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Semicerchio XXXIX (2008/02) Waste Lands. Eliot & Dante. pp. 28-33

 

di Luigi Tassoni

«Così Dante, dappertutto, offre qualche cosa: ma forse (tu se’ ombra, ed ombra vedi), anche per i lettori che non possiedono l’italiano»,2 ammette Eliot nel Bosco sacro, deplorando fra l’altro la «fatuità del lettore pigro». Se l’opera di Dante si offre ad un lettore d’eccezione, tutt’altro che pigro, qual è Eliot, come fonte per la memoria che ne proietta frammenti entro la scrittura in verso, come puntello
per il discorso (l’hanno dimostrato legioni di critici), non è solamente allo specifico intertestuale che dobbiamo ricorrere per comprendere, se possibile, una relazione fra due universi della scrittura poetica così distanti nel tempo. Del resto, noi lettori d’oggi, di fronte alle pagine critiche di Eliot, ne godiamo prima di tutto la consapevolezza di un poeta che fa i conti con le proprie scelte, i riferimenti,
la consistenza formale e gli orientamenti concreti del linguaggio; attenzione che, come in uno specchio riflettente e nel suo ruolo di lettore coinvolto, Eliot sorveglia soprattutto nel poeta prediletto: a lui solo era concesso non sprecare energie in quelle ricerche formali sperimentate invece dai suoi contemporanei e predecessori.3 Dunque, oltre il dato elementare e quasi ovvio di una lettura consapevole e non pigra dei classici, interessata in direzione di un laboratorio, si deve ammettere che l’opera di Dante ha qui valore di ipotesto.
Un elemento fondamentale sta all’origine della poesia di Eliot, distinguibile in due aspetti complementari e inscindibili: 1. l’attenzione ad un presente che è costretto a vivere la propria tragicità come forma irrisolvibile, dimostrazione dell’irraggiungibilità di un ordine esistente, come immagine della storia umana frammentaria, ma con un rovesciamento rispetto agli incontri danteschi nell’al di là,
vista come proiezione dalla parte della terra desolata, livida, secca, spenta, se non riconosce il proprio ‘verso dove’ né ritrova le proprie radici (cfr. The Waste Land, vv. 19-22); 2. in questa sospensione e attesa drammatica, Eliot rielabora per sé un’attenzione all’uso dell’allegoria specifica, e non generica, come riferimento diretto a quel codice segreto, inciso nel DNA dell’epoca contemporanea (cfr. The Hollow Men, V, vv. 5-9). L’ombra, se non percepita, crea questa allegoria della frattura, della separazione, in un insieme di non percezione della storia, perché e se la storia è una trama di momenti senza tempo (cfr. Little Gidding, in Four Quartets, V, vv. 21-22).
D’altra parte Eliot come lettore di Dante si pone prima di tutto di fronte a un banco di prova sperimentale che sia in grado di orientare la propria attitudine alla poesia. Dunque, non solo un macrotesto quanto un codice esemplare che, se ben interpretato, sia capace di istruire intorno ai pericoli del pregiudizio della lettura e dei limiti della scrittura poetica. È significativo che nel saggio su Dante del 1929, di cui parleremo più avanti, egli riveli un iniziale e personale pregiudizio, «quello per cui la poesia non solo va cercata attraverso la sofferenza, ma è dentro la sofferenza che trova la propria materia».4 D’accordo: per la poesia di Eliot, Dante «dappertutto offre qualcosa», ma qualcosa che emerge e, manipolato, si ambienta nell’affascinante scenario eliotiano, costituito da dinamiche e mescolanze, rispetto
alle quali l’impalcatura (è termine eliotiano), il percorso che sta sotto, consente addirittura la spinta verso la visione trasgressiva e tragica del presente. Dobbiamo
tener conto che vi sono differenti punti di vista per gli scrittori del Novecento rispetto a questa ‘offerta’ dantesca.Vediamone brevemente alcuni. A partire dalle bellissime pagine che Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha dedicato alla presenza sotterranea e solida di Dante nella scrittura di Eliot: ad esempio, a proposito di Ash Wednesday, parla di spirali dantesche nel formarsi del testo, in una sintonia di
azioni e movimenti fra le due distinte poetiche.5 Anche Samuel Beckett nel suo legame con Dante cerca la concretezza e la tangibilità degli spazi, solo che ne risulta nettamente estromesso il peso qualitativo dato da Eliot all’ambiente delle tre cantiche, soprattutto per il Purgatorio (che Eliot intende come «la cantica più difficile perché è di passaggio»)6, descritto invece da Beckett come fondamentale
«corrente di movimento e di vitalità», simile a «questa terra, che è purgatorio, vizio e virtù».7 In sintonia con la semplicità e comprensibilità del «metodo allegorico
», così detto da Eliot,8 è nella sua generazione il poeta ungherese che traduce la Divina Commedia, Mihály Babits, che sottolinea: «Così il poeta rovesciava le evanescenti stazioni della storia dell’anima dal tempo interiore allo spazio esterno, dove acquistavano una determinazione precisa e una chiara articolazione».9 Inoltre, se per Eliot «la Divina Commedia è una gamma completa di altezze e di abissi delle emozioni umane»,10 un tutto unico di relazioni fra le parti, di pari passo per il suo coetaneo Ungaretti «tutto nell’universo dantesco, dagli ultimi bassifondi infernali al cielo più sublime, è regolato e ordinato rigorosamente su un’unica misura. Divina per lui, un altro potrà semplicemente chiamarla ideale».11
Con la breve sinossi abbiamo toccato tre livelli di uno stesso problema che coinvolge il linguaggio della poesia contemporanea. Per Babits e Ungaretti è comunque la parola che, nella salda radice dantesca, mantiene la sua possibilità
di significare al di là del significato, motivandosi nel simbolo stesso di un’unità coerente perduta; per Beckett lo slittamento nel non senso è l’atto necessario in opposizione alla mente allegorica medievale; Eliot, come poeta e lettore, vede da lontano la fiducia nella rassicurante opera di riferimento motivato e comprensibile dell’allegoria, e sviluppa una forma di relazione alle apparenze del mondo, forma che, se non può garantire la certezza dell’allegoria, almeno tenta di scongiurare o drammatizzare la dispersione del senso. Perché, in effetti, che cos’è l’allegoria
medievale tanto cara a Eliot? Un meccanismo rassicurante: Paul Zumthor ne ha sottolineato il carattere razionale, opposto al simbolismo, e il riferimento ad una
struttura della verità fissa, oggettiva, spiegabile;12 e Adelia Noferi la considera un congegno rassicurante e perfetto, elaborato dalla cultura medievale per arginare, nel linguaggio, il pericolo dell’ambiguità della polisemia.13 Teniamo conto che per Dante, nel Convivio (II, 1), allegorico è «quello che si nasconde sotto il manto (delle) favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna». E nell’ Epistola
XIII
a Cangrande della Scala allarga la portata dell’allegoria a tutto ciò che è lontano dal senso letterale o storico («Nam allegoria dicitur ab ‘alleon’ grece, quod in latinum dicitur ‘alienum’, sive ‘diversum’»). Ed è sempre Dante a considerare che la metafora (qui Eliot, nel sancire l’inconciliabilità tra metafora e allegoria, ne segue l’insegnamento), come ha fatto notare Umberto Eco, fa parte del significato letterale,14 mentre l’allegoria è riconosciuta in verbis nelle interpretazioni del Convivio, e in factis nelle espressioni della su nominata lettera a Cangrande. Ciò
estende il dominio dell’allegoria: vuol dire – precisa Eco – che Dante «non ha mai cessato di leggere e i fatti della mitologia e le altre opere dei poeti classici come se fossero allegorie in factis».15 Specularmente per noi vuol dire che Eliot considera il testo della Commedia come se fosse un’allegoria in factis. Pensate alle tre fiere infernali di Ash Wednesday, e alla figura della Dama, che è un misto fra Beatrice e la Vergine del Paradiso.16 Esse vengono credute e riproposte in quanto allegorie, sebbene provenienti da un testo distante più di seicento anni, che a sua volta le assume come riferimento allegorico vero e incontestabile perché riconosciuto dall’ampio passato del Medioevo.
Se da una parte nel discorso della Commedia e nella rappresentatività dell’opera stessa, Eliot come lettore si troverà a tu per tu con una tale immagine rassicurante, unitaria, dotata di corrispondenze e di riferimenti che non possono essere scalfiti dalle incidenze del dubbio, dall’altra parte nella scrittura poetica farà e fa i conti con l’intollerabile lotta fra parole e significati, fra visibile e significabile (come scrive in East Coker, Four Quartets, II, vv. 20-21), perché adesso, nell’epoca delle macerie e dei «sogni umili», lontana dalle visioni medievali, è come se il poeta scoprisse un resto, un’eccedenza e sempre un senso imprevisto, che attraversano il discorso della poesia.

Devo a questo punto necessariamente scusarmi con il lettore, non pigro e certo consapevole della poesia di Eliot, per tante sintesi forzate, ma utili, speravo, a introdurre gli scritti integralmente dedicati da Eliot a Dante, che come sappiamo in tutta l’opera critica del poeta ha comunque una presenza massiccia distribuita in varie occasioni. Nel primo di questi scritti, una recensione del 1920,17 Eliot difende
sostanzialmente la posizione di una poesia moderna che sia anche «filosofica», in polemica con una apparente opposizione di Paul Valéry riguardo a questo aspetto. Se, con il senno di poi, comprendiamo la puntualizzazione di Valéry che dubita della necessità di speculare creando nozioni in poesia, dall’altra seguiamo il ragionamento di Eliot in manifesta dichiarazione di una poesia che in sé pensa. In che senso l’opera di Dante è filosofica e può interessarci? Nel senso che «la filosofia è essenziale alla struttura della poesia e che la struttura è essenziale alla bellezza poetica delle parti»,18 ovvero nel senso che anche per i contemporanei l’organizzazione del testo non può essere affidata alla mera casualità, che un disegno d’insieme risponde alle esigenze di un pensiero, un orientamento verso la totalità. L’intento è chiaro sin dalle prime battute: il poeta rifiuta l’effetto provvisorio che produce un certo stato (su questo poggia il sospetto di Valéry), una certa sensazione, e si rivolge alla struttura allegorica19 della Commedia (il dominio dell’allegoria copre per ora tutto il campo prospettico eliotiano), in quanto essa è in grado di assicurare un riferimento visibile ai «sentimenti» (termine ambiguo che indica da qui in avanti l’esperienza della coscienza umana così ampia in Dante), ne è anzi l’impalcatura necessaria.20 Perciò l’allegoria come impalcatura è necessaria per visualizzare e comprendere ciò che altrimenti, nelle infinite
sfumature delle possibilità umane, sfuggirebbe alla percezione del lettore. È interessante che per Eliot la gamma dei sentimenti umani, costante e relativa allo spazio designato dal personaggio, formi una scala ordinata nella quale «i sentimenti acquistano tutti un significato più limitato o magari più ampio per il posto che occupano nello schema».21 Ed è rilevante che questa sia la struttura consentita dall’impalcatura, ovvero dall’allegoria dinanzi alla quale non è tanto necessario che il lettore ne afferri il significato quanto che ne giustifichi la presenza. A parte la responsabilità protettiva dell’allegoria, qui scopriamo la predilezione per un lessico di riferimento (struttura, schema, impalcatura, scala), che insiste sull’insieme relazionale dell’opera, come a voler continuamente richiamare alla mente del lettore la necessità di non parcellizzare l’interesse per il testo, o peggio di non suddividerlo in valori di merito, o maggiore e minore suggestione, operazione dannosa perpetrata per decenni dalla critica dantesca. Il motivo interessa così tanto Eliot che vi insiste ripetutamente, chiarendo anche che, dato per scontato che a monte vi sia un mondo ordinato, secondo lui «scopo del poeta è affermare una visione»22, che è anche una visione della vita nella sua complessità ed eterogeneità, e per questo «è uno dei massimi meriti del poema dantesco che la visione sia quasi totale», e che per conoscerne le parti dobbiamo conoscere
contemporaneamente il tutto. La lettura di Dante procede in fin dei conti lungo tessere comparative interne all’opera. Il breve articolo, stretto su questo principio, si chiude sull’uso della filosofia trattata da Dante non come teoria, commento
o semplice riflessione, né tanto meno cornice o oggetto morto (specifica decisamente: «oggetti da natura morta e pezzi disparati da arredamento come in un magazzino teatrale»),23 ma come cosa percepita, quindi materia animata dal suo concretizzarsi nella parola poetica, nel discorso, nella narrazione.24
Di seguito a questa prima lettura tutta dantesca, l’interesse di Eliot per la Commedia si chiarisce e si distende, sicché ogni incontro con il linguaggio di Dante assume una connotazione implicitamente autoriflessiva. Non a caso il saggio del 1929 25 sposta più decisamente l’attenzione sull’esperienza del poeta lettore che è Eliot stesso, naturalmente, ed è anche Dante lettore, a proposito del quale l’invito è a non sopravvalutarne i debiti, e in più è il lettore-ascoltatore medievale capace di decodificare in modo del tutto indolore, senza sforzo, il cosiddetto «metodo
allegorico». Il saggio merita davvero attenzione più ravvicinata.
Per un lettore che abbia una non perfetta conoscenza della lingua italiana, come Eliot confessa a più riprese nei propri scritti, vale un grosso vantaggio, quello che sta alla base della ricezione del testo poetico, partita dall’ascolto fonoritmico inconsapevole di quanto i significanti premano verso un orientamento. Nel caso della Commedia, per Eliot si tratta di «gustare e capire», nel primo caso obbedendo ad un processo continuo di fascinazione, nel secondo approfondendo
le ragioni di uno shock, senza deviare «il desiderio di una conoscenza sempre più appagante»26. Ma la vera sorpresa è quella, divenuta ormai proverbiale fra le
impressioni eliotiane, dell’estrema facilità di lettura che Dante, mediatore anche di una cultura latino medievale, propone al lettore anglofono: il più europeo dei poeti27 crea una sorta di lingua comunicativa della poesia, un medium capace di trasmettere senso senza oscurità, in un’Europa che Eliot ritiene culturalmente unitaria, per cui si associa la relativa facilità di circolazione di una koinè comune
a un comune codice di appartenenza che trova il suo culmine nella semplicità e comprensibilità del metodo allegorico28, capace di assicurare tanto la «sincerità di linguaggio» quanto la «lucidità di stile».29 Saltuariamente la lettura di Eliot si addentra nelle ragioni testuali dell’allegoria dantesca, della quale il poeta apprezza gli effetti piuttosto che il funzionamento. L’ermeneutica eliotiana, se così può essere riassunta, nel caso di Dante, che è il maggior e più continuo terreno di ipotesi critiche, si arresta davanti ad una visione d’insieme, non ne ricerca le ragioni di fascinazione all’interno del testo della Commedia (sperimentata invece dalle letture specifiche di numerosi altri poeti europei contemporanei), e semmai rinsalda le manifestazioni di riconoscenza per un continuo magistero: «la poesia
di Dante rappresenta l’unica scuola universale di stile poetico valida per qualsiasi lingua»30. Eliot in effetti continua ad intendere il libro di Dante come ipotesto variamente in movimento sotto alla propria poetica, e comunque con quella buona percentuale di manipolazione, adattamento e ricontestualizzazione che l’ascolto pone alla riscrittura. È un vero peccato che solo in rari casi Eliot s’addentri al di là della superficie del testo: forse perché troppo chiaro e troppo vicino ad esso per poterlo commentare. Così come è un peccato che dedichi scarsissima attenzione alla riflessione di Dante in prosa e nei trattati, paradosso discriminante nei confronti proprio della «filosofia» dantesca.
Il punto di forza della lettura eliotiana sta nell’attenzione peculiare (e a tratti paradossale) rivolta all’immagine dantesca, un’immagine che nei suoi vari tipi è concepita come aiuto per il lettore,31 tanto che «non possiamo che provare un gran rispetto per chi riesce con tanta maestria a tradurre l’inapprendibile in immagini visive».32 Dante poeta che traduce visivamente ciò che altrimenti non si
comprenderebbe, come un’allegoria. Ma come può intendere l’allegoria il lettore moderno (e l’allegoria di un’allegoria posta in essere dalla lettura moderna)?
Ad esempio, per il canto I dell’Inferno Eliot suggerisce addirittura di ignorare il significato delle tre figure allegoriche, e all’opposto di considerare il processo «che permette a chi possiede un’idea di esprimerla in immagini».33 Predilige, dunque, l’attenzione alla mente poetica costruttiva invece che all’interpretazione del senso. E se questa mente ricorre all’allegoria, allora traduce con un procedimento poetico idee in chiare immagini visive. (Chiare per chi?, ci domanderemo). L’immaginazione di Dante è visiva «in quanto egli visse in un’epoca in cui la gente aveva ancora delle visioni».34 Avere delle visioni equivale a sognare, prosegue lo scritto, e questo è (era) un procedimento più ordinato rispetto al sogno stesso: se il sogno fa riferimento all’inconscio individuale, l’immaginazione visiva fa riferimento ad un sistema comunicativo collettivo. Dunque, l’allegoria non può che essere una disposizione mentale, una sorta di facoltà che, se espressa ad un quoziente alto («il livello del genio»), poteva rivelare un grande poeta, così come un mistico o un santo.
L’interpretazione eliotiana presuppone che ci si eserciti in una sorta di capacità sensoriale: la percezione poetica coglie l’immagine di per sé allegorizzata, e comunque la vede e la sceglie per via del chiaro e semplice potere di riferimento, senza mediazione e senza resti. La genialità starebbe a monte, nella percezione visiva, e questo più-chevedere nell’avere visioni che accomunerebbero pubblico e
autore.Anche se alquanto rudimentale, l’ipotesi poggia sul valore chiarificatore, esemplare e diretto (e anche mistico), concentrato nell’immagine di Dante, persino in opposizione all’immagine di Shakespeare, che è «più un’espansione che una concentrazione».35 Ne deriva che, come il lettore non potrà fare a meno di un incessante confronto fra le cantiche, così dovrà prestare grande attenzione alle
«immagini successive, fantasmagoriche ma chiare, immagini concatenate in quanto ciascuna rinforza la precedente»36; giacché questo lettore (come Eliot di fronte alle figure di Ulisse e di Brunetto Latini) cercherà per sé il movente della sorpresa («che Poe affermò come essenziale nella poesia»)37, e altri effetti come terrore, shock, incredulità, disagio. Per questi motivi, una buona lettura dell’Inferno, che come per le altre cantiche consiste in una continua rilettura, può attuarsi attraverso la comprensione della «proiezione di immagini sensoriali»38, e dunque per Eliot l’Inferno va letteralmente vissuto non come luogo ma come stato.
«Insisto nel ripetere che il vero significato dell’Inferno può essere colto soltanto dopo una buona lettura delle altre due parti»;39 «Il Purgatorio comincerà a rivelare le sue bellezze solo dopo che avremo letto completamente il Paradiso
e riletto l’Inferno»;40 «La questione di base è che il poema di Dante è un tutto unico e che, alla fine, bisogna arrivare a capirlo tutto per poterne comprendere una parte qualsiasi»:41 criticamente, in un modo avveduto che nel ’29 avrebbe giovato a molta attardata critica italiana, la sottolineatura riguarda pur sempre l’unità e l’universalità della Commedia, e il consiglio per il lettore moderno è giustamente
orientato alla possibilità di relazionare le parti e le cantiche fra loro. Anche se per noi potrebbe essere poco rilevante, per Eliot vi è un vantaggio nel sistema, anche
questo unitario, dei riferimenti filosofici dell’opera: «Il vantaggio è rappresentato da un sistema tradizionale e coerente fatto di dogmi e di aspetti etici come quello cattolico: esso è autonomo rispetto a chi lo propone, e può essere capito
e accettato anche senza essere creduto».42 Per cui, per «apprezzare la poesia del Purgatorio non è necessario credere, bensì sospendere la credenza. È uno sforzo che viene richiesto sia all’uomo d’oggi per accettare il metodo allegorico di Dante, sia all’agnostico per comprendere la sua teologia».43 Sospendere la credenza, però, non vuol dire rimanere insensibili di fronte alle visioni escatologiche di
Dante. Eliot stabilisce la sua preferenza per quel tipo di sogno elevato in opposizione ai sogni umili della nostra epoca,44 e in questa distinzione indica un personale percorso: «Mi ci sono voluti molti anni per riconoscere che gli stati di progresso e di beatitudine descritti da Dante vanno ben oltre, rispetto a ciò che il mondo moderno interpreta come felicità, a quelli di castigo».45 E inoltre, là dove tutto è facile e diretto, a patto che si tenga conto dell’immagine codificata in partenza e della quale dovremmo, anche noi, possedere le chiavi in partenza, l’unica serie di difficoltà da affrontare (nello specifico, a proposito del Paradiso) non riguarda noi lettori ma proprio Dante come autore.46 Sotto sotto l’invito è, dunque, a farsi partecipi della gradualità e della insistenza che Dante mette in atto come guida implicita in un percorso via via più complesso, secondo Eliot, se culmina nella poetica della luce, «un’esperienza tanto remota da quella quotidiana», eppure espressa in modo così concreto, «quella poetica della luce, che è la forma di certi tipi di esperienza mistica». 47
Anche nella parte del saggio dedicata alla Vita nuova, Eliot mette in evidenza la consonanza con la cosiddetta letteratura della visione48: riferirsi a oggetti, a figure, significa, in pieno accordo con una personale poetica, fare chiarezza nel mondo altrimenti oscuro, inapprendibile, nascosto, dell’uomo contemporaneo. Perciò propone di considerare il libro «come una mescolanza di biografia e allegoria; una mescolanza, tuttavia, ottenuta mediante una ricetta perduta per la ‘mente moderna’».49 Così che il lettore dovrà ora superare una sorta di incredulità50, e non gli sarà difficile farlo se, come primo atto di conoscenza, sarà in grado di stabilire la differenza tra «il modo di pensare e di sentire» di Dante e quello nostro. E allora dovrà far sì che non gli appaiano strane e estranee «le forme dell’immaginazione, della fantasmagoria e della sensibilità»,51 ciò che addirittura dovrebbe considerare «il sistema organizzativo dantesco della sensibilità».52 Come si può vedere, la riflessione di Eliot termina con la richiesta di un vero e proprio patto della lettura: affidarsi a Dante per capire Dante.
L’ultimo scritto interamente dantesco è del 1950.53 In effetti riassume in forma confidenziale (si tratta di una conferenza tenuta in inglese all’Istituto Italiano di Cultura di Londra) il senso di un’assidua frequentazione e, a differenza degli altri interventi, nei termini di un’influenza e un debito contratti quarant’anni prima, allorché il poeta si vede intento a decifrare la Commedia, e contemporaneamente
a imparare a memoria i passi che più lo attraggono: «così, per alcuni anni, fui in grado di recitarmi buona parte di questo o di quel canto stando a letto o durante un viaggio in treno».54 Il debito (di un moderno che si comporta come un autore della tradizione) diviene con il tempo «progressivamente cumulativo».55 E siccome Eliot è un poeta abituato a ripagare i debiti, e quanto meno a farli venire allo scoperto, complementarmente a Dante riconosce la presenza del più classico dei moderni, ovvero Baudelaire che, analogamente al suo maggiore, gli apre «la possibilità di fusione tra il sordidamente realistico e il fantasmagorico, la possibilità di unire il reale e il fantastico».56 Dante, più a monte, è oggetto di imitazione formale prima di tutto: al posto dell’inimitabile terza rima il poeta novecentesco
pensa di poter adottare, con effetto analogo, terminazioni maschili e femminili, senza l’ausilio della rima.57 Si sviluppa così in Eliot quella estrema propensione
ad un’economia di linguaggio che tanto è semplice e preciso quanto non può permettersi ripetizioni di sorta;58 in particolare sperimenta il piacere di un progetto a struttura, di un’armonia e relazione fra le parti del testo, e di una linea comunicativa nelle soluzioni fonoritmiche a richiamo musicale fra insiemi di versi. Dunque, il poeta assume per sé, protetto dall’ombrello dantesco e da una
forma memorizzata, l’impegno di un linguaggio «più raffinato e più preciso di quanto non fosse prima».59 Ancora in questo scritto dantesco Eliot insiste sull’ampiezza della sfera emotiva60, autentico impegno per la sperimentazione del proprio linguaggio, e ribadisce quanto ha più volte detto in oltre trent’anni di riflessioni critiche: «La Divina Commedia esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare».61 Perciò, se è vero, l’opera nel suo insieme diviene ai suoi occhi un supercodice, un registro onnicomprensivo della sperimentazione dell’umano. Quanto poi alla figura di Dante poeta europeo,62 gli argomenti, ben noti, toccano il suo non essere locale, non provinciale, e in definitiva il più vicino a un’area interculturale europea, pur essendo la narrazione dantesca radicata nei luoghi, nella provincia medievale, nella lingua italiana del Due-Trecento. Questo miracolo, d’istinto, il poeta di The Waste Land testimonia
nella propria totale dedizione ad un primato, per cui non è minimamente sfiorato dall’idea che altri potrebbero condividere quel seggio. La realtà sinottica di Dante, la sua trama unitaria, il rigore dell’intenzione e della parola non lasciano adito a sospetti. Eliot confessa a proposito dell’elaborazione di The Waste Land: «volevo presentare alla mente del lettore un parallelo, per contrasto, tra l’Inferno e il Purgatorio che Dante aveva visitato e una scena allucinata dopo un’incursione aerea. Ma ciò che differisce è il metodo: qui non mi era consentito citare o adattare per esteso – e infatti presi e adattai liberamente solo poche frasi – perché stavo imitando».63
Chiuso il testo dell’ultimo scritto su Dante, torniamo ancora al saggio del 1929, là dove il poeta marca in termini danteschi una differenza tra metafora e allegoria. «Il tentativo di Dante – scrive – consiste nel far vedere a noi ciò che egli ha visto. Per tale motivo egli fa uso di un linguaggio molto semplice e di pochissime metafore, dal momento che allegoria e metafora non vanno d’accordo».64 E chiediamoci ancora: perché questa funzione primaria dell’allegoria? perché allegoria e metafora non si accordano? Perché, mentre la metafora svolge per Eliot un ruolo
accessorio, e grazie ad essa il discorso si avvicina alla comprensione del lettore, l’immagine allegorica produce un effetto di diretta interpretazione se il lettore, e nello specifico quello medievale, riconosce il riferimento sensibile ad un universo morale condiviso, in sé ordinato rispetto alle finalità. L’allegoria come visione di riferimento consentirebbe il riconoscimento pieno del significato. Il Dante di Eliot si pone sempre piú come modello esemplare di poesia che supera la storia e focalizza le somiglianze, immutate nel tempo, dell’esperienza umana: «Il linguaggio cambia, ma i nostri occhi sono sempre gli stessi».65
Sotto queste lenti l’opera di Dante diviene la stessa allegoria della poesia. Ma cosa succede se viene meno il quadro di riferimento della perfetta risposta allegorica alla ricerca della verità? della rassicurante corrispondenza tra senso e interpretazione? E soprattutto, cosa succede nella poesia contemporanea che altre corrispondenze mette in crisi? Naturalmente l’imitatio Dantis, ed Eliot lo sa, non è
pensabile, opera in partenza imperfetta per il poeta contemporaneo che trasferisce a modo proprio il trasumanar, ciò che l’imperfezione deve scontare sull’altare perfettamente efficiente della (lontana) allegoria dantesca. Sappiamo
che sotto il grande ombrello della Commedia ben altro si muove, e ben oltre, imprevisto, contraddittorio, interlocutorio, riguardo al sordido e beato mondo presente, grazie alla poesia di Eliot.

Budapest, gennaio 2009

 

NOTE

1 Paradiso, I, v. 89.
2 Thomas Stearns Eliot, The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, McThuen & Co., London 1920; trad. it. di L. Anceschi, Il bosco sacro, Mursia, Milano 1971, p. 138.
3 Il bosco sacro, cit., p. 105: «egli non sciupò i suoi anni di giovinezza in ricerche metriche; e quando giunse alla Commedia, sapeva come depredare a destra e a sinistra».
4 Thomas Stearns Eliot, Dante, Faber & Faber, London 1929; cito dalla trad. it. di G. Vidali, Dante(II), in Scritti su Dante, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 2001, p. 44.
5 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Thomas Stearns Eliot, in Opere. Letteratura inglese, introduzione e premesse di G. Lanza Tomasi, a cura di N. Polo, VIa ed., Mondadori, Milano 2006, pp.1372-1373: «Soltanto questa spirale (e tutta su spirali discendenti e ascendenti è costruita la Commedia ed è questo fra l’altro che conferisce ad essa il suo singolarissimo valore di continuo movimento e di lenta ascesa; il che dimostra quanto sia errato il concetto crociano che nega valore poetico alla costruzione dantesca) questa spirale, dicevo, è rappresentata da Eliot come una comune brutta scala di casamento moderno sulla quale ascende l’anima, fuggendo da una figura sinistra che ha ‘the deceitful face of hope and of despair’. Ma, come in Dante, il cammino diviene più facile via via che si ascende».
6 Scritti su Dante, cit., p. 46.
7 Samuel Beckett, Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce, in Le opere, UTET, Torino 1973, p. 491.
8 Op. cit., p. 22.
9Mihály Babits, Storia della letteratura europea, trad. it. diM. Masini, Carocci, Roma 2004, p. 124.
10 Op. cit., p. 50.
11 Giuseppe Ungaretti, Secondo preambolo alla ‘Commedia’ (1938), in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P.Montefoschi, Mondadori, Milano 2000, p. 1053.
12 Paul Zumthor, Essai de poétique médiévale, Éditions du Seuil, Paris 1972; trad. it. di M. Liborio, Semiologia e poetica medievale, Feltrinelli, Milano 1973, p. 131: «Essa estrae da un frammento
del reale un senso indiscutibile; proclama e genera un ordine, chiaro, privo di frange inquietanti. Essa procede da una sorta di ottimismo fondamentale: nulla è privo di senso, e quest’ultimo può essere posseduto. Essa implica che la struttura della verità è fissa, oggettiva, spiegabile, e che colui che la conosce può esserne cambiato. Attesta che il più generale non è il più immateriale: ciò che ci appare come una semplice astrazione stilisticamente personificata è realtà perché Nome»; «l’allegoria costituisce un discorso i cui elementi sono facilmente riconosciuti dall’ascoltatore, che li riferisce a un’altra realtà ben definita, situata al di là di essi».
13 Adelia Noferi, Frammenti per i Fragmenta di Petrarca, Bulzoni, Roma 2001, p. 236: «La cultura medievale, con la vasta e protratta elaborazione teorica dell’allegoria, aveva innalzato una forte,
complessa, articolata, sufficientemente elastica, sicura e stupenda barriera per arginare l’ambiguità della polisemia e la deriva della produzione del senso. Aveva organizzato il processo di significazione limitando in estensione il numero dei significati, distribuendoli a strati ed a livelli gerarchicamente sovrapposti, ancorandoli saldamente ad una assoluta oggettività e ad una assoluta verità: quella di Dio, della parola e della scrittura di Dio e dei modi stessi del suo discorso […], quel discorso divino che, attraverso enigmi e allegorie, include nel senso delle parole anche ciò che è insignificabile e incomprensibile. L’allegoria era un congegno, una ‘macchina’ di linguaggio rassicurante e perfetta».
14 Umberto Eco, Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Bompiani, Milano 2007, p. 140.
15 Ivi, p. 139.
16 Cfr. l’impeccabile lettura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che allarga il campo dei riferimenti danteschi, in op. cit., pp. 1371-1372.
17 Thomas Stearns Eliot, Dante as a «Spiritual Leader», in «Athenaeum», 2 aprile 1920; ora con il titolo Dante (I), trad. it. di V. Di Giuro, in Scritti su Dante, a cura di R. Sanesi, cit.
18 Ivi, p. 4.
19 Ivi, p. 8.
20 Ivi, p. 12.
21 Ivi, p. 11.
22 Ivi, p. 13.
23 Ivi, p. 14.
24 Scrive molto semplicemente nel Bosco sacro, cit., p. 177, che Dante come Lucrezio sa prendere a prestito, con «talento piuttosto mediterraneo», la filosofia per la propria poesia, una filosofia dell’anima. Su questa tematica si veda il continuo e approfondito lavoro di un filosofo intorno all’opera di Dante, ovvero János Kelemen, in particolare in lingua italiana Per la ricostruzione della filosofia del linguaggio di Dante, in «Verbum», III, 2001/1,Akadémiai Kiadó, Budapest 2001, pp. 111-129.
25 Thomas Stearns Eliot, Dante, Faber & Faber, London 1929; cito dalla trad. it. di G. Vidali, Dante(II), in Scritti su Dante, cit.
26 Ivi, p. 18.
27 A questo proposito si veda il parallelismo a tre, che sonda il primato dantesco sulla figura di Goethe e su quella di Shakespeare. Cfr. la conferenza del 1955 intitolata La saggezza di Goethe, in
Sulla poesia e sui poeti, trad. it. di A. Giuliani, Bompiani, Milano 1960, pp. 234-250; ed. or. Essays on Poets and Poetry, Faber & Faber, London 1957.
28 «Il linguaggio cambia, ma i nostri occhi sono sempre gli stessi. E l’allegoria non era certo una caratteristica italiana, ma un metodo diffuso in tutta l’Europa». Dante (II), cit., p. 25.
29 Ivi, pp. 21-23.
30 Ivi, p. 50.
31 Ivi, p. 48.
32 Ivi, p. 49.
33 Ivi, p. 24.
34 Ibidem.
35 Scritti su Dante, cit., p. 26.
36 Ivi, p. 28.
37 Ivi, p. 29.
38 Ivi, p. 32.
39 Ivi, p. 35.
40 Ibidem.
41 Scritti su Dante, cit., p. 40.
42 Ivi, p. 40.
43 Ivi, p. 41.
44 Ivi, p. 44.
45 Ibidem.
46 Cfr. Scritti su Dante, cit., p. 47: «è pur vero che i ‘passi difficili’ del Paradiso sono una difficoltà più per Dante che per noi, nel senso che rappresentano il suo sforzo per farci apprendere con i sensi i diversi gradi e le varie fasi della beatitudine».
47 Ivi, p. 49.
48 Ivi, p. 56.
49 Ibidem.
50 Scritti su Dante, cit., p. 58: «La stessa esperienza, descritta in termini freudiani, sarebbe stata immediatamente accettata come una realtà da un pubblico moderno. Il fatto è che Dante, in modo del tutto ragionevole, è arrivato ad altre conclusioni e ha usato modi diversi di espressione, i quali suggeriscono una certa incredulità».
51 Ivi, p. 62.
52 Ivi, p. 60.
53 What Dante Means to Me, conferenza londinese del 4 luglio 1950, edita in To Criticize the Critic, a cura di V. Eliot, Faber & Faber, London 1965; cito dalla trad. it. di G. Rivolta, Cosa significa Dante per me, in Scritti su Dante, cit.
54 Ivi, p. 67.
55 Ivi, p. 68.
56 Ivi, p. 69.
57 Ivi, p. 72.
58 Ivi, p. 73.
59 Ivi, p. 77.
60 Ivi, p. 78.
61 Ivi, p. 78.
62 Ivi, p. 79.
63 Ivi, p. 71.
64 Ivi, p. 25.
65 Ibidem.


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Addio ad Anna Maria Volpini

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