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Annotazioni sulle traduzioni letterarie dal norreno

di Marcello Meli


Non ricordo con chiarezza cosa abbia detto nell’occasione per la quale mi si chiede un breve contributo scritto. Certamente avrò accennato alla soddisfazione di trovarmi in buona compagnia in una città bella e illustre e anche all’attività di Maria Cristina Lombardi che discute da anni di traduzione e relative tecniche con i suoi studenti in un vero e proprio laboratorio. In ogni caso, fra le molte e certamente troppe cose di cui mi occupo, è presente la traduzione da un punto di vista brutale, poiché sono un traduttore senza alcuna attenzione, devo confessarlo, alla teoria. La traduttologia non mi ha mai affascinato né dal punto di vista teorico né dal punto di vista storico, sebbene teoria e storia della traduzione siano sfere di ricerca di non poco spessore. In due recenti articoli1 ho elencato i principali contributi di studiosi illustri e meno illustri alla traduzione di testi scandinavi medievali in Italia2, col fine di mostrare come la conoscenza dei testi norreni sia recentissima nel nostro paese, abbracciando il trentennio che va dagli anni Cinquanta agli Ottanta. A questi articoli rimando chi desiderasse avere informazioni e ragguagli maggiori. Sono, dunque, un traduttore, ma in una maniera definita e non generale, giacchè traduco avendo in mente un pubblico di livello culturale medio-alto; del resto sono un professore d’Università e questa impronta resta nella sostanza e nel metodo. La scarsa preoccupazione che denuncio per la teoria nasce dalla mia condizione di studioso e dal fatto che ritengo essere la traduzione techne e non episteme. Il traduttore, come l’intendo io, è qualcuno che fa, senza riflettere troppo su cosa fa. Gli basta conoscere bene la lingua d’origine e ancora meglio la cultura che questa lingua esprime e la lingua di destinazione, in questo caso l’italiano, riguardo alla quale il traduttore accorto non dovrà trascurare il registro da utilizzare accanto alle presunte competenze del lettore, al quale conviene dar fiducia e farlo più colto di quanto non possa essere. Conviene mirare in alto. Porto un esempio lessicale per delucidazione. In norreno il sostantivo vinr viene solitamente tradotto ‘amico’, ma il termine riguarda una collocazione non meno sociale che affettiva. L’italiano ha a disposizione ‘sodale’, che sarebbe una traduzione efficace, ma è parola desueta e ai nostri orecchi fors’anche tronfia. Ha il traduttore a disposizione qualcosa d’altro? Certamente, basta cercare e si trova ‘alleato’, che costituirebbe una scelta lessicale forse più incisiva dell’originale, ma certamente più immediata. Anche la forma in cui si traduce può avere rilevanza. Recentemente, in occasione di un volume gratulatorio per un collega celebrandone il pensionamento, mi sono avventurato in una traduzione di sette elegie anglosassoni3, fra le quali ho inserito il testo che nell’occasione del nostro Festival è stato letto. Ho, dunque, tradotto le elegie in endecasillabi, versi che, se non formalmente ma almeno funzionalmente, corrispondono ai versi allitterativi germanici. Come traduttore non mi sono posto alcun problema teorico. Mi sono semplicemente affidato alla competenza linguistica anglosassone e alla mia conoscenza della lingua italiana, della sua grammatica, del suo lessico e delle sue forme.

Capisco che per i giovani studiosi tutto questo appaia troppo semplice, disarmante e senz’altro ingenuo, abituati come sono ad abbeverarsi alla letteratura scientifica inglese o americana, e finanche tedesca, dove prima di avventurarsi in un campo occorre elaborare un metodo, sviluppare una teoria, soppesarne i vantaggi e gli svantaggi, col frequente risultato di scoprire che il campo è fatto di fili d’erba oppure di discutere all’infinito il metodo senza mai varcare il limite del bosco. Trovo che il traduttore sia un Waldgänger, un Partisan piuttosto che un Parteigänger, letterato irregolare, mobilissimo e imprendibile, consapevole della propria fede politico-culturale, profondamente radicato nella lingua patria della quale conosce per esperienza a perfezione la mappa. Qualcuno insomma che combatte senza elaborare strategie e tattiche utili a imbrattare le carte dell’Alto Comando e che perciò ha anche consapevolezza del proprio nemico: chi voglia imbrigliare la traduzione in regole, schemi, strutture più o meno profonde.

Ortuttavia, poiché bisogna essere modesti e non cedere al titanismo di posizioni in cui il filosofo cede allo ierofante, sarà concesso anche a me di fare un po’ di teoria e sbugiardare quanto ho fin qui sostenuto con l’impudenza di chi vede tramontare la propria epoca. È indubbio che il traduttore, affrontando un testo, si avvia in una foresta, tanto più fitta quanto più il testo appare lontano dalla sua esperienza culturale. Di questo testo deve farne un altro. Non può lasciarlo identico, altrimenti lo riprodurebbe come il celebre personaggio di Borges che riscrive il Don Chisciotte. Nemmeno può tradurlo meccanicamente, sebbene il risultato possa essere esilarante secondo l’esperienza che ciascuno è in grado di fare applicando i traduttori elettronici a disposizione in rete. Fra questi due punti estremi il pendolo oscilla con archi più ristretti che meglio si adattano a dare l’idea di una certa stabilità. Dunque, il traduttore costruisce un nuovo testo utilizzando alcuni materiali del primo. Per avventurarsi nella selva del testo d’origine ha dunque bisogno di strumenti adatti a modellarne la materia e a renderla idonea per il nuovo edificio. Gli strumenti saranno tutti quelli utili alla bisogna, ma principalmente una falce, un’ascia, manici resistenti per gli oggetti in metallo, zeppe e giunchi per legare conoscenza della lingua d’origine, capacità di togliere quanto è superfluo alla lingua di destinazione per via della morfologia, nuovi supporti per l’arrangiamento stilistico e sintattico. Ora il traduttore si avventura nel bosco, del quale sarà capace di ammirare la bellezza, concentrandosi sui migliori alberi da considerare, espressioni da interpretare e preservare, raffinatezze da traslare, e così via. Il traduttore potrebbe considerare ogni elemento della lingua d’origine, tentato di farne un calco, ma deve essere sufficientemente intelligente da capire che il lavoro si rivelerebbe inutile perché poco comprensibile, meglio sarebbe che osservasse ogni albero della selva e ne estraesse le fronde più eleganti e i rampi più resistenti. Il traduttore, dunque, non riscrive semplicemente, ma crea un nuovo testo coi materiali più fini e robusti offertigli dal testo originario. Carico, dunque, del materiale scelto a sommo studio, lascerà la selva. Ora è pronto a costruire un edificio. Il testo d’origine è qualcosa di completamente sconosciuto al traduttore e al lettore che non ne conosca la lingua e la cultura, sicchè davvero gli pare una selva informe, tuttavia non priva di una sua coerenza e bellezza riconoscibile nella diversa qualità dei materiali. La traduzione è per forza un edificio che prima non c’era. La selva sarà edificio per l’appartenente alla lingua e cultura d’origine, ma non può esserlo per il traduttore coscenzioso. Il traduttore trasporta materiale scelto e ricostruisce. Tutto qui.

Ecco, dunque, il nostro traduttore uscire dal testo originario, carico di materiali accuratamente selezionati. L’ha letto o lo sta leggendo e periodo per periodo avrà compiuto scelte, tralasciando, aggiungendo, arrangiando, talvolta inventando, nel senso buono del termine che richiede di provare, riprovare, escogitare. Il testo di destinazione, chiamiamolo così, dovrà essere racchiuso da un buon recinto, che lo distingua da quanto lo circondi e ne segnali la presenza, un buon titolo, dunque, e una prefazione adeguata. All’interno l’edificio dovrà essere costruito solidamente tanto da resistere al caldo e al freddo perché certi lettori, specialmente i prevenuti ostili e i critici, questi inutili Zaungäste che nulla fanno e tutto rimproverano in base alla teoria, sono capaci di minare un edificio malcostruito e difettoso. Ma una buona traduzione, elegante e ben costruita, è capace di resistere anche agli sguardi degli sfaccendati più polemici.

Che razza di teoria è questa? – dirà qualcuno. Avrebbe ragione. Mi accorgo anche qui di aver tradotto, e in maniera assolutamente tendenziosa. Si tratta Marcello Meli 45 XLVII 02/2012 La Resistenza dell’Antico della prefazione ai Soliloquia di Agostino4 del re anglosassone Alfredo il Grande, l’unico fra i sovrani della sceptr’d isle a meritare questo titolo, il più grande traduttore dell’alto Medioevo. Alfredo traduce o supervisiona la traduzione di alcuni fra i testi più significativi della tarda antichità e dell’alto Medioevo dal latino in anglosassone. Era in grado di farlo egregiamente poiché, prima di salire fortunosamente al trono, aveva studiato da prete, meglio da vescovo considerandone il rango principesco. Nella seconda metà del secolo IX l’Inghilterra è devastata dai Vichinghi le cui razzie sconvolgono l’originario equilibrio della Eptarchia Aglosassone preludendo a insediamenti stabili e, comunque, a un influsso militare e politico che minaccia la stessa sopravvivenza anglosassone. Alfredo risponde allo sfaldamento politico e sociale organizzando nel suo regno, che abbracciava sostanzialmente il Wessex, un’amministrazione efficiente, un esercito mobile nella manovra e motivato dalle circostanze avverse, una marina a presidio delle coste. Il re avverte che la sua operosità politica e militare non è sufficiente. Avvia dunque un ampio progetto culturale del quale la traduzione in anglosassone della Consolazione della filosofia di Boezio, della Cura Pastorale di Gregorio Magno, delle Storie di Orosio, della Storia Ecclesiastica degl’Inglesi di Beda, dei Soliloqui di Agostino costituiscono l’ossatura.

Su questa opera di traduzione molto è stato scritto circa il metodo, l’accuratezza, la finalità, tralasciando forse il senso più profondo. Innanzitutto le traduzioni di Alfredo sono funzionali alla fondazione di uno stato che prima non c’era. Alfredo non trapianta la cultura latina alto-medievale – o almeno quella parte che lui ritiene essenziale al suo scopo – in terra iglese, ma la fa crescere in una lingua nuova. Alfredo crea una lingua, forse la prima lingua letteraria d’Europa, per dar voce a quanto muta nel suo tempo. Nel far questo attinge a una lingua che c’era, ma alla quale la classe colta mal s’affidava preferendole il latino, la koinè europea. Si osservi che l’anglosassone di Alfredo è lingua della provincia non capita dagl’intellettuali d’altrove, un po’ come l’italiano degli ultimi anni nei confronti dell’inglese, di quell’inglese che Alfredo creò e che, nel progetto se non nella forma, sopravvisse ai Normanni del Conquistatore, al latino del Rinascimento e un po’ anche all’italiano, fino all’odierno dilagare. Non conviene, dunque, guardare con sufficienza la traduzione.

Vorrei infine dedicare alcune considerazioni sulle traduzioni, indipendentemente dal loro testo di origine. Si può dire che la traduzione letteraria aumenti le nostre capacità linguistiche. Il traduttore manovra la propria la lingua e, più traduce, più ne acquisisce padronanza. In questo senso, il traduttore è uno scrittore in proprio, ma non può scrivere per se stesso, con fini terapeutici per esempio, ma deve comunque rivolgersi a qualcuno. Questo è particolarmente evidente per la traduzione letteraria, della quale prevedo un radicale declino, se non la fine per quanto gloriosa, poiché il nostro lessico, la nostra sintassi, la nostra capacità di argomentare e riconoscere le argomentazioni altrui si corrompe irrimediabilmente. Il fatto che il traduttore debba rivolgersi a qualcuno significa che deve tener presenti le competenze linguistiche del suo lettore. Nel caso della traduzione letteraria, il traduttore si rivolge a un pubblico culturalmente affinato, se non raffinato, che conosce i modelli della tradizione letteraria italiana, latina e greca antica. Conosce anche il registro di termini come ‘procella’, ‘fortunale’, ‘carnale vagina’ e, se traduco ‘incidi questi segni sopra il remo / perché su te non si richiuda il mare’, un verso norreno realmente esistente, oppure ‘per l’alto mare aperto’ il lettore dovrà cogliere che imito Dante, con quale effetto sta a lui giudicare.

È mio parere ed esperienza che la competenza linguistica e culturale che ha contraddistinto questo paese per secoli si vada sfilacciando e temo che che ormai si riduca a ectoplasma impalpabile. La colpa di questa situazione mi pare dovuta a un altro tipo di traduzione, che predilige la versione inglese di quanto si può dire nella nostra lingua. Si privilegia oggi chi scrive nell’inglese ‘scientifico’ piuttosto che in italiano, adducendo il pretesto che in tal modo sarebbe favorito il dibattito internazionale. Il fatto si mostra pernicioso quando riguarda le scienze umane. Ormai si invitano i ricercatori a scrivere in inglese, privilegiando la comunicazione internazionale e i relativi modelli scientifici a una elaborazione nella nostra lingua di proposte e contributi. Eppure nella storia moderna dell’Europa quanto è stato elaborato nella nostra lingua e nelle arti e nelle scienze ha avuto successo. Niente ha impedito a Galileo di scrivere in ottimo italiano, e scherzosamente in buon pavano quando insegnava nella mia Università, e di rivoluzionare la fisica. Il fatto che si trovasse a pensare e a elaborare in italiano non solo non è stato d’impedimento ma di sviluppo e, come si dice oggi, innovazione. Noi attingiamo al nostro passato, alla no stra tradizione culturale e alla nostra lingua, nella quale passato e tradizione si fanno evidenti. La difesa della nostra lingua dovrebbe essere un obbligo e pazienza se inglesi e americani non ci leggono. La cosa che mi pare importante è crescere dalle nostre radici. Come certe piante, il pensiero, tolto alla lingua dei Padri, tollera male i trapianti. Non vi annoio più, e qui concludo, con una citazione e, ancora forse, una speranza:

Selbst in Epochen, in denen die Sprache zum Mittel von Technikern und Bürokraten herabgesunken ist, und wo sie, um Frische vorzutäuschen, beim Rotwelsch Anleihen versucht, bleibt sie in ihrer ruhenden Macht ganz ungeschwächt. Das Graue, Verstaubte haftet nur ihrer Oberfläche an. Wer tiefer gräbt, erreicht in jeder Wüste die brunnenführende Schicht. Und mit den Wassern steigt neue Fruchtbarkeit herauf5.

E con una traduzione:

Eppure, anche in epoche, in cui la lingua è ridotta a strumento di tecnici e burocrati, finanche laddove, per simulare freschezza, mutui dal lessico di accattoni forestieri, permane, per nulla affievolita nella sua quieta potenza. Il grigiore, la polvere accumulata ne incrosta appena la superficie. Chi più a fondo scava, come che arido trovi il terreno, raggiunge uno strato che mette al pozzo. E con l’acqua nuova fertilità risale.


M. Meli, Il contributo di Piergiuseppe Scardigli allo studio della tradizione norrena, in Saggi in onore di Piergiuseppe Scardigli, a cura di Patrizia Lendinara, Fabrizio D. Raschellà e Michael Dallapiazza, Bern 2011; Id., Tradurre le saghe in italiano, in «AION - Sez. Germanica» 20, 1-2 (2011), pp. 55- 69. Quest’ultimo contributo è il risultato di un colloquio sulla traduzione tenuto proprio a Napoli nell’ambito della meritoria opera di Maria Cristina Lombardi.
Aggiungo ai due articoli succitati il volume di Laxdæla saga: la saga della gente della valle del fiume del salmone, a cura di Guðrún S. Sigurðardóttir, Milano 1995.
M. Meli, Sette elegie anglosassoni tradotte, in MedieVaria. Un liber amicorum per Giuseppe Brunetti, a cura di Alessandra Petrina, Padova 2011, pp. 3-22.
Vedine il testo in King Alfred’s Version of St. Augustine Soliloquies, a cura di Thomas A. Carnicelli, Cambridge (Mass.) 1969, pp. 47-8. Se ne può trovare una traduzione inglese in Henry Lee Hargrove, King Alfred’s Old English Version of St. Augustine’s Soliloquies turned into Modern English, New York 1904, pp. 1-2.
Ernst Jünger, Der waldgang, Frankfurt am Main 1951, pp. 140-1.


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