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Un ‘Cantautore Medievale’ nell’Italia degli anni ’60

di Gianni Guastella


Fabrizio De André è stato uno dei cantautori più versatili della seconda metà del Novecento, sia dal punto di vista della poetica che da quello degli stili musicali. Persiste però presso il grande pubblico una certa tendenza a non considerarlo tanto come un artista vario e mutevole, ma piuttosto a privilegiare la fase iniziale della sua produzione come quella che meglio caratterizza il suo personaggio artistico. Mi riferisco al De André delle ballate e delle ‘canzoni’ degli anni ’60 e dei primi anni ’70. Del resto, è stato proprio lui, sin dall’inizio della sua carriera, a proporre, con l’aiuto della stampa dell’epoca, un’icona di sé poi rimasta mitica e stabile nel tempo: quella dell’originale trovatore – decisamente estraneo agli stereotipi della canzone di allora – che per trasmettere ai suoi contemporanei messaggi originali, fortemente critici nei confronti del perbenismo diffuso nella cultura dominante, mimava forme poetiche e musicali di un passato lontano. La figura del trovatore evocava un personaggio e un ambiente poetico assai poco frequentati nelle scuole dell’epoca, e di certo una funzione artistica mal definita, a metà strada fra musica e letteratura. Il tutto produceva una fascinosa aura di esotismo culturale.

Il passato, dai contorni assai artefatti, cui rimandava questa indefinibile collocazione artistica è stato spesso sintetizzato da De André tramite l’immagine di un Medioevo del tutto peculiare, in cui i testi dei trovatori si mescolavano con i versi dei poeti maledetti. Fabrizio ha continuato per tutto l’arco della sua carriera a consolidare i tratti di questa icona, precisandone i dettagli e indicandone qua e là le fonti di ispirazione e il contesto di provenienza. Le dichiarazioni esplicite in questo senso abbondano tanto nei documenti già pubblicati quanto in quelli ancora inediti che si trovano nell’Archivio De André, custodito a Siena presso la biblioteca della Facoltà di Lettere. Mi limito a riportarne solo alcune1:

Non sono un ‘cantante bene’, non sono un ‘intellettuale’. Sono soltanto uno che scrive canzoni guardandosi intorno e attingendo molto anche dal Medioevo. È quello il periodo che mi affascina veramente. Potendo conservare alcune conquiste sociali fatte nel corso dei secoli successivi, vedrei molto volentieri una società moderna ambientata nel Medioevo2.

Attingere al Medioevo, per De André, sembra essere stato prima di tutto guardare a una serie precisa di modelli poetici tratti dalla grande letteratura: la poesia, in questa fase della sua produzione, a quanto pare precede decisamente la musica3, anche se il legame fra le due facce della medaglia è sentito da Fabrizio come inscindibile da sempre:

Già nell’antica Grecia i poeti cantavano: Esiodo, Alceo, Saffo. Per non parlare dei trovatori di Provenza, dalla quale la mia famiglia proviene4.

Viene così disegnata un’immaginaria linea continua di produzione poetica, che al giovane Fabrizio era arrivata per una via privata, familiare e si era consolidata nell’ambiente genovese5. Il gusto francese è alla base di questo percorso:

Forse sono un cantautore, più autore che cantante. Le canzoni non sono commerciali. Ma la colpa, in fondo, è mia. Dovrei comporre cose alla portata di tutti e invece, ogni volta che prendo la penna in mano, mi ispiro ai trovatori provenzali, come Rudel o Rambaldo. Adoro tutto ciò che viene dalla Francia6.

Ed è ancora la matrice poetica francese a indirizzare Fabrizio verso la lignée dei poeti maledetti:

Mi sembra che i provenzali, non so Jaufré Rudel, Rambaldo di Vaqueiras e gli altri siano entrati in misura abbastanza sensibile nell’orientamento del mio gusto letterario. […] Adoro tutto ciò che è francese, credo di avere dentro una polla di vecchio buon maledettissimo francese: già, Villon, come faccio a non tirarlo in ballo? E se vogliamo scendere, un po’ di Baudelaire e di Rimbaud7.

Queste influenze non erano arrivate a De André, per così dire, di prima mano. È sempre Fabrizio a svelare senza problemi quale sia la figura artistica, a prima vista ben lontana dal Medioevo, attorno alla quale si concentrava per lui la stessa costellazione di spunti e suggestioni che sta alla base della sua ispirazione: la figura del suo più importante modello musicale di allora, Georges Brassens. Anche in questo caso sono molte le dichiarazioni esplicite, che ci svelano un aspetto fondamentale della formazione artistica di Fabrizio:

A quattoridici anni avevo già delle idee politiche ben precise, ricavate dai dischi di Brassens che ascoltavo dalla mattina alla sera. La mia famiglia, per parte paterna, è di origine francese, provenzale per essere preciso. Mio padre non perse mai i contatti con i luoghi d’origine e, di ritorno dai suoi viaggi d’Oltralpe, portava a me e a mio fratello Mauro qualche regalo, in particolare dischi di musica popolare. Tra questi scoprii le canzoni di Brassens e il mondo che lui descriveva: quei suoi personaggi emarginati io li ritrovai a Genova8.

Era proprio riproducendo l’atteggiamento artistico di Brassens che Fabrizio impostava molte delle sue scelte poetiche: è nella voce di quel grande chansonnier che si può sintetizzare il gusto francese che fa da matrice alle predilezioni letterarie e musicali del primo De André:

Venivamo tutti dal liceo classico e, quando lo frequentavo io, il classico era l’italiano da Dante a Montale e gli autori francesi. Inoltre nella Genova di quegli anni si respirava un’aria da esistenzialismo bohémien e cominciavano già a circolare i primi dischi di Charles Trenet, Leo Ferré, Brassens: si vede bene quindi quanto l’influenza francese fosse inevitabile. Per Bindi credo sia stato più importante Trenet. Tenco adorava gli americani, in particolare Nat King Cole. Paoli era il più istintivo, originale. Le sue uniche ascendenze potrebbero risalire al canto gregoriano. Quanto a me, non ho mai vissuto Brassens, anche musicalmente, come un fenomeno esclusivamente francese. Mi hanno riferito che sua madre era italiana: non so se sia vero, sicuramente la sua musica è latina, napoletana; ci si ritrova la tarantella, la musica di strada del nostro Sud. L’operazione di riversamento della letteratura in musica, in canzone, l’aveva già fatta lui, e io senza faticare ho ritrovato tutti quei riferimenti nella sua originalissima traduzione9.

Non è un caso che De André citi ‘gli autori francesi’, da lui amati e imitati, accanto al più classico canone della poesia italiana ‘da Dante a Montale’, che sembra aver influenzato assai meno la sua vena artistica. Brassens è l’autore francese – ma anche di matrice ‘latina’ e ‘napoletana’ – da cui Fabrizio dice senza mezzi termini di aver derivato quel modo di usare la forma della canzone per rielaborare una gran varietà di temi e spunti letterari, che possiamo sicuramente indicare come il suo costante atteggiamento compositivo10.

Brassens, poi, non era per lui soltanto un modello artistico, era anche una fonte di insegnamento capace di correggere i pigri automatismi della morale borghese:

Per me lui rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi e insegnò anche ai borghesi certe forme di rispetto alle quali non erano abituati. I suoi testi si possono leggere anche senza la musica. È come leggere Socrate: insegna come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi11.

Soprattutto la vena libertaria e anarcoide del suo approccio alle tematiche sociali ha in Brassens una delle fonti principali:

Brassens dipinge la realtà con immagini contadinesche, descrive la vita di periferia per generalizzare e ampliare il discorso, per arrivare all’uomo. La sua è un’anarchia bonaria: comincia sempre avendocela con tutti e finisce sempre per perdonare tutti12.

Brassens era anche lui un libertario, le cui canzoni scavavano nel sociale. Per me non è stato solo un maestro nella tecnica di scrittura di una canzone: è stato anche un maestro di pensiero e di vita. Mi ha insegnato per esempio a lasciare correre i ladri di mele, come diceva lui, e che in fin dei conti la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della nostra società che non tra i potenti13.

L’insieme delle suggestioni artistiche che Fabrizio riporta espressamente all’influsso esercitato sul suo primo apprendistato dall’opera di Brassens ha molti punti di contatto con quel mondo ‘medievale’, inteso come mondo alternativo a quello della cultura domi nante, verso il quale il ‘trovatore’ De André si sentiva fortemente attratto. Il legame fra queste due sfere di ispirazione artistica è ancora una volta Fabrizio stesso a indicarcelo, in un lungo brano del testo preparatorio per un’intervista a TV Lugano, che si trova nell’archivio senese. Alla domanda ‘Dove hai preso i tuoi modelli?’ il cantautore rispondeva nel 1968:

Direi un po’ dappertutto: da libri letti, da film veduti, da vicende di vita vissuta, da me stesso verificate. Penso che tutto sommato avesse ragione Paul Mauriat affermando che un artista (e dico artista come direi artigiano, come tecnico del linguaggio, del colore o della forma) debba essere, soprattutto in questo nostro secolo dove sembra che tutto sia stato già detto ed espresso, un ‘raccoglitore di idee che non un inventore’. In particolare, dato che tutto sommato credo abbastanza nel valore didascalico del mio lavoro, mi sono ispirato soprattutto a quei poeti che per primi si servirono dei versi per insegnare qualcosa, che considerarono l’arte come veicolo di insegnamento: parlo dei poeti medioevali e di coloro che possono, da questo punto di vista, essere considerati i loro epigoni; in particolare parlo di Georges Brassens: in fondo ad ogni canzone di Brassens esiste sempre un insegnamento di vita, o quanto meno un suggerimento ad assumere una det[erminata] posizione di critica di fronte ad una vicenda14.

Insomma, nel modello di Brassens De André vedeva la prosecuzione di una linea poetica che, all’interno del suo immaginario artistico, aveva i suoi capostipiti nei poeti del Medioevo: poeti capaci di dare lezioni di vita e nello stesso tempo capaci di gettare sulla realtà uno sguardo critico, disincantato e pietoso.

Come mai tutto questo era sentito da De André come profondamente ‘medievale’, ed era inoltre riproposto, in anni prossimi alla data epocale del 1968, come la manifestazione di uno stile in qualche misura anch’esso ‘medievale’? Come mai attorno a questi temi si andava formando l’icona del ‘trovatore’ De André?

È stato nel tentativo di rispondere a questo tipo di domande che ha preso forma l’idea di riunire a Siena, nell’aprile del 2010, un gruppo di studiosi interessati allo studio tanto del Medioevo quanto della cultura del Novecento, per discutere di un fenomeno artistico che si può osservare, grosso modo, nell’arco di circa un ventennio, nell’Italia della fine del secolo scorso. De André, infatti, non è stato il solo, in quegli anni, a ispirarsi, più o meno direttamente, ad autori e contesti del Medioevo, cercando di riproporre, in forme accessibili al grande pubblico, alcune atmosfere e alcuni atteggiamenti compositivi genericamente attribuiti a quel passato lontano; e utilizzando queste forme straniate di produzione artistica per trasmettere in modo efficace un determinato messaggio, tendenzialmente di rottura rispetto all’orizzonte della cultura dominante. Per fare solo alcuni esempi notissimi, in quello stesso arco di tempo Dario Fo riproponeva sulle scene teatrali una sua personalissima versione dei Misteri15, mentre un grande scrittore-regista come Pasolini trasferiva sullo schermo cinematografico tre grandi capolavori letterari16 e Monicelli inventava le avventure scombinate e spassose di Brancaleone17

Il Medioevo rievocato in questo tipo di produzione non aveva certo nulla in comune col medievalismo romantico e post-romantico: quello, per intenderci, dei nazionalismi europei che andavano in cerca di testi poco noti o dimenticati per trovare in essi le ‘origini’ in cui poter indicare le proprie più autentiche radici. Si trattava piuttosto della ricreazione volutamente artificiosa di un orizzonte esotico, in cui si intrecciavano elementi schiettamente popolari (spesso e volentieri al limite del volgare e del blasfemo) e tradizioni poetiche quasi estranee al più collaudato canone scolastico: il tutto a sostegno di proposte artistiche decisamente devianti rispetto ai percorsi consueti della cultura dominante. La riscoperta (o piuttosto l’invenzione) di questo mondo arcaico e marginale il più delle volte sembra essere stata particolarmente funzionale alla critica o alla ridicolizzazione della cultura dominante, con la sua deriva di alienazione, la sua ipocrisia, la sua inautenticità.

Di quali elementi si componeva lo stile di quanti, in quegli anni, hanno tentato di ‘rifare il medioevo’ oppure di riproporne i prodotti artistici spesso sconosciuti al grande pubblico? È quanto provano a spiegarci gli autori dei saggi raccolti in questo volume.

Per impostare in modo non dispersivo il nostro tema, abbiamo voluto inquadrare il terreno della discussione fra i limiti cronologici del successo di nicchia ottenuto dalla parodia di ‘pastorella’ che è stata Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (1963) e del successo planetario raggiunto da Il nome della rosa di Umberto Eco (1980). Ma quello che qui viene proposto è ovviamente un discorso che potrebbe ampliarsi moltissimo, volendo, fino ai giorni nostri. Una grande quantità di spunti potrebbero venire da tanti ambiti (si pensi solo alle arti figurative o all’architettura), da tanti paesi (si pensi solo alla ricorrente presenza di temi medievali nel progressive rock degli anni ’80). In queste pagine abbiamo deciso di privilegiare i due campi della musica e della letteratura, soprattutto in ambito italiano: non poteva essere diversamente per un progetto che nasce dall’iniziativa di un centro studi come il nostro, che ha sede a Siena ed è dedicato a De André.


1 Anche gli altri autori dei contributi di questo volume torneranno più volte a riportare queste stesse affermazioni, proprio per la loro fondamentale programmaticità.
2 Il cantautore Medievale Fabrizio è lo sconosciuto più conosciuto d’Italia, in «ABC» 27.7.1967. Cito da G. Harari (a cura di), Una goccia di splendore. Fabrizio De André. Un’autobiografia per parole e immagini, Milano 2007, p. 76.
3 Cfr. S. La Via, Poesia per musica e musica per poesia: Dai trovatori a Paolo Conte, Roma 2006, pp. 189 sg.
Cito da C.G. Romana, Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con Fabrizio De André, Roma 2005, p. 41.
5 Cfr. anche la dichiarazione resa a Luigi Viva (Non per un dio ma nemmeno per gioco. Vita di Fabrizio De André, Milano 2000): «La mia cultura ha diverse radici, letterarie e musicali. Mi appassionano i poeti e gli scrittori di Provenza e di Francia, da François Villon a Baudelaire. La seconda lingua in casa mia era il francese, per via delle origini provenzali di mio padre. I genovesi, si può dire da secoli, hanno avuto un rapporto speciale con la cultura francese, sia nella musica, ed è il caso degli chansonniers, sia nell’ebanisteria, con il barocchetto genovese» (cito da Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 69).
6 L’idolo delle signore bene è un impiegato di concetto, in «Bella» 10.2.1968. Cito ancora da Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 66.
7 Fabrizio De André, il menestrello in microsolco, in «Sorrisi e canzoni TV» 2.7.1967. Cito da C. Sassi e W. Pistarini, De André Talk. Le interviste e gli articoli della stampa d’epoca, Roma 2008, pp. 28 sg.
8 Dichiarazione riportata da Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, cit., che traggo da Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 55.
9 In M. Mangiarotti, Suonate le trombe: è tornato De André, in «Corriere della sera illustrato» 6.5.1978 (cito ancora da Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 73).
10 Un atteggiamento e una tecnica i cui tratti principali sono stati illustrati di recente con grande efficacia da M. Marrucci, Il ‘mosaicista’ De André. Sulla genesi e la composizione dei testi di un cantautore, in Il suono e l’inchiostro. Poesia e canzone nell’Italia contemporanea. Cantautori, saggisti e poeti a confronto, Milano 2009, pp. 104-21 e Dalla carta alla voce. Fabrizio De André, la poetica del ‘saccheggio’ e il caso di Smisurata preghiera, in «Per leggere» 16, 2009, pp. 175-87. Può essere utile riportare un’ulteriore dichiarazione in questo stesso senso: «La mia operazione, proprio quella della origini, è stata di trasportare nella canzone dei temi che erano bagaglio esclusivo della letteratura in quella che era considerata, in Italia almeno, e a torto, un’arte minore quale la canzone. Cosa che avevano fatto già prima di noi, attraverso operazioni certo più intuite che pensate, Kurt Weill o Bertolt Brecht in Germania, oppure Brassens e Brel in Francia» (D. Fasoli, Un sogno mediterraneo. De André da Genova riprende contatto col mondo, in «Il manifesto» 22.4.1984, riportato in Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 68).
11 Intervista a «La Stampa» 11/11/1981, riportato in Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, cit., p. 186. In altre occasioni la predilezione di De André per Brassens arriva al punto da svalutare al confronto la profondità artistica e culturale di un autore come Dylan: «La poesia non è soltanto Bob Dylan, è soprattutto Brassens. La cultura è un sostrato necessario, ma è più facile che riesca a essere poeta un giovane che un vecchio, perché un vecchio è più imbevuto di cultura. In questo senso Brassens è un giovane, molto più giovane di Dylan» (La colpa è della commissione – Ha vinto il migliore, in «Corriere Mercantile» 4.1.1968: cito da Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 58).
12 Questo passo, riportato da C.G. Romana, Amico fragile. Fabrizio De André, Milano 1991, lo traggo ancora da Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 55.
13 In «Rivista anarchica» del 1991, riportato in Harari (a cura di), Una goccia di splendore, cit., p. 55.
14 Siena, Biblioteca della Facoltà di Lettere, Archivio Fabrizio De André IV/197, pp. 14-5.
15 Mistero buffo («giullarata popolare») è del 1969.
16 Decameron è del 1971, I Racconti di Canterbury del 1972, Il fiore delle mille e una notte del 1974.
17 L’armata Brancaleone è del 1966; Brancaleone alle crociate del 1970.

Da Semicerchio n. 44, pp. 5-8


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