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ANNE CARSON, Antropologia dell’acqua, trad. di Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello, Roma, Donzelli Editore, 2010, pp. 165, € 24.

 

 

Antropologia dell’acqua è l’ultima sezione di Plainwater: Essays and Poetry, terza raccolta poetica di Anne Carson. ‘Plainwater’: acqua corrente, quella che sgorga dalle fonti e dai rubinetti, la sorgente di vita in cui siamo immersi e che diamo per scontato, quell’elemento primigenio dei miti classici e biblici, all’origine di ogni civiltà. L’aggettivo plain non semplifica, ma accresce i significati che la parola acqua porta in sé – una parola plurale, reale e metaforica, la parola che guida la straordinaria immaginazione di Carson in questo straordinario libro in cinque parti. La sua pubblicazione nel 1995 segnò l’inizio della notorietà internazionale di Anne Carson. Segnò anche la nascita di quel genere ibrido, fatto di poesia, prosa e suggestivi saggi lirici, spesso elaborati su testi antichi, che caratterizza la sua scrittura. Carson è anche una nota traduttrice di letteratura classica e docente di comparatistica alla Chicago University. Plainwater si apre infatti con una sua personale versione di 23 frammenti di Mimnermo accompagnata da un commento e da tre interviste immaginarie al poeta elegiaco greco che Carson finge di raggiungere nello spazio temporale del VI secolo a.C. per interrogarlo sui suoi testi e ricevere in risposta solo silenzi o frasi frammentarie ed enigmatiche. Questi viaggi a ritroso che mettono in relazione le lingue e le culture antiche con il vernacolo e i contesti contemporanei è il metodo di lavoro di questa scrittrice che spesso fa coesistere la classicità con il mondo pop e postmoderno. La studiosa e la traduttrice si trasforma così in una voce intermedia per creare l’illusione di un’anacronistica unità fra passato e presente senza cancellare le differenze, la doppia o la multipla prospettiva. Sono soprattutto i testi sopravvissuti in frammenti o incompleti, come quelli di Mimnermo, ad affascinare Carson, la quale ha definito la sua poetica un dipinto fatto, come i papiri, di pensieri circondati dallo spazio bianco in cui vive tutta un’esperienza remota, invisibile e irraggiungibile. Questa erudita poetessa-filologa punta dunque alla ricostruzione di una unità perduta mixando fiction e non-fiction, generi diversi e autobiografia in un inglese attuale che porta le tracce della sua profonda conoscenza e venerazione per la lingua greca. Il risultato sono i suoi versenovel, o romanzi in versi, dei palinsesti contemporanei nati da un sofisticato gioco linguistico e culturale dove quasi ogni parola lascia intravedere in filigrana infiniti percorsi. Antropologia dell’acqua, l’ambizioso finale in tre sezioni di Plainwater, ne è un esempio. Qui l’immaginazione di Carson si muove fluida intorno all’impossibilità di «trattenere» gli uomini della sua vita – padre, fratello, amanti, amici e lo stesso Dio. Come l’acqua le sono tutti scivolati via dalle mani; come l’amore – filiale, fraterno e erotico – appartengono a territori alieni da avvicinare scientificamente come fa un antropologo quando incontra culture sconosciute. L’immagine archetipica dell’acqua, trasversale alla vita e qui metafora dell’altro maschile, la spinge alla ricerca di domande e risposte alla sua sete di conoscenza. Il primo testo di questo trittico è un diario intimo del suo pellegrinaggio verso Santiago di Compostela con un compagno soprannominato il ‘Mio Cid’, tanto diverso da lei che pur procedendo fianco a fianco camminano in «paesi diversi». Lui guarda ai semplici fatti; lei, disorientata, cerca un cammino oltre il tempo e i luoghi reali, vuole aprire porte chiuse, colmare una sete che non riesce a placare neanche alla fine del viaggio quando, oltre Compostela, raggiunge Finisterre e il limite fra terra e acqua, conoscenza e mistero. L’itinerario medievale è scandito dai nomi dei luoghi oppure scorre sottotraccia, evocato da echi che rimandano alla celebre Guida del XII secolo e a reminiscenze storiche. Le epigrafi che precedono le annotazioni, per lo più tratte da poeti e autori di teatro giapponesi, sono brevi sentenze o haiku che risuonano nel discorrere fluido della donna e annunciano gli epigrammi finali. I quali, nel loro insieme, compongono una guida del pellegrino contemporaneo in viaggio verso personalissime mete. La scrittura procede per stratificazioni di pensieri e parole, suggestioni che attingono anche a uno dei miti classici dell’acqua, quello di Danao e delle sue cinquanta figlie. In Amimone, la figlia che rompe il legame col padre disobbedendo al suo ordine di uccidere lo sposo nella prima notte di nozze, Carson si identifica legando il racconto al difficile rapporto col proprio padre, temuto e desiderato anche quando, distrutto dall’Alzheimer, non esiste più la possibilità di decifrare il suo linguaggio ermetico e avere risposte a domande rimaste in sospeso. Acqua è qui più che mai una parola plurale, come lo è sempre stata antropologicamente: è fonte di vita e di morte, è sacra e profana, visibile e sotterranea, culturale e biologica, della memoria e dell’oblio. Come sono plurali le immagini ricorrenti del ponte e della strada, metaforiche e reali; oppure le invisibili fotografie che Carson, tappa dopo tappa, invita il lettore ad osservare con l’occhio dell’immaginazione, perfino invitandoci a ingrandirle. Così si procede nella lettura, affabulati da una lingua seducente che obbliga a soffermarsi su frasi bellissime e dense di mistero: «Viviamo grazie alle acque che sgorgano dal cuore», «È già tardi quando ti svegli dentro una domanda», «Il mattino è chiaro. I cuori fumano. Le distanze diventano silenziose». Anche il secondo testo di Antropologia è un diario di viaggio, un saggio sulla differenza tra donne e uomini e un trattato sull’amore erotico dalla prospettiva femminile sullo sfondo del maestoso paesaggio dell’ovest americano. Il compagno-amante è soprannominato «Imperatore» perché è un antropologo della Cina e usa questo viaggio per approfondire il cinese classico. Così i frammenti di «antica saggezza cinese» che l’uomo offre alla sua compagna dilatano il presente nel passato e lo rispecchiano nella storia della corte cinese del 1553, dell’imperatore Hades, le sue concubine e la sua consorte, Lady Cheng, appassionata di cartografia. Infine, nel terzo testo, il fratello scomparso in un altrove geografico e mentale è ritratto come un nuotatore esperto in una serie di istantanee sullo sfondo di un lago e in compagnia di un gatto nella mutevole luce del giorno e della notte. Insieme a Autobiografia del rosso, una libera e suggestiva reinterpretazione del mostro Gerione pubblicata da Bompiani nel 2000, Antropologia dell’acqua offre ai lettori italiani l’opportunità di avvicinarsi ai percorsi epistemologici e all’affabulante lingua di una grande scrittrice.

(Antonella Francini)


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