fatta, non possiamo che rimanere stupefatti dall’incredibile genio che ci deve esser voluto a comporre su canto piano un’intera Messa a quattro voci usando solo quarte, quinte e ottave e nel formare in ogni voce una melodia analoga alla principale43 .

Il percorso che condusse all’apprezzamento della polifonia medievale fu graduale e determinato da molteplici fattori, anche extramusicali e diversi da paese a paese. Nazionalismo e positivismo sono solo i più evidenti fra gli elementi culturali e filosofici che determinano nel suo complesso la riscoperta di queste musiche ‘difficili’ nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi del Novecento44 .

Come illustrato da Fiamma Nicolodi a proposito della musica ‘antica’ profana in Italia, la ripresa dell’arte musicale perduta «si precisa nello sfondo di un nazionalismo di marca postrisorgimentale, coniugato adesso con la concezione evoluzionistica di progresso»45 . Fenomeno Palestrina e gregoriano a parte, le glorie musicali del passato italiano facevano capo, ovviamente, soprattutto ai grandi nomi di Monteverdi, o di Frescobaldi per la musica strumentale, e ancora Corelli, Vivaldi e tutta la tradizione del barocco ‘italico’, ma lo sguardo si spingeva sempre più anche verso l’oscuro Medioevo, scorgendo proprio in quella rozzezza, monotonia armonica e diatonismo esasperato i germi di una schiettezza musicale che il romanticismo e post-romanticismo avevano offuscato. Fra i musicisti e critici musicali che si fecero primi promotori, editori e diffusori del passato musicale più remoto vi furono personalità come Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco Malipiero, Alfredo Casella, Fausto Torrefranca, i quali maturarono la convinzione che la musica italiana fondava la propria specificità sull’esperienza degli antichi, alla quale essi intendevano saldare l’esplorazione di nuovi linguaggi formali ed espressivi. In tal modo, l’esplorazione del passato si collegava all’affermazione di una identità nazionale, per ritrovare la quale anche quelle sonorità ‘medievali’ che risultavano così distanti ed estranee cominciavano ad essere viste come possibili fonti di ispirazione. Oscar Chilesotti, sul quale ci soffermiamo oltre, afferma ad esempio: <!-

gioverebbe ai nostri compositori modernissimi imparare a comporre servendosi solo di accordi consonanti, ciocché framezzo ad artifizi d’una ricercatezza stucchevole, riuscirebbe una novità46 .

La sensazione d’imperfezione formale, l’idea di libertà espressiva, il senso d’indefinitezza del linguaggio modale e diatonico vengono ricondotti alla musica precinquecentesca come elementi positivi e ‘nuovi’, come emerge ad esempio dalla lettura di Giannotto Bastianelli del madrigale Sotto l’imperio di Jacopo da Bologna:

Il presente pezzo ha quell’indefinibile senso tonale veramente diatonico che, come alcune movenze acerbe di versi danteschi suscitano nell’anima di veri poeti moderni dei vortici di accentuazioni imprevedute e ricchissime, così nell’anima del vero musicista moderno desta parimenti dei vortici d’atteggiamenti tonali virginei, delicatamente primitivi (in senso buono) e ben lontani dalla cupezza straricca e violenta di certa arte eccessivamente e ormai monotamente cromatica dei troppo ansiosi, perché nell’intimo loro aridi, ultimi romantici47 .

La lirica musicale medievale, rozza e primitiva, è perciò ricondotta al sorgere di una vetta artistica che l’Italia può raggiungere guardando di nuovo al proprio passato. La nuova musica si dovrebbe innestare sull’antica, senza soluzione di continuità.

Fra le voci che in modo originale seppero coniugare questi fermenti innovatori in un discorso storico che voleva proporsi come organico vi fu quella di Oscar Chilesotti (1848-1916), musicista, suonatore di liuto, critico musicale e storico della musica, autore de L’evoluzione della musica (1911) che prende le mosse dalle tesi di Herbert Spencer mettendo a fuoco la prospettiva evoluzionistica della musica già proposta dal padre del positivismo48 . L’idea di partenza, ripresa da I primi principi di Spencer di cui è restituito in italiano un ampio stralcio in apertura del volumetto, è che da una ‘semplicità confusa’ l’arte musicale si evolve verso una ‘complessità distinta’. Rintracciando i primordi dell’evoluzione musicale nella polifonia fiamminga, regno della semplicità confusa, Chilesotti distingue quindi «un’arte volgare [...] ispirata sulle tradizioni dei trovatori e sui mezzi del canto gregoriano», che «coltivava principalmente la melodia con disegno ritmico definito», da «un’arte scientifica» che invece «cominciò sulle rovine del canto gregoriano colla diafonia od organum [...] divenne un po’ più varia nel discanto [...] e poi di grado in grado, ampliando e ingarbugliando simile armonia rudimentale [...] giunse a stabilire una polifonia astrusa, i cui maestri indiscussi furono i Fiamminghi». A questi maestri di astruseria e stravaganza qualcuno, ribadisce in nota Chilesotti, attribuisce sentimento, ponendo quest’arte a fondamento della musica moderna; tuttavia, «è indubbio che l’origine dell’arte musicale va ricercata in Italia»49 , e specialmente in Palestrina, che, «sciogliendosi dalle pastoie della scuola fiamminga», seppe «infondere alle sue composizioni vero carattere religioso e giusta espressione, mediante semplicità e chiarezza»50 . Come si può intravedere in questi appunti, la diffidenza nei confronti delle polifonie medievali era difficile da superare; anzi, nel caso italiano l’istanza nazionalista e la difesa dello stile ‘alla Palestrina’ rendeva ancora più complesso accostarsi a repertori musicali precedenti.

Per cominciare a parlare di un concreto apprezzamento della polifonia medievale occorre tornare all’esperienza tedesca e soprattutto agli studi di Friedrich Ludwig (1872-1930), un fervente luterano che seppe volgere il fascino delle idee del positivismo in senso innovativo e costruttivo sul piano del recupero delle antiche polifonie. Fin dalle sue prime pubblicazioni sulla polifonia medievale, Ludwig intravide in questi prodotti artistici un primo stadio di un’evoluzione che sarebbe approdata alle vette della musica a cappella di Palestrina, da cui sarebbe scaturita poi, in perfetta continuità, la perfezione formale raggiunta da Bach e da Beethoven. Seguendo la puntuale ricostruzione storiografica di Anna Maria Busse Berger, riporto uno stralcio particolarmente significativo, tratto da uno studio di Ludwig dedicato al ‘grande’ Perotino, il ‘compositore’ che avrebbe portato allo stadio più perfetto l’organum elaborato alla scuola di Notre Dame, nel secolo XII:

[...] solo dall’organum, come esso era chiamato, solo da questo canto polifonico dei cori della chiesa franca [...] la polifonia trovò la via al completo spiegamento artistico di forze impensabilmente ricche già latenti nell’organum, [...] una via che all’inizio, dopo una lunga e difficile ascesa, avrebbe potuto solo raggiungere una prima vetta illuminata da luce immortale nella polifonia di Palestrina, e che in seguito, dopo più di mezzo millennio di forte sviluppo, sarebbe arrivata, in una più veloce avanzata, alle cime della moderna forma polifonica e armonica delle creazioni di Bach e Beethoven51 .

I primi interessi del musicologo tedesco furono in realtà indirizzati alla polifonia fiorentina del Trecento, ma il collega Johannes Wolf riuscì a portare alle stampe prima di Ludwig un volume su questo tema e uno studio, ancora oggi capitale, sulla storia della notazione mensurale, contro il quale Ludwig scrisse una crudele recensione52 . Gli sforzi del musicologo si concentrarono allora sul repertorio polifonico più antico, la polifonia modale sviluppatasi nella seconda metà del secolo XII secolo, pervenendo alla pubblicazione (1910) del fondamentale Repertorium organorum recentioris et motetorum vetustissimi stili. In questo accurato e insuperato catalogo degli organa e dei mottetti più antichi (la parte relativa al catalogo di mottetti del Duecento fu pubblicata postuma nel 1961), la ricerca filologica è all’insegna di una duplice adesione ai principi positivisti:

1. l’attenersi ai ‘fatti’, cioè alle fonti e alla loro trascrizione secondo principi di uniformità che dovevano riportare il brano alla sua ‘forma originale’;
2.il considerare l’evoluzione della polifonia medievale come una scala che portava dritta a Palestrina.

Ora, per Ludwig, il valore non solo storico ma anche estetico della polifonia modale si conforma a questi due principi.

Il primo punto è quello che maggiormente ci interessa: l’idea di una ‘forma originale’ rimanda infatti per Ludwig al principio di creazione artistica consapevole, che egli abbinava agli unici due nomi di compositori di organa di cui la trattatistica teorica medievale aveva trasmesso il nome, cioè Leonino e Perotino. A questi due personaggi, designati come magistri di una ‘scuola’ musicale sorta presso la cattedrale di Notre Dame di Parigi, vennero di conseguenza attribuiti organa che i codici trasmettono anonimi, individuando per tali composizioni caratteristiche stilistiche specifiche, riconducibili ad un primo stadio di quest’arte compositiva, rappresentato da Leonino, e ad uno stadio più evoluto, assegnato a Perotino. Gli aspetti rilevanti dal punto di vista estetico erano tutto ciò che potesse (almeno secondo Ludwig) riallacciarsi alla perfezione formale dell’arte di Palestrina: polifonia rigorosamente a cappella, impiego di grandi cori, destinazione liturgica caratterizzata da un profondo sentimento religioso, e, per lo specifico della struttura musicale, una rigorosa organizzazione ritmica, scambi di registro, numero delle voci in discanto, procedimenti di imitazione e progressione. Il sorgere dell’arte polifonica fu quindi per Ludwig frutto di libera e consapevole creazione artistica, che si separava nettamente dalle timide pratiche discantistiche precedenti il secolo XII, il cui valore musicale era poco significativo, in quanto l’obiettivo dei maestri carolingi e dei loro immediati successori era relativo alla componente testuale, tesa all’emulazione di modelli poetici classici. Inoltre, rispetto alla vetta artistica individuata in Perotino, la polifonia liturgica successiva era considerata un regresso, sia per lo scadere delle qualità di chiarezza e armonia nella condotta delle voci, sia per l’allontanamento dalla purezza del sentimento devozionale e «i gravi sintomi della decadenza dello spirito ecclesiastico-religioso, che si estendeva fino alla corte papale di Avignone, la quale agiva in un modo sgradevolmente mondano»53 .

L’impostazione positivistica impressa da Ludwig agli studi musicologici non rese un buon servizio alla ripresa e diffusione dei repertori medievali: con l’eccezione del gregoriano (accostato esplicitamente da Ludwig alle vette della polifonia di Notre Dame per le stesse caratteristiche musicali ed estetiche, cioè l’impiego di grandi cori e la componente genuinamente devozionale), la convinzione che la musica medievale non fosse ‘degna’ d’essere rievocata rimase dominante. Inoltre, l’accento posto sulle tecnica tipicamente medievale di riutilizzare materiali musicali, addirittura con passaggi fra sacro e profano, e la difficoltà oggettiva di pervenire alla ‘versione originale’ screditavano la plausibilità stessa di rendere ‘artistica’ un’eventuale esecuzione di quelle musiche. Tuttavia, fu proprio con gli studi di Ludwig che l’interesse verso la riproposizione della musica medievale prese il suo avvio; e se nel 1905 il musicologo tedesco ancora affermava che «il motivo principale per cui si studia la musica medievale e la si pubblica non è di ordine pratico ma solo speculativo»54 , dal 1921 il suo atteggiamento al riguardo cambiò totalmente. Nel suo studio su Perotino Ludwig ribadiva l’importanza di avere trascrizioni moderne per far rivivere questa antica arte polifonica; e quando, l’anno successivo, Wilibald Gurlitt organizzò concerti di polifonia medievale alla Badische Kunsthalle di Karlsruhe, Ludwig redasse i programmi di sala, rendendo disponibili anche le trascrizioni delle musiche. Nel 1924 l’esperienza di performances di polifonia medievale fu riproposta da Besseler, ad Amburgo55 .

Tra le due guerre, la ripresa esecutiva della musica medievale è già fatto compiuto: fra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30 cominciarono a formarsi complessi orchestrali professionistici di musica antica, sull’esempio pionieristico di Gurlitt e Thibaut. A Parigi, William Devan, che aveva studiato il gregoriano a Roma, fondò un complesso che propose musica dal Duecento al Cinquecento, registrando anche alcune esecuzioni. A Bruxelles, nel 1932, fu fondato il gruppo Pro musica antiqua, che effettuò numerose tournées e registrazioni di musica medievale56 . La guerra interruppe queste entusiastiche sperimentazioni e fu solo nel secondo dopoguerra, quando anche il mondo musicologico si era liberato dai vincoli del mito evoluzionista, della musica ‘assoluta’ e della musica d’autore, che si determinò una svolta fondamentale nell’affermarsi della ripresa esecutiva della musica medievale. Lo sviluppo dell’etnomusicologia, l’allontanamento dai canoni estetici della musica tonale, la sempre più vasta disponibilità di fonti, l’allargarsi geografico delle sedi in cui si coltivava la ricerca musicologica, il perfezionarsi delle tecniche di registrazione e riproduzione dei suoni, l’ingresso di un pubblico sempre più vasto e informato all’ascolto della musica, l’emergere di scuole interpretative dei repertori antichi furono alcuni dei fattori che allontanarono sempre più l’idea che i musicisti che si cimentavano con le tradizioni interrotte della musica dovessero ascoltare pedissequamente i musicologi o preoccuparsi di restituire una versione ‘storicamente corretta’. L’interpretazione della musica, insomma, stava divenendo un’arte che si scollava dal diktat della partitura e poneva essa stessa i criteri artistici atti a definire la plausibilità dell’esecuzione. Da questo momento in poi, saranno i musicisti a portare davanti al pubblico e alle major discografiche il discorso sul revival delle musiche del passato.



Note


1 B. Stock, Listening for the text: on the uses of the past, Philadelphia 1996 (ed. or. 1990), pp. 68-9.
2 Per una panoramica ampia e approfondita sulle scuole interpretative della musica antica, dal canto gregoriano agli inizi dell’età barocca, si può utilmente considerare il lavoro di B.D. Sherman, Interviste sulla musica antica. Dal canto gregoriano a Monteverdi, Torino 2002 (edizione originale: Early Music: Conversations with Performers, New York 1997). Per una ricostruzione storica del fenomeno della riscoperta della musica medievale si veda in particolare D. Leech Wilkinson, The modern invention of medieval music: scolarship, ideology, performance, Cambridge 2002. Per un inquadramento generale sull’idea di Medioevo musicale cfr. C. Page, voce Medieval, in The new Grove dictionary of music and musicians, ed. S. Sadie, London 2001, 2nd ed., vol. 16, pp. 221-7; A. Planchart, L’interpretazione della musica antica, in Enciclopedia della musica, vol. II: Il sapere musicale, ed. J.-J. Nattiez, Torino 2002, pp. 1011-28.
3 J. Leodiensis Speculum musicae, ed. R. Bragard, Corpus scriptorum de musica, vol. 3/7, Roma 1973, p. 6. Traduzione in F.A. Gallo, Il Medioevo II, in Storia della musica a cura della Società Italiana di Musicologia, Torino 1983, p. 124. Franco e Aristotele sono i teorici Franco da Colonia e Lamberto, che operarono nella seconda metà del 1200.
4 P. Vendrix, Concezioni diverse della storia musicale, in Enciclopedia della musica. II. Il sapere musicale, cit., pp. 591-610: 592.
5 Citazione tratta da Gallo, Il Medioevo II, cit., p. 131.
6 J. Tinctoris, Proportionale musices, ed. Albert Seay, Corpus Scriptorum de musica 22, American Institute of Musicology 1975, vol. 1, pp. 10-1. Traduzione in Gallo, Il Medioevo II, cit., pp. 126-7.
7 Sulla nascita delle cappelle musicali e la professionalizzazione del musicista si vedano i contributi del volume Cappelle musicali fra corte, stato e chiesa nell’Italia del Rinascimento, Atti del convegno internazionale (Camaiore, 21-23 ottobre 2005), a cura di F. Piperno - G. Biagi Ravenni - A. Chegai, Firenze 2007.
8 Citazione tratta da C. Gallico, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, in Storia della musica, cit., vol. 3, pp. 118-20: 120.
9 V. Galilei, Dialogo della musica antica et moderna, a cura di F. Fano, Roma 1934, p. 1.
10 Strohm, Il concetto di musica in Occidente. Un approccio culturale e sociologico alla sua storia, in Enciclopedia della musica. V. L’unità della musica, Milano 2005, pp. 673-98: 691. La citazione da Monteverdi è tratta da C. Monteverdi, Lettere, dediche, prefazioni, a cura di D. de’ Paoli, Roma 1973, p. 392.
11 Il basso continuo è un modo di realizzare il sostegno armonico, costituito da una linea melodica che il musicista scriveva in chiave di basso, su cui erano realizzati gli accordi.
12 Il titolo indica il setaccio per separare il grano dalla crusca riferendosi ai salmi di Paul Siefert (che era un musicista polacco contemporaneo). Cfr. Bianconi, Il Seicento, in Storia della musica, cit., vol. 4, p. 49.
13 Bianconi, Il Seicento, in Storia della musica, cit., vol. 4, p. 50. Per un inquadramento complessivo della distinzione ‘antico’ e ‘moderno’ nel contesto dello sviluppo della musica occidentale ci si può riferire a C. Dahlhaus - H.H. Eggebrecht, Che cos’è la musica?, Bologna 1988 (ed. orig. 1985), cap. V, Musica antica e musica nuova, pp. 75-92.
14 Su questi temi mi limito ad un riferimento a E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, Torino 1991 (prima ed. 1971).
15 Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, cit., p. 109.
16 Vendrix, Concezioni diverse, cit., p. 597.
17 Si veda J. Haines, Eight Centuries of Troubadours and Trouvères: The Changing Identity of Medieval Music, Cambridge 2004, pp. 113-8. Fra i primi trascrittori di musiche provenzali va ricordato almeno il letterato Giovanni Maria Crescimbeni, accademico dell’Arcadia.
18 Si veda in particolare il volume The present State of Music in France and Italy nella traduzione italiana a cura di Enrico Fubini: C. Burney, Viaggio musicale in Italia, Torino 1979, con ampia prefazione del curatore.
19 Burney, Viaggio musicale in Italia, cit., pp. 14-5.
20 Haines, Eight Centuries of Troubadours, cit., pp. 118-9.
21 Burney, Viaggio musicale in Italia, cit., p. 3. Corsivi nel testo.
22 Come sottolinea F. Della Seta, Italia e Francia nell’Ottocento, in Storia della musica, a cura della Società Italiana di Musicologia, Torino 1993, vol. 9, p. 24: «Il vero problema della musica religiosa dell’Ottocento è la sua perdita di funzione in una società che lentamente ma inarrestabilmente procede sulla strada della secolarizzazione. I tentativi di restaurazione operati dal tradizionalismo e dallo storicismo romantici potevano condurre alla riappropriazione d’un passato di inestimabile prestigio artistico, ma difficilmente potevano rispondere ai bisogni dei nuovi soggetti sociali creati dall’inurbamento e dall’industrializzazione». Queste nuove richieste sociali fecero sì che i movimenti di restaurazione dello ‘stile antico’ si contemperarono o addirittura si contrapposero all’esigenza di produzione di una musica sacra del tutto nuova e di impronta ‘popolare’. Si veda in proposito M. Giani, Fede e teatralità nella musica sacra dell’Ottocento, in Enciclopedia della musica, cit., vol. IV. Storia della musica europea, pp. 826-47.
23 Cfr. Della Seta, Italia e Francia nell’Ottocento, cit., pp. 20-1.
24 Planchart, L’interpretazione della musica antica, cit., p. 1017.
25 Per una messa a fuoco complessiva della riforma liturgica fra Otto e Novecento, con particolare attenzione alla situazione italiana e dettagli anche sulla questione della musica si veda M. Paiano, Liturgia e società nel Novecento: percorsi del movimento liturgico di fronte ai processi di secolarizzazione, Roma 2000, soprattutto l’ampia introduzione e il capitolo 1.
26 Citazione da G. Salvetti, Il Novecento II, in Storia della musica, cit., vol. 9, pp. 190-1. Corsivi nel testo.
27 P. Ferretti, O.S.B., Estetica Gregoriana, ossia Trattato delle forme musicali del canto gregoriano, Roma 1934, vol. I, pp. VIII-IX.
28 Ferretti, Estetica Gregoriana, cit., p. 3, corsivo nel testo.
29 Ferretti, Estetica Gregoriana, cit., p. 2, corsivi nel testo.
30 Cfr. l’intervista di Scherman a Marcel Pérès, in Sherman, Interviste sulla musica antica, cit., pp. 31-51.
31 O. Respighi - S. Luciani, Orpheus, Firenze 1925, pp. 24-6.
32 J.M. Hauer, Vom Wesen des Musikalischen. Grundlagen der Zwölftonmusik, Berlin-Lichterfelde 1966 (ed. orig. 1920), p. 43. Citazione e traduzione in G. Di Stefano, (Dis)harmonia mundi. La crisi della musica nella letteratura tedesca degli anni ’20 del Novecento, in «Musica e storia», 15 (2007), pp. 505-29: 518 nota 27.
33 G. Pasquetti, L’oratorio musicale in Italia, Firenze 1914 (ed. orig. 1906), p. V.
34 Pasquetti, L’oratorio musicale, cit., p. 35.
35 Pasquetti, L’oratorio musicale, cit., p. 37; cfr. le pp. 36-44.
36 I canzonieri che trasmettono le liriche occitaniche non sono più antichi della metà del secolo XIII. I testi con notazione sono circa 250, un decimo di quelli pervenutici.
37 Sulla figura di Pierre Aubry e la nascita della musicologia francese rinvio allo studio di J. Haines, Généalogies musicologiques: aux origines d’une science de la musique vers 1900, in «Acta musicologica» 73 (2001), pp. 21-44.
38 U. Sesini, Le melodie trobadoriche del Canzoniere provenzale della Biblioteca Ambrosiana (R 71 sup.), Torino 1942.
39 F. Ludwig, Die Erforschung der Musik des Mittelalters. Festrede im Namen der Georg-August-Universität am 4. Juni 1930, Göttingen 1930, p. 7. Cfr. A.M. Busse Berger, La musica medievale e l’arte della memoria, Subiaco 2008 (ed. orig. 2005), p. 43.
40 G. D’Annunzio, Notturno, Milano 1953, p. 253. Si veda G.P. Minardi, D’Annunzio e la musica antica, in D’Annunzio musico immaginifico, Atti del convegno internazionale di studi (Siena, 14-16 luglio 2005), a cura di A. Guarnieri - F. Nicolodi - C. Orselli, Firenze 2008, pp. 21-32. Cfr. anche C. Vitali, Il Vate strizza l’occhio al musico. Gabriele D’Annunzio e il revival novecentesco della musica antica, in «Nuova Rivista musicale italiana», 32 (1999), pp. 397-429.
41 Citazione in Leech-Wilkinson, The modern invention, cit., pp. 158-9 (traduzione mia).
42 Un caso di repertorio giuntoci pressoché integro e attribuito, ma del tutto ignorato dalla musicologia storica e dagli interessi del pubblico fino agli anni ’70 del Novecento, sono le liriche della badessa Ildegarda di Bingen, riscoperte e divenute oggi fra le più popolari ed eseguite. Su questo mi permetto di rinviare a C. Panti, A Woman’s Voice through the Centuries. Hildegard of Bingen’s Music Today, in The Past in the Present. Tradition in a Changing World, eds. F. Mugnaini - T. Thompson, Catania (ed. it.) 2006, pp. 16-40.
43 Citazione in Leech-Wilkinson, The modern invention, cit., p. 159 (traduzione mia).
44 Il già citato volume di Leech-Wilkinson, The modern invention, dedica un ampio capitolo alla questione della difficile ‘riappropriazione’ moderna del gusto musicale per la polifonia del Medioevo.
45 F. Nicolodi, Gusti e tendenze del novecento musicale in Italia, Firenze 1982, pp. 67-118 (cap. II, Per una ricognizione della musica antica), citazione a p. 69.
46 Lettera a Vito Fedeli, cit. in Nicolodi, Gusti e tendenze, cit., p. 75.
47 G. Bastianelli, La crisi musicale europea (riedito nel 1976 dall’editore Vallecchi, a cura di Gian Andrea Gavazzeni, è la riedizione dell’opera pubblicata da Pagnini di Pistoia nel 1912), p. 91; citazione da Nicolodi, Gusti e tendenze, cit., p. 88.
48 O. Chilesotti, L’evoluzione nella musica. Appunti sulla teoria di H. Spencer, Torino 1911. Su Chilesotti, la sua opera e il suo pensiero si veda Oscar Chilesotti: la musica antica e la musicologia storica, a cura di I. Cavallini, Venezia 2000.
49 Chilesotti, L’evoluzione nella musica, cit., pp. 16-7.
50 Chilesotti, L’evoluzione nella musica, cit., p. 27.
51 F. Ludwig, Perotinus Magnus, in «Archiv für Musikwissenschaft», 3 (1921), pp. 361-70: 363-4. Citazione e traduzione in Busse Berger, La musica medievale, cit., p. 38.
52 Per questi riferimenti seguo il primo capitolo del volume di Busse Berger, pp. 23-48.
53 F. Ludwig, Die mehrstimmige Messe des 14. Jahrhunderts, in «Archiv für Musikwissenschaft», 7 (1925), pp. 417-35: 434. Citazione italiana in Busse Berger, p. 40, al quale mi riferisco anche per le altre considerazioni qui riassunte.
54 Questo giudizio è tratto dalla recensione alla Geschichte der Mensuralnotation di Wolf; cfr. Busse Berger, La musica medievale, cit., p. 29.
55 Busse Berger, La musica medievale, cit., p. 29.
56 Planchart, L’interpretazione della musica antica, cit., pp. 1018- 19.

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