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This is not my hour di Peter Russell «Let art hide art, dissimulate the truth» (s. 15) della Commedia

di Federico Federici


Al di là di ogni tentazione canonica, il sonetto rappresenta per Russell la capienza esatta entro cui disporre significati e suoni secondo un criterio unificante, dando vita a quella che chiamava «forma-pensiero». Non è una scelta di ‘maggior letterarietà’, ma è per esprimere attraverso un meccanismo funzionale la propria disciplina interiore, elaborando soluzioni metriche diverse, quasi a tentazione di un mantra occidentale. La contesa tra scrittura e forma ricalca quella tra individuo e società, richiede lo stesso carisma, la stessa dedizione all’esperienza e abitudine all’astrazione per essere risolta. Solo così la parola poetica può incarnare, nell’estenuante reinterpretazione di una delle sue forme più letterarie, la novità di una vera norma morale e la sua ambigua versatilità.

Scrivere poesia significa esprimere l’aderenza dell’essere alla parola, secondo una disposizione di sé che non può semplicemente accoglierla quale termine ultimo di paragone, limitandosi a riflettere in essa la propria interiorità, quasi fosse luce ben disposta su materia inerte, quasi fosse un ‘fatto letterario’ inconfutabile, un’illusione beatificante e consolatoria («Poetry for me is not just what I do,/ but what I am, perpetually. Days pass.», s. 23). Se il tempo tenta di corrompere persino la parola, di farle conoscere il dolore dei giorni e delle stagioni, la poesia, nella sua essenza, stacca il significato della vita dalla precaria sostanza che la raffigura, riunisce gli elementi di una trascendenza. Nei Sonnets la parola diviene perciò poetica al di là del valore letterario, levandosi più alta (cioè più profonda) dei processi per acclamazione della Storia, lacerando con metodo la pratica diffusa del luogo comune come elemento di constatazione oggettiva dei fatti.

La trama più minuta del testo è un precipitato di citazioni, a volte ridotte a poche scorie (i sette felini in s. 19, il sottile immaginario botanico in s. 32), altre costruite su inusuali ribaltamenti di mito e leggenda (il dono del fieno nell’incontro tra l’imperatore Giuliano e san Basilio in s. 15, o Ulisse in s. 34, moderno leader carismatico che porta ad Itaca ricordi e non onori). Tutto concorre a infittire le riflessioni sul senso del tempo e la tragedia della Storia, sulla contrapposizione antropologica tra individuo e Uomo, oltre le propaggini più ostinate del pensiero occidentale.

Il tono aspro, minaccioso, a tratti iniziatico e oscuro s’imprime con l’icastica originalità di una parabola apocalittica, di un difficile vaticinio in cui l’autoredemiurgo s’impegna per se stesso nel destino di tutti. La visione può essere terrificante, non perché occupa l’intero spazio della veglia o del sonno, ma perché il suo valore profetico si sostituisce completamente alla vita. Raramente la saggezza propone il valore consolatorio della rivelazione come spesso accade nei classici dell’antichità. Alcuni motti sono perentori, ricordano proverbi biblici e rimangono come carichi sospesi nell’edificio del testo: «Anguish, an evil passion apprehended», (s. 18); «And man is made a regiment of mules.», «And the white light of consciousness put out»,

(s. 24); «Rome feeds the goats and leaves the sheep to starve» (s. 41). In passaggi in cui la parola sembra meno ispirarsi al sacro e il simbolo rimanere sommerso, le cose conservano una doppia matrice, come la difficoltà a prender sonno (s. 3), o il canto del gallo che disperde nella luce le bestie a Pian di Scò (s. 19). È in questa ambivalenza che si rendono simultaneamente accessibili una visione naturale e una spirituale del mondo. Spesso è nella radice delle parole la chiave di accesso ai significati altri. Emblematico il caso di anguish (s. 18), dal latino anguis, serpente: la sua figura attraversa tutti i piani simbolici del sonetto, dall’accostamento al libro della Genesi nell’ultima terzina, in cui la disperazione è serpe che infetta ogni «fruitful ease», all’ambivalenza medica e gnostica del farmaco, che è medicina e veleno per il saggio, rimedio temporaneo o definitivo. Oppure la ricerca del toponimo corretto nel sonetto 13 (Gastra, Castra, Terre Gaste le varianti), che accompagna la rappresentazione di una «waste land» toscana, o «guasta landa» come traduce Bisso in aderenza all’originale. L’apertura bucolica presenta la natura come un almanacco gigantesco del tempo universale, in cui la vita è misura di se stessa e non ci sono giorni, mesi, anni. Poi la decadenza della stessa terra ha la figura di un corpo afflitto da vecchiaia (olivi scheletrici, viti prostrate) e gli animali annidati in colture abbandonate la devastano, sembrano i dolori che infestano la carne durante il giorno e le notti insonni. È un lento disabitare il mondo, rendere le pietre di casa, i legni del focolare, le proprie ossa. Unica eccezione il falcone, l’anima che, pur nell’offuscamento delle facoltà («angry clouds thick piled»), con fiera risolutezza vigila, ultima presenza tra le rovine del corpo e del paesaggio. In chiave spirituale, l’accumularsi dei nomi (rosa da siepe e malerbe, talpe, falconi, puzzole, porcospini e cinghiali) fonda il correlativo oggettivo di un’ascesi in cui l’intrico dei tralci e le selvatiche creature assumono la forma di demoniache tentazioni o dubbi. Questa tecnica non è peraltro nuova in Russell, ma viene da lontano. In On his painting of the eclipse of the sun (for Janko Brašić), datata 4 agosto 1968 e presente in The golden chain, la pittura di un quadro fornisce gli elementi per descrivere l’agonia del mondo, sul quale si aggira solitaria una volpe rossa e la domanda conclusiva va da sé: «Will the light come – now?»

Se, come suggerisce Frye, creazione, caduta, distruzione, esilio, redenzione e restaurazione sono archetipi biblici divenuti paradigmi della letteratura occidentale, per Russell la mente dell’illuminato (il poeta, l’eremita, il folle) deve attingere a un livello ancora più profondo. Il potere creativo dell’immaginazione risulta eredità divina nell’uomo. Così come «Dio si svela come evento linguistico» (Frye, The double vision), la letteratura può creare il mondo attraverso la parola, con ciò condividendo, nella poesia specialmente, il principio biblico. Nel vero capolavoro sono racchiusi mito (storia, narrazione) e metafora (figura del linguaggio). La ricerca di una continuità tra letteratura e vita attraverso la retorica della religione (Burke) non va però confusa con la rivelazione tout court di Dio, i cui molti appellativi sono altrettanti veli «[…] e la distesa annunzia l’opera delle sue mani» (Salmo XIX, 1). L’insieme delle percezioni del mondo concorre in un’unica visione delle cose, che è all’unisono sensoriale e spirituale, perché l’invisibile è ispirazione dietro lo schermo del visibile («True Spirit is the sense of everything», s. 4). Il Creato è l’immediata glorificazione di Dio e la solitudine e il silenzio, cari al poeta come al salmista, rappresentano condizioni ideali per rimuovere l’ostacolo e accedere col cuore all’evidenza. Anche il solo manifestarsi di una nota più acuta ai sensi può costituire uno strappo, confondere l’occhio del profeta. Ciò non significa accrescere la propria virtù sotto lo sguardo giudice di un Dio antropomorfo, il Dio delle religioni rivelate. L’accurato studio e disposizione dei motivi biblici non tragga in inganno e valga a parziale contrappeso lo scetticismo dell’intonazione, la frequenza di ben altri temi e simbologie pagane («for all my guides are godlike Avatars», s. 21): le Dee Gatte e la piramide (s. 19), la Fenice, Orfeo e le Muse. Le figure del mito (tutte) costituiscono inevitabili attrattori per il poeta, sono cariche di disperata bellezza, specie quelle più marginali o sfibrate nell’immaginario collettivo, la cui decifrazione è impervia, vertiginosa. Riappropriarsene non è riconciliare esteriormente parola e mito, ma vero esercizio di conoscenza e dichiarazione forte di poetica «[…] anything arcane will beat the brow / of the most instructed scholars of today» (s. 15).

Nel sonetto 36 l’ambivalenza del sacro è espressa in complessi intrecci e rimandi alla simbologia mariana. La «Virgin nakedness, clothed with the wind and the stars/ beyond the thought of the poor banausic man» è Maria e il tabernacolo del divino Sole, il neonato in fasce, sono altrettante figure del Cristo. L’intera composizione è racchiusa tra due immagini di vento che – annota Bisso – non è semplice agitazione di pulviscolo e molecole, ma «motore di rinnovamento, musica e movimento cosmico», manifestazione di un intelletto che ricorda il nous presocratico e il soffio della creazione.

La parola ispirata, «[…] the demands of the Sublime» (s. 1), richiede fatica, è percepita in società come spreco di tempo, perché non genera profitto, non è distrazione utile allo spettacolo: «I’ve spent my all on poetry at a cost/ people consider crazed» (s. 1) e ancora «[…] wealth alone can keep misfortunes distant» (s. 3). Essa non ha però valore solo teologale, ma è il connettivo tra lo spirito dell’uomo e il tutto in cui si pongono le distinzioni. L’epifania non è solo folgorazione nel distraction fit eliotiano, immediatezza nella percezione, ma piena fusione di luce e mondo, intuizione sovrasensibile dell’equivalenza delle parti («All things are simultaneous in the soul,/ but few at any time the things we feel», s. 25). Molti si perdono nell’attesa di una rivelazione che scopra agli occhi più minute cose, mentre la vera rivelazione toglie ogni cosa dal mondo, è la pienezza della luce non il suo riflesso sullo schermo, la luce ordinatrice del caos primordiale, in cui versava la materia prima di ricevere ispirazione.

Il sonetto 19 si apre con un bestiario quasi arcimboldesco, secondo una tecnica già registrata nel sonetto 13, il cui effetto è sia di evocazione arcaica della scena attraverso il suono, sia di stratificazione mitica. Domina la figura di sette gatte a presidio della dimora solitaria del poeta, in un’atmosfera cesellata nell’ombra, nell’opacità dei secoli, nell’offesa del tempo alla Luce. Ciò prepara la seconda strofa in cui i termini di paragone, su scala diversa dal quotidiano, sono epifanie universali. La luce vibra della luce “dentro” l’universo, quella di milioni di stelle. È luce rivolta all’interiorità del mondo, perché nulla vi è di conoscibile all’esterno. L’universo stesso assume le sembianze di una casa su cui vegliano dee gatte contro l’eccitazione nervosa della solitudine: è quasi il Pound dei Cantos («the great periplum brings in the stars to our shore»). Lo spessore simbolico del linguaggio si svela in alcuni termini portanti, che sfondano la superficie del testo, aprendo varchi improvvisi, voragini la cui profondità è appena sondabile con l’eco. Il primo verso («seven savage wild cats guard my lone abode») richiama nel 7 l’anima mundi platonica, la perfezione nell’equilibrio, il rinnovamento compiuto in ogni ciclo. E sette sono le virtù e i peccati capitali, gli dei della felicità di shintoismo e buddhismo, gli attributi fondamentali di Allah, i doni dello Spirito Santo, i dolori di Maria e i sacramenti, le opere di misericordia, i chakra, i Rishi dell’Induismo, i metalli nella trasmutazione alchemica, i mesi di trentuno giorni e i giorni della settimana, sette è il numero dell’Apocalisse e, nell’antico Egitto, della piramide (triangolo su quadrato), architettura legata alla geografia celeste. Il gatto è creatura della Luna per la sua chiaroveggenza nelle tenebre, quindi tramite coi piani invisibili del mondo, così come la piramide, il cui termine sembra significhi ‘luogo dell’ascensione’, rappresenta il contatto tra l’umano e il sovrumano, figura di una fiamma spirituale che si alimenta nell’invisibile. I simboli così si sdoppiano, si replicano all’infinito, si ricongiungono lontano dalla superficie prima di riaffiorare in un punto diverso del testo. Il tormento dell’uomo è la dicotomia tra l’anima, sintesi del tutto, e la percezione delle cose separate, sempre più rarefatte nel mondo.

Questa idea ritorna nel sonetto 21, nella deriva di elementi di natura e mito verso il petto, l’interno del corpo, accomunati dal tratto unico (reale o traslato) del fuoco, dell’illuminazione (le stelle, le galassie, l’Empireo senza tempo, la Fenice, il monte delle Muse ecc.), come a ricercare in un crogiolo alchemico l’unità del tutto oltre le passioni («where nothing hateful jars»). Nell’ultima stanza la piramide è però figura dell’ascesa, al cui vertice, catalizzatore non più dell’energia dei cieli, ma delle voci e delle lingue del passato, si giunge per illuminazione («all language of the past charges my pen»). L’evocazione leopardiana dell’infinito nel sonetto 23 («imagination is the Unconfined») non nasce dalla pratica fantastica della lingua poetica, ma da un sogno che tiene la Ragione sempre pronta a cogliere le rivelazioni della mente universale, della divinità che soffia nella bocca dell’uomo e ispira poesia e vita. La fusione del tempo passato e del tempo futuro, già elaborata da Eliot in apertura di Burnt Norton, ha qui nuova veste in un pezzo di vetro fuso, opera di fuoco e di illuminazione intensa, e costruisce una complessa immagine dicroica della profonda asimmetria del tempo, opaco nella direzione in cui scorre (imprevedibile, incalcolabile), più fulgido sul passato, pur offuscandosi a distanza nella memoria. Intuire l’eternità richiede di scavalcare l’esperienza delle ore e dei giorni come fatti separati e consequenziali. Quello che in The Dry Salvages è occupazione per Santi («the point of intersection of the timeless/ with time […]»), o dato ai più nei rari momenti di distrazione, deve invece fondare un diverso sentimento del tempo, estraneo a quello imposto dalla nascita («squalid events through which false time has run/ to the end», s. 36). «When all is Balanced with the All, it’s balm» (s. 25): «La beatitudine sarebbe/ saper pesare il tutto con il Tutto» (s. 25).

In questa questa visione sintetica dell’esperienza, coesistere con l’idea della morte è uno dei tratti che rende l’uomo tragicamente diverso dall’animale («nothing disturbs them, nothing more emphatic/ than need to feed and couple, life is static/for them[…]», s. 25) e apre a un’idea gnostica della salvezza, che si stacca dai percorsi di rigida osservanza dei mitzrot giudaici o dalla dialettica cristiana di Fede, Opera e Grazia. Se, come osserva Bisso, «[…] i Sonnets sono, insieme, un testo di congedo», si può forse trovare anche un contatto tra la simbologia della luce in Russell e quella dell’ombra nel Saenz di Percorrere questa distanza, dove l’esperienza della morte in vita si rinnova in un continuo farsi addio attraverso il corpo.

Come le donne di Canterbury presagiscono il futuro in una sorta di malessere fisico, il sentimento del tempo s’incarna in Russell nell’angoscia, ossia dolore (nel presente) e paura (nel futuro) inscindibili, poiché ogni presente è posto in vista del futuro e l’ora specialmente illude («the hour is always threatening, anguished, baiting», s. 25). Altrove il passato appare serbatoio di tutte le cose, risucchiate a ritroso dalla forza dell’addio, mentre un presente impalpabile cancella il futuro («the trouble is that everything is past,/ present impalpabe, the future non-existent», s. 3).

Il sonetto 2 stabilisce chiaramente la non appartenenza del tempo all’uomo, nella tragica appartenenza dell’uomo al tempo, così che qualsiasi impresa resta incompiuta, qualsiasi promessa compiuta solo nell’intenzione e ogni cosa si sciupa per uno o molti difetti. Il contatto col tempo porta il peso della fine, frantuma gesti e luoghi in attimi e punti.

Anche la libera associazione di entropia mentale e Caduta non crea solo un suggestivo cortocircuito tra fisiologia/fisica ed escatologia/mito, ma tenta di spostare la Storia su una linea del tempo che abolisce i concetti di anticipo, puntualità, ritardo («nothing in time and everything too late», s. 2), quindi nuovamente le tre categorie di passato, presente e futuro («and to repose in time that is no time/ a spell […]», s. 9). Ciò avviene in chiara contrapposizione alla logica della Resurrezione che, con un processo antientropico, ripristinerebbe lo status quo paradisiaco, rompendo il perpetuo ciclico di ritorno delle cose nelle cose.

L’uomo entra nella Storia con la disobbedienza di Adamo e la perfezione diviene meta irraggiungibile: «it’s not for us, like moralists, to bring/ charges that only aggravate the Fall,/ Mankind’s dark sojurn in the Universe» (s. 4). La condanna è ribadita nella giusta contrapposizione tra stato di natura e contratto sociale, in cui l’organizzazione in comunità e la separazione dei beni alimentano l’avidità («possessions being undesirable», s. 40), solleticano i bassi istinti delle masse («[…] the life of man is crass,/ lived by the mass […]», s. 23 e ancora «[…] so long as there’s a roast to carve/ the workman thinks of nothing but its wages», s. 41). Allora «it’s natural for Man to want the All» (s. 2), mentre agli animali è sufficiente avere abbastanza giorno per giorno così che «[…] they don’t see the whole,/ only what’s present here and now, what’s ‘real’,/ they have no choice and therefore have no qualm» (s. 25).

L’invettiva contro le religioni di mercato e i loro materialistici valori di “scambio” («all values now to market rates confined,/ and the white light of consciusness put out», s. 24) si realizza nelle miniature caricaturali del sonetto 24, che ritrae l’Occidente dell’Euro come un luogo in cui la santità ha un prezzo, Dio è battuto all’asta nella Città Santa e al posto delle caverne degli eremiti stanno caveau blindati, non ci sono folli, vagabondi, dissidenti nei boschi, la diversità è ricondotta a un’ordinata schiavitù senza grazia a colpi di bastone e i soldati sono moderni pastori di un’orda di muli. La lingua poetica esaspera il gergo grottesco dell’economia. Il culto terminale dello Stato sostituisce la fervida aderenza dell’immaginazione all’universo, esprime l’irreversibile cecità di un individuo ormai senza ragione («blind as mole or bat to imagining», s. 31). Ai tanti affanni, ai dolori, alle tristezze non v’è rimedio senza denaro («so may woes, so many sadnesses,/ so many debts, so many needs, so many/ hopes for tomorrow, blocked, and not a penny», s. 35): non resta che sparire o accelerare la resa dei conti muovendo controcorrente. È una sentenza di condanna al suicidio quella che Russell indirizza all’uomo moderno, «trapped in the gaudy wrapping he himself once span» (s. 36). La sfiducia in una vera forma di progresso e rinnovamento dall’interno della società torna nel tema del sonetto 32. Il programma unico per l’intera nazione, inquietante dicitura orwelliana, si realizza nell’Inghilterra delle classi, nell’imitazione doverosa e ripetitiva della vita insegnata a scuola, che porta alla perfetta identificazione dell’individuo con il suddito-consumatore. La decomposizione sociale, intellettuale e spirituale è simboleggiata dalla rosa coltivata in un vaso (quella bianca degli York, quella rossa dei Lancaster, quella mistica) e dalla quercia corrotta alle radici, il cui legno indicava anticamente la porta esterna delle università, ossia il sapere nella sua più solida espressione. La scala dei valori è fissata da una burocrazia marcita (s. 35), i compiti assegnati servono solo a consolidare un sistema immutabile («the teachers merely press the stated knobs» s. 32) e la diversità consiste nell’omologare individui incapaci di comunicare. La persuasione alla ‘libertà’ è subdola come per la tentazione di Eva, opera di un demiurgo inetto (un insegnante, un politico, un affabulatore) che forgia idee da quattro soldi senza essere a contatto con la matrice spirituale delle origini. Ma la ‘libertà’ così supinamente acquisita manca della viva autorità che le conferiscono le idee e la lotta, che chiedono almeno un confronto con la propria aspirazione. Lo sguardo via via si posa su una trafila di clienti, beccamorti, protettori, assessori, ciarlatani, sulle folle destinate a un pellegrinaggio senza premio (s. 40), su quelle che anziché virtù sono miserie umane, si fa impietoso senza distinzioni in «theorists and professors of the low degrees/ writing absolute zeroes in small rings» e ancora in «no one, it seems, has any purpose now/ unless to pile up money, corner power,/ or to become the hero of an hour,/ the passive victim of publicity» (s. 39).

È quasi l’esodo di un’altra Unreal city, dove «[…] each man fixed his eyes before his feet», fosca rappresentazione di una democrazia en masse, di un esercito di sconfitti che scivola anonimo nell’ombra decorato dalla Storia.


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