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Semicerchio XXXVII (2007/02) La forma chiusa. Poesia dal carcere. pp9-11
Intervista raccolta da Martha Canfield
In uno dei suoi molti soggiorni a Firenze, ÁlvaroMutis ha avuto la generosità di starsene intere giornate, lungo un’indimenticabile settimana, a chiacchierare con me su molti aspetti della sua attività letteraria, la sua concezione poetica, le sue particolari prospettive storiche, oltre che ad analizzare poesia per poesia ognuna delle sue raccolte, e poi anche i racconti e i romanzi… Queste conversazioni sono state registrate e in seguito sbobinate, ma solo in minima parte pubblicate. Ciò che presentiamo ora corrisponde al nastro n. 3, da emtrambi i lati. Sulla versione originale abbiamo operato numerosi tagli dovuti alle esigenze di spazio della presente pubblicazione, e l’abbiamo tradotta in italiano, sottoponendo il risultato all’approvazione dell’Autore. Ricordiamo che Mutis, nato a Bogotá nel 1923, pubblicò il primo libro di poesie nel 1948, subito apprezzato dalla critica, e iniziò rapporti di collaborazione e amicizia con il gruppo della prestigiosa rivista «Mito», diretta dallo scrittore Jorge Gaitán Durán.Ma nel 1956 dovette lasciare precipitosamente la Colombia, nella quale non tornò a vivere mai più. Ricercato dalla polizia per l’accusa di peculato, mossa contro di lui dalla compagnia Esso per la quale lavorava, Mutis si rifugiò in Messico e lì rimase definitivamente, rifacendosi una vita e sposando Carmen, compagna della sua vita fino al giorno d’oggi, scrivendo una cospicua straordinaria opera in versi e in prosa, per la quale ha ricevuto alcuni dei più importanti premi letterari internazionali, ultimo dei quali il Cervantes nel 2002. Ma questo è avvenuto dopo aver scontato quindici mesi di carcere, in attesa di giudizio, nel terribile penitenziario di Lecumberri. Questa è stata un’altra – non l’unica – esperienza limite della sua vita, e da essa sono nati subito una serie di racconti – esordio narrativo del poeta – e il drammatico Diario de Lecumberri (1960), più tardi estrapolato dall’insieme e ristampato con il nuovo titolo di Cuadernos del Palacio Negro (1992).
In quali circostanze hai iniziato a scrivere il Diario de Lecumberri?
Quando ero in carcere, ho iniziato a scrivere una serie di note su fatti di cui ero testimone e che mi colpivano profondamente. Non avevo un progetto molto definito. Si trattava piuttosto di occupare il tempo della prigione, spesso molto pesante. Così cominciai a scrivere i racconti che si intitolano Sharaya, Prima che canti il gallo e La morte dello Stratega.
Questa prima stesura, l’hai considerata definitiva?
Assolutamente no. All’inizio non avevo un’idea precisa di quello che volevo fare con quegli scritti.Ma quando sono uscito dal carcere, mi sono accorto di avere in mano un libro, fatto di quelle narrazioni con in più le note sulla vita del carcere.
In quelle note, comparivano personaggi reali, persone con cui convivevi?
Sì.Avevo una serie di ritratti di personaggi veri, di qua dri del carcere, oltre a tre racconti che parlavano d’altro. Ma il carcere aveva influenzato anche l’ambientazione degli stessi racconti, cosa evidente, ad esempio, in Prima che canti il gallo.
Come hai organizzato il libro che avresti pubblicato una volta uscito dal carcere?
Inframmezzando i ritratti dei carcerati con le narrazioni e usando il corsivo per distinguere una linea narrativa dall’altra. Consegnai quella versione originale a Sergio Galindo e venne pubblicata senza alcuna modifica1. Credo che sia le note del carcere, sia i racconti, tutto essenzialmente letterario, continuano la mia poesia, ripetono tematiche particolari che erano già presenti nella mia poesia. Voglio dire, non c’è un salto radicale verso la narrazione. Il libro venne accolto molto bene e rimase sempre così. Non ho mai pensato di fare qualcosa di diverso con quegli appunti. Penso in particolare ai ritratti dei carcerati. Così sono rimasti e così voglio che rimangano.
Ma nelle edizioni più recenti hai separato i racconti dal diario.
Sì. Nell’edizione francese, ad esempio, che si intitola Le dernier visage, è così.
Hai aggiunto però ai tre racconti originali, quello che hai scritto dopo su Bolívar, L’ultimo volto…
Sì, quella è l’edizione di Siruela2. E poi, separatamente, ho pubblicato il Diario con un nuovo titolo, I quaderni del Palazzo Nero, come veniva chiamato Lecumberri3.
Perché hai voluto separare il Diario dai racconti?
Questa è per me prosa precedente i miei romanzi e non voglio che si creino confusioni. Voglio che ogni cosa occupi il proprio posto.
Eppure all’inizio c’era qualcosa che li riuniva.
Certo, ma è solo il fatto di averli scritti, o quanto meno concepiti, in carcere.
Vuoi dire che il legame era solo circostanziale?
Sì, quindi oggi tenerli uniti non ha più senso.
Riguardo alle storie che racconti, per esempio lo spaccio di droga e tutto il resto, corrispondono esattamente a quello che hai vissuto?
Tutto quello che dico è reale e vissuto. Nei minimi particolari, perché il Diario fu scritto man mano che accadevano le cose.
Allora confermi che tutti i personaggi sono reali. Dopo, in alcune interviste che hai concesso, hai raccontato cose del carcere che sono meno terribili. C’è perfino qualcosa di ameno, un rapporto ludico e creativo con gli altri detenuti e con il carcere stesso. Tu pensi che la distanza ti abbia permesso di recuperare questi aspetti, o di modificare in qualche modo i tuoi ricordi?
L’esperienza del carcere è orribile, e sottolineo “orribile”. Profondamente dolorosa. Ma con il passare degli anni, come ogni esperienza drammatica, finisce per diventare formativa. Nel mio caso, per esempio, mi avvicinò all’essere umano, all’uomo comune. E mi confermò nel rifiuto di giudicare chiunque: lì ho capito che perfino il più pericoloso criminale serba dentro di sé un innocente. E ho capito che la società è più colpevole del fatto che quella persona sia così, della persona stessa. Oggi io posso descrivere il carcere con un certo distacco, perfino in modo “ameno”, come dici tu. Ma quello non era ameno per niente, era spaventoso! Certo ci sono stati momenti liberi dall’orrore, come quando mi improvvisai regista teatrale. Fare teatro a Lecumberri fu qualcosa di bello e certo insolito nella vita carceraria. Fu qualcosa di eccezionale, che coinvolse un gruppo dei prigionieri e che risultò positivo soprattutto per noi stessi. Mi ricordo sempre del tipo che sceneggiò la storia del Cochambres4, che dopo abbiamo messo in scena. Quello che la scrisse era un giudice, in galera chissà per quale reato. E un giorno venne nella mia cella e mi disse: «Ascolta, Álvaro, non guardarla come un’opera di teatro, ma soltanto come una prova che farà bene a tutti noi. Metterla in scena sarà qualcosa di positivo, che ci permetterà di riscattarci da tante di queste ore vuote e spaventose». E mi convinse.
Significava fare qualcosa di creativo.
Sì. In primo luogo, una cosa creativa, e poi giocare in scena. Era veramente piacevole. E il giorno che il direttore ci autorizzò a fare lo spettacolo e a mandare gli inviti, abbiamo avuto una grande gratificazione. La sala si riempì di intellettuali, di gente di teatro e di giornalisti che il giorno dopo ne parlarono elogiativamente. E in prima fila era seduto Luis Buñuel. Tuttavia, devi sapere che questo avveniva in mezzo ad altre cose sinistre. Proprio sinistre! E nel frattempo io sentivo il peso di un enorme dubbio: cosa sarebbe stato di me? Che avrei fatto se il governo colombiano fosse riuscito a farmi trasferire in Colombia?
Non avevi nessuna certezza di quando avrebbe potuto finire quell’incubo?
No, non ce l’avevo. E ricorda che sono uscito dal carcere perché è caduto il generale Rojas Pinilla. Una volta caduto il governo militare e salita al potere la Giunta, in cui c’erano diversi amici miei, questi sono riusciti a dimostrare tutti i vizi del processo, non ultimo il fatto di essere stato giudicato da un tribunale militare, e così sono stato liberato «perché il fatto non sussiste».
In effetti, si sa che il tuo processo era legato al regime oppressivo della dittatura di Rojas Pinilla. Tu eri estraneo e contrario al regime. Una curiosità: perché i personaggi del Diario ti chiamano «maggiore»?
Perché sono stato nominato il maggiore di una corsia. Quel carcere era gestito dai carcerati. E le autentiche autorità interne del carcere erano, in effetti, carcerati. L’edificio era circolare, un panoptico5, ed era diviso in sezioni che confluivano nel centro, fai conto come quando tagli una torta.Allora, in ogni pezzo della torta o corsia, si concentravano delinquenti di un certo tipo: ladri, omicidi, trafficanti di droga, omosessuali, truffatori. Io ero il “maggiore”, ossia il capo, di una corsia molto difficile, la corsia H, dove venivano sistemati i detenuti appena arrivati. Dovevano stare lì per settantadue ore, mentre aspettavano la decisione del giudice, se c’era luogo a procedere, e quindi rimanevano in galera fino al processo, o se venivano scarcerati. Quindi tu capisci che lì arrivava di tutto, poveri disgraziati, innocenti accusati per errore, e veri criminali…
Perfino omicidi…
Omicidi pure. O qualcuno che era rimasto incastrato… O una persona accusata di frode e che poi risultava innocente.
Vuol dire che era una sezione molto eterogenea.
Molto. E molto pericolosa. Lì potevi trovare anche criminali senza scrupoli. Tutti loro mi chiamavano «maggiore», perché io comandavo quella corsia.
E tutti parteciparono alla rappresentazione teatrale?
Molti di loro. Mi ricordo di uno che faceva il parrucchiere e che aveva sgozzato la moglie con un rasoio.
Il Diario venne pubblicato subito dopo la tua scarcerazione, forse anche per l’interessamento di alcuni buoni amici di allora?
In parte sì. Allora frequentavo un gruppo di scrittori giovani, come Carlos Fuentes, vicini a Octavio Paz, e grazie a loro ho conosciuto altre persone che dopo sono stati i miei amici di sempre: Jomí García Ascot, Ramón Xirau, Tomás Segovia, Jaime García Terrés. Un gruppo legato alla «Revista Americana de Literatura»...
NOTE
1 ÁlvaroMutis, El diario de Lecumberri, Universidad Veracruzana, Xalapa-México, 1960. Contiene cinque frammenti del Diario, tra i quali sono intercalati i tre racconti, Antes de que cante el gallo, Sharaya, e La muerte del Estratega. 2 Álvaro Mutis, El último rostro, Siruela, Madrid, 1990. 3 Álvaro Mutis, La mansión de Araucaíma y Cuadernos del Palacio Negro, Siruela, Madrid, 1992. Il volume contiene il Diario, nella sua versione originale diviso in cinque frammenti; il romanzo La mansión de Araucaíma, pubblicato per la prima volta a Buenos Aires nel 1973; sei articoli giornalistici pubblicati inMessico nel 1982; e quattro testi pubblicati sotto lo pseudonimo di Alvar de Mattos nella rivista «Snob», inMessico, nel 1962. In italiano, vedi Storie della disperanza, a cura di Gaetano Longo, Einaudi, Torino, 2003; contiene: Un Re Mago a Pollensa, La morte dello Stratega, Diario di Lecumberri, I testi di Alvar de Mattos, Intermezzi. 4 Il prigioniero chiamato Cochambres era finito in galera perché la polizia l’aveva trovato a dormire sul Paseo de la Reforma, storico viale di Città delMessico, sopra un’aiuola fiorita, e il giudice lo condannò per «Danni a proprietà dello stato», un reato gravissimo. L’uomo era analfabeta e in carcere imparò a leggere e a scrivere. Mutis ha sempre parlato di lui con grande simpatia. 5 Panóptico: carcere panòptico, costruito in modo che tutto l’interno si possa vedere da un solo punto.
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